La scrittura e la morte. Letteratura come giudizio universale

da | Nov 10, 2015 | Senza categoria

Intingere la penna nelle tenebre

Nel 1980, appena uscito Il Galateo in Bosco, Andrea Zanzotto incontra gli studenti di una scuola di Parma. Uno studente chiede: “Come mai la poesia contemporanea è spesso difficile da capire?”. Il poeta risponde: “C’è una comprensibilità che si realizza in modo immediato, ma è quella che può avere un articolo di giornale, anzi che è indispensabile in un articolo di giornale. Nella poesia non è così (…). Pensate al filo elettrico della lampadina che manda la luce, il messaggio luminoso, proprio grazie alla resistenza del mezzo. Se devo trasmettere corrente a lunga distanza, mi servo di fili molto grossi e la corrente passa e arriva senza perdite a destinazione. Se metto, invece, fili di diametro piccolissimo, la corrente passa a fatica, si sforza e genera un fatto nuovo, la luce o il colore. Così accade nella comunicazione poetica, nella quale il mezzo è costituito dalla lingua. L’eccessivo addensarsi dei significati, dei motivi, il sovraccarico di informazioni, può però provocare un ‘cortocircuito’, una oscurità da eccesso, non da difetto”.[1]
Scrive Stefano Dal Bianco: “Quella di Zanzotto [è] una delle definizioni universali di ‘poesia’, della sua natura e funzione, più cogenti mai formulate”. [2]
Questa definizione è, senza remore, estendibile a una precisa idea di letteratura. La letteratura è tale quando “l’eccessivo addensarsi dei significati, dei motivi, il sovraccarico di informazioni (…) [provoca] un ‘cortocircuito’, una oscurità da eccesso, non da difetto”?
In questa sede, e in poche pagine, si faranno emergere, senza pretese alcune di originalità teorica, alcuni temi, alcuni nodi, alcuni suggestioni da officina. Più che questioni teoriche, si tratta di appunti personali, preparatori alla stesura di testi di prosa; carte e cartoline da lavori in corso.

Oscurità da eccesso, non da difetto, dunque. Non si può non stare nell’oscurità. Non si può non stare nel contemporaneo. “Contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente” scrive Giorgio Agamben. [3]
Non si può non stare nel contemporaneo. Non si può che non stare nell’attuale. L’artista può non credere nel contemporaneo ma non può che navigarvi, eternamente. Un contemporaneo che è fatto di rocce madri, di pulviscoli, di pezzi di latta arrugginiti. Di stoffa lisa, di foglie secche, di relitti fonico-visivi. Un contemporaneo che è esteso all’infinito. Muoiono le civiltà, muoiono le religioni. Non muore il contemporaneo.

Credere sempre nell’inattuale. Credere sempre nei relitti.

Tra le premesse a questi piccoli appunti – nei quali verranno di frequente citate le opere di Giorgio Agamben – non possono che esserci le questioni riguardanti l’esperienza della scrittura.
Nel Linguaggio e la morte[4]  si sottolinea che nella tradizione della filosofia occidentale l’uomo appare come il mortale e, insieme, come il parlante. “Egli è l’animale che ha la ‘facoltà’ del linguaggio (…) e l’animale che ha la ‘facoltà’ della morte”. [5]
Sono questi due temi centrali per colui che scrive, che opera nello spazio aringo dell’arte. Il linguaggio, come materia. La morte, come obiettivo.

Perché scrivere? Che cos’è l’experimentum linguae? Nella sua unica conferenza mai tenuta in pubblico, così parla Ludwig Wittgenstein: “E ora descriverò l’esperienza di meravigliarsi per l’esistenza del mondo, dicendo: è l’esperienza di vedere il mondo come un miracolo. Sono ora tentato di dire che l’espressione giusta nella lingua per il miracolo dell’esistenza del mondo, benché non sia alcuna proposizione nella lingua, è l’esistenza del linguaggio stesso”. [6]
L’esistenza del linguaggio dunque; l’esperienza; lo stare dentro un tempo che è fuori e dentro il tempo; il placido, feroce attraversamento nell’orizzonte che è vita, il mondo come miracolo, e possibilità di Dio, e dunque, inequivocabilmente, morte.

