Frammenti in forma di visione. La città ideale

da | Lug 26, 2016

di Franca Mancinelli

Sorge quando chiudo gli occhi. Nitida come un’isola che appare a un tratto, oltre la foschia e le brume all’orizzonte. La vedi e non puoi che crederci anche se stai sognando e lo sai. Accade ogni volta in una luce diversa, come se quella piazza e quelle strade fossero la scenografia di una storia. Forse soltanto il fantasma di una voce che ha preso fiato, un vento radente sui ciottoli che attraversa in mulinelli di polvere lo spazio, che batte leggero alle finestre come un uccello che ha perso lo stormo.

Andavo diretta, a passi sicuri, verso la porta socchiusa. Quella della grande pagoda che un incantesimo ha fermato al centro di questo dolce deserto disegnato. Avanzavo sui grandi lastroni di marmo cenere e sabbia. Non potevo distogliere gli occhi da quella geometria che sembrava condurmi: al centro, al centro, come una biglia che rotola prendendo velocità, avvicinandosi al foro dove deve cadere. Era quel buio oltre la porta e una paura che cresceva, che avrebbe potuto prendermi il corpo e scuoterlo, bloccarmi; ma era impossibile, i miei passi continuavano verso il centro mentre il terrore sbocciava come un fiore nero. La porta avrebbe potuto aprirsi, lentamente, spalancarsi al soffio del vuoto coperto a stento da quelle costruzioni di carta. Le hanno appoggiate una accanto all’altra in una luce tiepida, ma non riescono, lo vedi, ad arrestare il nero senza fondo che preme dalle finestre e dalle porte accostate. Se entri nella pagoda sprofondi nel centro dell’universo, in una caduta senza fine. Ti scruta, ti aspetta, fingendo di dormire la bestia con i suoi occhi cavi: sei grandi quadrate pupille, in un cielo terso e sfumato che ti dice di non credere al buio, di non avere paura.  Vieni nel centro; entra. Puoi ripetere un gioco dell’infanzia e saltare solo sulle lastre chiare o solo su quelle scure. Precisamente, calibrando ogni movimento, come decidesse della tua vita. In questa concentrazione, obbediente, puoi avanzare fino ai piedi della scalinata. Ora sei lì, ferma di fronte al buio di quella fessura. Hai raccolto tutto il chiaro e la luce di questa scena; hai il tepore di un sole coperto dagli edifici ma caldo e sicuro, come in una mattinata tarda, senza scuola. Puoi vedere, lentamente, la pagoda girare su se stessa, come una giostra senza cavalli e senza musica, così lenta che sembra quasi immobile, ma ruota, ne sei sicura, ruota come la terra. Alla sommità il filo quasi invisibile che la sostiene potrebbe sollevarla di nuovo, ridonarle le sue fondamenta d’aria.

Ciò che vedi è stato fatto perché tu possa dormire, senza paura del vuoto tra le stelle. Lo abbiamo ritagliato nella forma di finestre e fenditure. Guardalo così, delimitato nel chiarore di questa nostra geometria. C’è ancora tempo prima che ogni linea scompaia. Prima che questa città si dissolva o si levi come una cortina sul vuoto. Abita ancora, credi a questo spazio, resta.

La notte ha lavato via tutto. Una notte scura di pioggia che non finiva. Ne è rimasta una striscia più cupa nel cielo alto, lontano. Ogni abitante scomparso, scappato nel buio con l’acqua che aveva iniziato a sommergere la soglia delle case e continuava a scendere fitta. Avrebbe coperto ogni porta e finestra lasciando soltanto la piccola croce sulla cupola del battistero. Sembrava indicare un sepolcro nel centro del lago che si estendeva, appena turbato da increspature sulla superficie. Insetti o qualcosa che si muoveva ancora, nelle profondità. Poi è tornato il sole e la luce e giorno dopo giorno la città è riaffiorata così, come la vedi adesso. Quei due colombi bianchi sul cornicione sono stati i primi ad arrivare quando ancora i palazzi si specchiavano sull’acqua. Ora bagnata dalla luce la diresti di sabbia, così compiuta e fragile nelle mani del bambino che l’ha costruita e che potrebbe, per capriccio, calpestarla. Inizierebbe proprio dalla cupola del battistero: i contorni che si frangono e franano, le superfici che riaffondano nella materia.

