Flavio Santi, Quanti

da | Dic 21, 2020

Pubblichiamo sei poesie dal libro di Flavio Santi Quanti (Truciolature, scie, onde, 1999-2019), appena uscito nella collana “Poetica” a cura di Gabriel Del Sarto e Niccolò Scaffai per Edizioni Industria&Letteratura.

Fernando Pessoa, Autopsicografia

Il poeta finge!
Finge in modo così vero
Che dolore finge
Il dolore che sente davvero.

E quelli che lo leggono
Sentono il dolore letto,
Solo quello che non hanno,
Non quel poco che lui ha.

E così in ingranaggi rotanti
Gira e allevia la ragione
Questo treno a tiranti
Chiamato cuore.

 

*

Il tubo catodico rimane acceso
così la compagnia di almeno uno
è salva. La sera è solo sennò.
Lo stipo dei medicinali
odora di troppo fresco.
La rondine ha un ritmo piovasco e
le sue inflessioni le sente attraverso
la zanzariera: illuminata
dalla rarefazione e dalla rete
del tubo catodico. È solo,
sennò. Ma sa
come dormendo le palme
dei piedi rimarranno
scoperte. Poi aspetterà che
la testa funzioni come
una latteria: il caglio offeso
negli scoli di pietra, il vapore
dei pensieri sulle placche ramate,
trame rapprese,
ferme al di là del
setaccio. Ma è solo
un quarto di sogno, il suo.

 

*

Dalla confessione dell’attore e terrorista Giusva Fioravanti

Non ancora bombe le mie lentiggini.
Non ancora l’Italia del ’77
quell’Italia che si affacciava
dalle antenne TV radiotrasmittenti.
Nessun odore di nafta ma solo
un bel bambino… un fiore…
Tra un formaggino e un grumo di sangue,
soprattutto se il formaggio aveva un nome
come egizio (Ramek!) non distinguevo
e non distinguo, se sono sincero.
Per me fuori è come dentro,
non distinguo, come tutto il resto,
perché mi fa abbastanza
schifo l’insieme. Sparare o
sorridere ha una sola via
come i furgoncini di latta
o le piste delle biglie:
vince in fondo chi lo vuole.
La mia cuccia è così:
frasche, pigiama, una faccia
da capanna solitaria.
M’hanno abituato così
e quando mamma mi chiamava
«Giusva!» rispondevo
con la lingua spruzzando saliva,
aprendo il fuoco.

 

*

Archeologia

… non sono più i cocci,
le anfore e le urne piene di cenere
gli occhi e le bocche di ciò che fummo,
frammenti di storia,
le incisioni di vita
figlia di altra vita.
Inutili pala e piccone,
dimensione civile di un fare animale,
impossibili gli scavi come
calamitare le ore dell’orologio
su un perenne mezzogiorno.

Ieri la vita era fatta di punti
che diventavano linee
che diventavano sagome
manufatti, schizzi a sanguigna
lasciati a brillare nell’angolo di una grotta:
una battuta di caccia,
la fertilità,
uno strato di carbonio e semi fossili.

Oggi l’occhio del video
parla per tutti noi
brilla nella notte
ultimo fuoco di una battaglia
reversibile a ogni play
del cuore.

 

*

Che i tramonti assomiglino a quelli
giapponesi dei cartoni
mai avuto dubbi,
tu lo sai, quando dicevo:
«Capita ormai che gli orizzonti
siano rossi di neon laggiù,
tramonti neuronali (o forse reali?),
capita spesso passando in treni veloci
e insensibili a quella massa laggiù.
Sembrano atomiche esplose, sembrano
dirci che non c’è tregua per uomini e
cose di buona volontà».

 

*

L’uomo che saliva sui ciliegi

«Nel 2126 ci saranno così tanti
aerei che almeno uno la settimana ne cadrà,
ma la gente ormai sarà così abituata,
che invece di piangere quasi lo festeggerà.»

Dall’alto dei ciliegi com’è il mondo, gli chiesi.
«Ah! Se non mi avesse insegnato mio padre
a salire, lui era un uomo di legge…
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Immagine: Haroon Mirza.