Un passo indietro nella via del pensiero

L’esperienza è qualcosa che si può solo fare e mai avere. Non si può che morire, in vita e in morte. In scrittura e in malattia.
Colui che compie l’experimentum linguae non può che stare in una dimensione perfettamente vuota. Scrittura è abisso, salto nel vuoto, possibilità di Dio, avvicinamento alla morte. Appressamento della morte.
“Nelle conferenze sull’Essenza del linguaggio, Heidegger parla (…) di ‘fare un’esperienza col linguaggio’ (mit der Sprache eine Erhahrung machen). Facciamo propriamente questa esperienza, egli scrive, solo là dove i nomi ci mancano, dove la parola si spezza sulle nostre labbra. Questo spezzarsi della parola è ‘il passo indietro sulla via del pensiero’”. [7]
Vuoto, assenza. Quando si scrive, non si può che tendere a queste esperienze. Ciò può forse accadere attraverso l’oscurità da eccesso di cui parla Andrea Zanzotto?
Oscurità da eccesso è anche, per lo scrittore, rifare continuamente sé stesso. Intervistato su Contemporary Literature da Thomas LeClair, nel 1982, così Don Delillo descrive l’esperienza della scrittura: “What writing means to me is trying to make interesting, clear, beautiful language. Working at sentences and rhythms is probably the most satisfying thing I do as a writer. I think after a while a writer can begin to know himself through his language. He sees someone or something reflected back at him from these constructions. Over the years it’s possible for a writer to shape himself as a human being through the language he uses. I think written language, fiction, goes that deep. He not only sees himself but begins to make himself or remake himself. Of course, this is mysterious and subjective territory”. [8]
Scrittura come viaggio in territori misteriosi. Scrittura come immersione nell’assenza. Scrive Maurice Blanchot nell’Entretien infini: “Lo scrivere si riferisce all’assenza di opera, ma si investe nell’opera sotto forma di libro”[9] così che “lo scrivere non va a sfociare nel libro o nell’opera. Nello scrivere l’opera, subiamo la seduzione dell’assenza dell’opera”.[10]
Non si può che scrivere nell’assenza. Non si può che scrivere alla ricerca di un’oscurità da eccesso. Non si può che vivere alla ricerca di un’oscurità da difetto. Si dovrebbe scrivere, tentare di scrivere, alla ricerca di un’oscurità da difetto, di difetti tolti ai difetti, di sottrazioni e sottrazioni, ma non all’infinito.
Scrivere vivendo; scrivere non vivendo; il disagio dello scrittore è nella consapevolezza che si dovrebbe vivere non scrivendo, nell’impossibilità di fare della vita l’opera d’arte, nell’impossibilità di fare del testo l’opera d’arte.
E dunque sussistono problemi circolari.
Cosa designa l’atto della scrittura? Andiamo, indomiti, girovagando, praticando flânerie, lungo i sentieri dell’indefinito. Non si può che fare l’esperienza, in quanto non si può avere l’esperienza.
L’esperienza della scrittura è un tentativo di essere l’esperienza.
Come essere l’esperienza, come tentare di essere l’esperienza se non attraverso l’istanza dello io? Si configura dunque, qui, necessariamente, l’esperienza dell’imago junghiano. [11] Scrittura come imago, e dunque come utopia. Utopia di esplorare, attraverso lo stadio dello specchio lacaniano, l’io-ideale.[12] La convinzione che per raggiungere lo stadio dello specchio basti passare dall’oralità alla scrittura. Quando piuttosto, basterebbe passare dalla scrittura all’opera d’arte. L’opera d’arte: la letteratura, l’opera d’arte, deve sempre dichiararsi colpevole.

Appressamento della morte, possibilità di Dio

L’opera d’arte è sempre colpevole. Non può non essere sottoposto a questo pensiero pressante colui che scrive. Egli scrive: nel dantesco aringo rimaso, nello spazio aringo ove la letteratura si configura come combattimento, lo scrittore combatte anche il contemporaneo, soccombendo infinitamente. Nel ring del combattimento, egli intinge la penna nelle tenebre, soccombendo infinitamente. Lavora nello spazio dell’oscurità. Tenta di essere l’esperienza. Ricerca costantemente l’assenza. Ricerca costantemente la morte. Perpetra costantemente lo scempio: la possibilità di Dio.
Lo scempio è compiuto nel territorio dello scempio, nel territorio dell’osceno. Tutto ciò che è dentro la scena: quest’illusione umana. Tutto ciò che è fuori dalla scena: quest’illusione più che umana.
La scrittura: in questo stato di confine, in questo assalto ai limiti dell’umano, in questo perpetuo moto di elusione del meccanico, e in questa continua, ineluttabile, ricaduta nel meccanico, la scrittura sfida la scrittura, lo scrittore non sfida lo scrittore. Non si può che seguire Carmelo Bene: “Così come il teatro è tolto di scena, anche la prassi della scrittura è un togliere dalla scena della pagina. Se l’orale del non luogo teatrale (e della ricerca del non voler trovare) è possibile perché irrappresentabile, lo scritto è mera rappresentazione impossibile, perché già compiuta”. [13]
E ancora: “Lo scritto è il funerale dell’orale, è la rimozione continua dell’interno”. [14]
Scritto come funerale dell’orale. E’ nei funerali che si compie, ravvicinatamente, l’avvicinamento alla morte. L’appressamento della morte. E’ nei funerali che si compie, ravvicinatamente, la possibilità di Dio.