Tornerà mai qualcuno a vivere qui? Chi è fuggito non ha avuto neanche la cura di chiudere a chiave le porte, accostare i battenti delle finestre. Uno per uno lentamente, o tutti insieme a un tratto: andati e non tornati mai più. Inutile aspettare, spiare segni nel fondo delle stanze. O fuori, sui balconi, ai davanzali tra i vasi non fioriti. È la mattina ad accudirli, con la sua pioggia leggera, la sua luce che sembra portare vita anche dove non è più possibile. Nel silenzio delle stanze una goccia penetrata è l’unica vicenda. Ne trema interamente lo spazio, il buio dove ogni cosa è rimasta com’era: i letti sfatti, la brocca sul tavolo, i piatti della colazione sporchi. Che cosa è accaduto lo sanno solamente le cose.

Inutile indagare il destino di questa città: è affidato alla luce. Per questo varia, come l’umore. Posso vederla spegnersi insieme all’azzurro che scende nel crepuscolo dalla finestra accanto al lettuccio. Posso sfiorarla con la nuca, o seduta avvertirla contro la schiena mentre nella mente il suo disegno si apre, figura per figura si compone e si scompone. Oppure voltarmi e scorrere le sue linee come un bambino che sta imparando a leggere. A volte distesa all’altro capo del letto l’accarezzo appena con la punta di un piede. Mi sembra di raggiungere, per un istante, l’altro polo del mondo, il rovescio liberato da ogni scoria, mondato dal tempo, come la metà vuota, limpida di una clessidra. Oggi credo, oggi mi affido interamente al chiarore del pastello e penso che tutti sono ancora lì, tra le pareti, addormentati: è soltanto l’alba annuvolata di un giorno di festa, tra poco saranno di nuovo per le strade, i bambini accanto alle madri, nel vestito migliore, diretti verso la cattedrale in fondo alla piazza. Dura soltanto alcuni momenti. Il tempo in cui si può scansare qualcosa. Poi torna il nero di porte e finestre che parla da solo, come mandando segnali dalle facciate dei palazzi. Un linguaggio misterioso, fatto di vuoti che si lasciano coprire per misure diverse, di battenti da cui potresti intravedere una mano sporta, una nuca voltata, la metà di un viso che subito si nasconde. Non credere agli abitanti del palazzo. Sono solo demoni che si rincorrono da un piano all’altro. Aspettano l’ora meridiana per allungarsi sul selciato della piazza. Questa è una città di morti; i suoi appartamenti sono loculi ordinati. È lasciata al governo del vento e della luce, incustodita perché possano entrare le vostre preghiere. Qui si può soltanto abitare nel silenzio. Non abbandonarla. Non fuggire. Torna.

Credi all’orizzonte che si apre oltre le vie, alle strade bianche che si perdono, agli alberi scuri che le accompagnano fedeli o si allontanano per un po’ soli, in mezzo ai campi? Quei profili di colline sono il margine verde di un miraggio. Questo, costruito con la pietra dell’illusione, nel tremore sottile di una febbre che pervade l’aria. Oltre è l’aperto senza nome. Per questo continui ad essere chiamata qui, in questa piazza, dove i confini sono segnati da due custodie d’acqua. Puoi avvicinarti e sporgerti sull’orlo per vedere se è vero che c’è ancora acqua in questa città nel deserto. Se è una vasca di pesci rossi o un pozzo in cui balugina qualcosa. Oppure è vuoto il fondo, illuminato da una pioggia di monete. Se ne hai una in tasca e getti anche la tua, dando le spalle al battistero, la sua porta si spalanca. Aspetta solo i tuoi passi. Se hai il coraggio di oltrepassare la soglia entri nel buio cavo e circolare come di un ventre che ti ha ripreso in sé. Lì ruotano le voci degli antichi abitanti; loro possono narrarti la storia della città. Quando ad un tratto smettono di bisbigliare, come a volte i grilli nel mezzo di una notte d’estate, sei dalla loro parte anche tu, entrato tra loro a vegliare.

Dicono che puoi entrare e non morire. Non verrai inghiottito. Rimarrai nel centro del buio con le orecchie di un animale che trema. Poi sempre più quieto, fino a colmarti come un incavo d’acqua. Non saprai i passi per tornare fuori. Una volta raggiunto quel luogo lo spazio non conta. Ti muoverai, ma sarai sempre al centro di quel buio. Non parlare. Devi soltanto fare in modo che il soffio non sia ostruito. Risuonare come una canna vuota. Ora vai. Leggero come chi non può più dimenticare.

Sono sempre piccole le cose che salvano. Così piccole che spesso ci si scorda di loro. In questa tavola di legno appena oltre la tempera riaffiora il lavorio sottile di tarli che vissero nella penombra di una delle grandi stanze del Palazzo. Questo margine appena visibile oltre l’azzurro deciso del cielo, l’ocra e il grigio degli edifici e il chiaro della piazza, è come un confine leggero tra la veglia e il sonno. Quando a stento ti liberi dalla forza che dal centro del battistero si riverbera in ogni linea della città, e raggiungi infine il bordo di questo incanto, è come quando, dopo un tempo senza tempo a galleggiare sul dorso, ti riscuote il contatto con qualcosa di duro. Una brezza o l’inconsapevole portata dei tuoi movimenti ti ha condotto contro le pareti della vasca. Capisci allora di quale materia è fatto questo sogno che combatte contro i suoi sottili e invisibili distruttori. E forse sono proprio loro, gli insetti, i soli ad abitare la città, chiusi tra le linee, capaci di sfarinarla in un mucchietto di polvere.

Questo luogo ha un custode nascosto come un sole coperto dalla foschia. Lo senti sulla pelle, nell’aria, sei sicura della sua presenza eppure non lo trovi. Allo stesso modo so che non è stata abbandonata la città, che qualcuno continua a vegliarla, nascondendosi tra i portici e la fuga dei colonnati. È lui a indicarmi i due dettagli a cui mi devo aggrappare quando mi sembra di sentire cigolare la porta del battistero e le finestre dei palazzi spalancarsi nel buio, come a un colpo improvviso di vento. Lo stendardo azzurro che si leva sulla collina quasi come un enorme fiore chino sul suo stesso peso, un grande aquilone liberato che stenta a prendere il volo; se continui a guardarlo si pietrifica: è il versante di una montagna innevata che si confonde con il chiarore del cielo. Torno a cercare i colombi. Sono ancora lì, fermi sul primo cornicione del palazzo, come a ripararsi dalla luce che bagna interamente la facciata sulla piazza. Addossati alla parete, quasi mimetizzati agli intonaci, le uniche presenze animali in tutta la scena; gli unici cuori che pulsano in questo silenzio di pietre. Un attimo prima hanno sostato sul tetto del battistero. Un battito d’ali, il suo riverbero, e si modifica lentamente tutta la scena. Eccoli discendere in volo sull’acciottolato della piazza. Picchettano con il becco la scanalatura tra le lastre di marmo. Forse in quella intercapedine qualcosa è rimasto. Restano così, intenti per alcuni minuti, poi a un tratto si rialzano in volo, si posano sul balcone del palazzo stuccato di porpora. Tra le due piante che sporgono, il vaso di quercia bonsai e il cespo, si fermano alcuni secondi. Non fanno in tempo a raggiungere il giardino pensile vicino, che un battito improvviso li disperde, dissolvendoli dentro alle altre figure, sciogliendo ogni linea nel buio. Le mie palpebre si sono chiuse. La città è riaffondata.