Lo scrittore, che sia pure romanziere, non può che essere metafisico. L’artista non può che essere metafisico. Un paradosso: credevano nella letteratura morale, erano immorali, non considerando l’endemica immoralità dell’arte senza maiuscole. Scrive Wittgenstein nel Tractatus: “Il senso del mondo dev’esser fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore. Se un valore che ha valore v’è, dev’esser fuori d’ogni avvenire ed essere così. Infatti ogni avvenire ed essere-così è accidentale”.[15]
Stare fuori di essi: essere stabili nel Sé.
Bisogna scrivere conoscendo la natura della mente.
Seguire Ramana Maharshi: “Se si prescinde dai pensieri, non esiste nulla che possa essere chiamato ‘mente’. Quindi, la natura fondamentale della mente è il pensiero. Senza i pensieri, non esiste un’entità separata chiamata ‘mondo’. Nel sonno profondo non ci sono pensieri, e non esiste nessun mondo. Negli stati di veglia e di sogno i pensieri ci sono, e di conseguenza un mondo esiste. Proprio come il ragno secerne il filo (della ragnatela) facendolo uscire da se stesso e riassorbendolo in se stesso, così la mente proietta il mondo da sé e di nuovo lo dissolve in se stessa. Quando la mente si allontana dal Sé, il mondo appare. Pertanto, quando il mondo appare, il Sé scompare; e quando il Sé risplende, il mondo non appare più. Indagando con persistenza nella natura della mente, questa sparirà lasciando solo il Sé. [16]
E ancora: “Non esiste nessuna regola secondo la quale l’azione deve dipendere dal senso di esserne gli autori; non c’è quindi motivo di dubitare che l’azione possa aver luogo anche senza un autore, o senza un atto del ‘fare’.” [17]
Essere dentro l’esperienza. Fuori dalla colpevolezza dell’opera d’arte. Esserne complici, non essendolo. Essere, anche, l’esperienza. Essere nel sonno profondo. Ricercare costantemente l’assenza. Ricercare costantemente la morte. Perpetrare costantemente lo scempio. Impossibilitare Dio.

Della temporalità del tempo nella scrittura

Il 19 novembre 1819, a seguito del suo tentativo – mal riuscito – di fuga da Recanati, e a seguito della ricezione di una lettera di Pietro Giordani, che lo esortava a non considerare la cosa del tutto negativamente, così risponde Giacomo Leopardi: “Sono così stordito dal niente che mi circonda, che non so come abbia forza di prender la penna (…). Se in questo momento impazzissi, io credo che la mia pazzia sarebbe di seder sempre cogli occhi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le ginocchia, senza né ridere né piangere, né muovermi altro che per forza dal luogo dove mi trovassi. Non ho più lena di concepire nessun desiderio, neanche della morte, non perch’io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a consolarmi neppure il dolore. (…) Sono così spaventato della vanità di tutte le cose, e della condizione degli uomini, morte tutte le passioni, come sono spente nell’animo mio, che ne vo fuori di me, considerando ch’è un niente anche la mia disperazione”. [18]
Può forse considerarsi questa come una poetica (più che una dichiarazione di poetica) o, meglio, come il punto apicale uso a descrivere l’esperienza della scrittura.
Seppure qui Leopardi stia descrivendo un sentire interiore, questo sentimento di svuotamento, e di graduale sottrazione, può forse accostarsi per l’appunto a ciò che l’artista potrebbe agognare. La cura è sottrarre. La sottrazione non è verità ma permette avvicinamenti alla verità.
Si prenda la Favoletta di Franz Kafka: “‘Ahi’ disse il topo, ‘il mondo diventa ogni giorno più stretto. Prima era così largo che mi faceva paura, correvo ed ero felice di vedere finalmente muri a destra e a sinistra in lontananza, ma questi lunghi muri si avvicinano tra loro così in fretta che sono già nell’ultima stanza e lì nell’angolo c’è la trappola nella quale cadrò’. ‘Non hai che da correre in altra direzione’ disse il gatto, e lo mangiò”. [19]
La scrittura, per lo scrittore, è quell’altra direzione. La scrittura, per lo scrittore, è quella nutrizione: quell’azzannamento. La lingua non è strumento, è incoscienza.
La scomparsa, l’apparizione del Sé. L’apparizione, la scomparsa del mondo. Immergersi nella natura della mente, per sopprimere la mente. Questa catapulta che non scaglia alcun dardo. La scrittura è la cura. E’ l’esserci. L’esserci heideggeriano: “Il tempo è l’esserci. L’esserci è il mio essere di volta in volta, e quest’ultimo può essere tale in ciò che è futuro, nel precorrere che va al non più, certo ma indeterminato. L’esserci è sempre in una modalità del suo possibile essere temporale. L’esserci è il tempo, il tempo è temporale. L’esserci non è il tempo, ma la temporalità. (…). In quanto il tempo è ogni volta mio, ci sono molti tempi. Il tempo è privo di senso; il tempo è temporale”. [20]
Essere dentro la scrittura è la temporalità. Camminiamo lenti, come in una passeggiata walseriana, dentro quella temporalità. Non esistono costellazioni. Siamo meccanici per eludere il meccanico. Ignoriamo afriche intere.
Bisogna abbattere la coscienza, che, scrive René Guénon, “non è che un modo contingente e particolare di conoscere, in determinate condizioni, una proprietà inerente all’essere considerato in certi stati di manifestazione; (…) dato che la coscienza non è nemmeno applicabile a tutto l’Essere”. [21]
La scrittura sarebbe la cura dentro la temporalità. Non crediamo nell’avvenire però, anche se “il fenomeno primario della temporalità originaria e autentica è l’avvenire”. [22]
Che cos’è la cura? “La Cura è l’essere-per-la-morte”. [23]
Ancora una volta navighiamo – nell’atto della scrittura – privi di sentimenti, verso il giudizio universale.