Questo luogo è capace di condurti al delirio. Ti fa perdere come in una casa di specchi. Oggi ho intravisto il giardiniere sul terrazzo chinarsi furtivo sotto un cespuglio della siepe. Probabilmente lo stesso custode, due ombre che a volte si sovrappongono senza mai coincidere del tutto. D’altronde questo è lo spazio in cui non si distingue. Il sogno nel reale, il reale nel sogno. Due forze opposte si scontrano: il controllo geometrico e qualcosa di irriducibile a questa progettata armonia. Così il motivo della piccola quercia che si ripete, di davanzale in balcone per tre volte lungo la via a sinistra. Un capolavoro di contenimento così perfetto che l’occhio vorrebbe una lente. Sulla via opposta predomina invece il motivo del cespo che libera le sue fronde e torna per tre volte, in modo complementare. A un primo sguardo, da lontano, può essere scambiato con una di quelle erbe cresciute nell’incuria, nutrite dallo sgretolarsi dei muri, ma subito l’incanto dell’alberello dalla doppia chioma riporta alle forbici esatte del giardiniere, al suo sguardo che ha soppesato e voluto ogni cosa così come appare. L’abbandono è solo un pensiero. Qui non c’è natura liberata che possa prosperare nella desolazione. La città è presidiata da forze che contrastano lo sbiadirsi degli intonaci, il creparsi delle pareti.

Questo dipinto non permette di essere guardato. Non consente allo sguardo di avvicinarsi e andarsene come un visitatore qualunque. La città è sotto assedio. Chiusa in una grande stanza dorme la principessa bambina. Inizi a percorrere di piano in piano ogni appartamento. Apri tutte le porte. Spalanchi le finestre alla luce. Pensi di essere il principe che risveglia ogni cosa. Per un attimo la piazza e le vie si affollano di gente. Poi su tutto ridiscende il silenzio. Il mistero che governa questo luogo è più potente di qualsiasi immaginazione. Ogni storia inizia e finisce qui, in questo deserto di muri abbagliati dalla luce.

Continua a modificarsi sotto gli occhi la città, a schiudere figure che sottrae senza che te ne accorgi. Neanche ti accorgi di come il tuo sguardo sia diverso, ora, dopo avere soggiornato qui. Dietro queste linee è un campo di forza. Un solo punto, uno solo, come quello che i tuoi occhi, a volte,  inavvertitamente fissano.

Non hai ancora visto niente, non hai saputo vedere. Qui ogni immagine è il duplicato di sé, ritorna come appare nel profondo, nell’acqua buia della mente. È il tuo pensiero che sta cercando un luogo dove potere albergare senza ogni volta entrare e uscire straniero, spossessato di tutto. Se riuscirà a fermarsi si aprirà come la città, contenitore di buio, custodia di silenzio.

***

Questi brevi racconti in forma di visione sono nati da lunghe immersioni nel lago della città ideale. Sono un respiro fermo, un’apnea frammentata da brevi ritorni in superficie. Quando ho saputo che questa tavola era probabilmente la testiera di un lettuccio meditativo non sono più riuscita a staccarmi da questa immagine da abitare distesi, tra veglia e sonno. Ho sostato a lungo perché non ho luogo, e come ogni cosa che non ha luogo non accade, così anch’io resto, entro ed esco dalla soglia di questo spazio che appare e scompare. Trasportato e mutato dai pensieri come le nuvole dal vento. Sono felice che questo dipinto non porti la firma di nessuno. Nel Palazzo Ducale, dove nessun luogo sfugge al nome del suo padrone, dove ogni angolo ripete la gloria e l’ossessione di un’identità, dai soffitti alle soglie, dai camini agli stucchi alle pareti: FD Fe Dux, lo spazio anonimo della città ideale resta protetto da qualsiasi attribuzione. L’abbiamo disegnato in tanti, percorrendolo come la percorriamo ancora.

*

Le parole non hanno saputo staccarsi dall’immagine che le ha fatte nascere. Questo grande grembo al centro dello spazio, tradotto in linee e figure architettoniche, e ripetuto nel motivo dei palazzi che lo attorniano. La città ideale, così sacra nel suo silenzio, accoglie come una madonna dentro il suo manto. Con la stessa misericordia contiene ciò che è umano, si apre donando un luogo protetto, avvolto dal cielo. Così lo spazio di questo abitare, di queste finestre e soglie che si rispecchiano e tornano ognuna chiamandoci a sé, come a dire: fermati qui, è questa la tua casa, prenditi cura di questo vuoto. Qualcosa di magnetico ci riporta ogni volta al centro dello stesso mistero. Siamo noi, contenitori di memoria, di storie che ci appartengono, che ci hanno attraversato o che stanno sospese nell’aria in cui viviamo. Sono stata il battistero, la cattedrale in fondo alla piazza, la casa con il giardino pensile, quella con il colonnato all’ultimo piano, più aria che muri. L’indirizzo che non ho mai riconosciuto è in te, in una delle tue vie si compone e ricompone un numero, un nome. Dove abito, dove sono. Dove sono nata è scritto nei documenti. Dove vivo non lo scrivo. Non lo so, forse non voglio saperlo. Per questo mia città dipinta nel legno ti prego ogni volta che i miei occhi si smarriscono e non riconosco la strada di casa, non riconoscono nessuna casa. La vorrei di paglia e di terra, sorta dalle mie mani, come in un pomeriggio senza tempo dell’infanzia. Quando racchiudi un luogo, lo cerchi con le braccia, come stringendolo a te, tracci confini. In quello spazio puoi cadere, abbandonarti al tuo peso come un seme. Così nella casa che avevo ricavato da un incavo formato tra la vigna e il campo arato. Ricoperto di rami e di frasche come un rifugio di cacciatori scavato nel terreno. Lì avrei depositato le mandorle e le noci raccolte per l’inverno. Lì mi sarei rannicchiata tra pareti scure scomparendo alla vista, recapitando i messaggi delle formiche, cogliendo sassi bianchi. Quando pulisco questa casa di marmo intonaci e vetri, questa casa dove vivo ora senza saperlo, la accarezzo come fosse di pietra e di terra viva, come sentisse le mie mani. Torno alla sua materia, prima della betoniera e dei passaggi di stato, prima delle trasformazioni dell’industria, alla sua materia semplice. Per questo mi piace ritrovare la polvere, quando è maturo il tempo e si può radunare in piccoli depositi scuri. Riunire l’inizio e la fine del mondo. Mia città dipinta, mia città, voglio che tu sia nella mia stanza, a un capo del letto, come un’immagine sacra. Come il quadro con la madre e il bambino che ogni camera di contadini aveva insieme a un ramoscello di olivo benedetto, a una spiga secca di grano. Mia città, ogni volta che passo di fronte a un’agenzia di viaggi, quegli annunci di week end e settimane da trascorrere in un punto come un altro della terra, mi avvolgono di un senso di morte. Assomigliano agli annunci con le date esatte di un’esistenza che ti chiama da una foto a colori. Ho bisogno di un luogo, ho bisogno di te ogni volta che mi si cancella lo spazio sotto gli occhi. Questo spazio consunto, che non ho aperto con il mio desiderio, che non ho plasmato con la mia immaginazione. Non si regge più, può crollarmi addosso da un momento all’altro come un rudere. Si è cancellato il paesaggio. Non accoglie più i miei passi questa terra: mi pesa sulla lingua, mi ricopre dalle caviglie alla nuca. È una madre assopita, capace di rimangiarsi i suoi figli. Allora vado in stazione come in farmacia. Con lo stesso sollievo con cui si prende una medicina salgo su un treno. Tu, mia città dipinta, sei sul mio petto come un ciondolo. Ti posso toccare ogni tanto con una mano, sovrappensiero. Lo so che non mi abbandoni, e più che saperlo lo sento. Sei il luogo in cui può accadere ogni cosa, lo scenario in cui la mia vita torna a svolgersi. Si ferma, si addensa su di sé in un gomitolo di buio, poi rotola, finalmente si libera nello spazio aperto.

(Abitare la città ideale. Frammenti in forma di visione, in C. Babino (a cura di), S’agli occhi credi. Le Marche dell’arte nello sguardo dei poeti, Vydia, Macerata 2015.)