La strada del giudizio universale

Il deserto degli infiniti mondi, il silenzio universale, lo spasmo tremendissimo dei cosmi. La creazione. L’abbattimento: di noi. Tutti recisi i rami. E tremulo il mondo atterrisce il corpo “io”.
L’esperienza del linguaggio e l’esperienza della morte: entrambe facoltà dell’uomo: entrambe, in particolare, facoltà dell’artista.
Non esiste experimentum linguae senza experimentum mortis. Intingere la penna nelle tenebre del presente equivale a intingere la penna nella finitezza. Quanti paradossi. Quante trappole coscienziali.
Esiste un meme altamente replicativo, molto spesso attribuito ad Abraham Lincoln, ma che secondo The Oxford Dictionary of Quotations[24] è attribuibile anche a Phineas T. Barnum, che recita così: “Puoi ingannare tutti qualche volta e qualcuno tutte le volte, ma non puoi ingannare tutti tutte le volte”. Nell’ambiguità semantica di questa asserzione – c’è sempre qualche somaro che può essere ingannato? O in ogni occasione c’è qualcuno o qualcun altro destinato a essere ingannato? – vige la potenzialità dell’arte, nonché la sua natura: galleggiare sempre, affondando mai, mai emergendo completamente. Nulla a che vedere con lo spettatore, con il lettore. Il lettore non è l’anello debole della catena. Non c’è più catena, non c’è mai stata catena, né meccanica né di montaggio.

Stare dentro l’incantamento, l’incantamento dello spegnimento. Quante inettitudini.

Per György Lukács “ogni forma d’arte è definita dalla dissonanza metafisica della vita, che ha il compito di confermare e configurare l’arte come fondamento di una totalità in sé compiuta”. [25]
Questa dissonanza non può che avere a che fare con la morte, nonché col morente. Morente è infinitamente l’artista, e morente è infinitamente l’arte. Nel suo lento vagolare che conduce alla possibilità di Dio, al lambimento della morte, il romanziere ambisce a seguire la strada del giudizio universale, in senso agambeniano: “Il giudizio universale non è un giudizio nel linguaggio, che, come tale, non può mai essere veramente risolutivo e viene, infatti, incessantemente aggiornato (di qui l’idea che il giudizio universale avverrà solo alla fine dei tempi). Esso è, piuttosto, un giudizio sul linguaggio stesso, che, nel linguaggio, elimina il linguaggio dal linguaggio”. [26]
Eliminare il linguaggio dal linguaggio, sottrarre fino a scavare nelle fondamenta degli ossari. Crollare come peso morto nei sotterranei della chiesa di San Bernardino alle Ossa, in Milano, dove si accalcano tibie e femori, stinchi e frammenti di ossa. Le ossa sotto le ossa sotto le ossa. Mandibole sdentate che fregiano le porte. Nel 1210 lì venne costruita la camera destinata ad accogliere le ossa dei lebbrosi, troppi per stare nel cimitero accanto all’ospedale di via Brolo. Lì, nel 1269 sorse la primitiva chiesa.
Questo deve lo scrittore. Esperire l’inesperibile. Ricercare l’assoluto morendo, continuamente morendo. Finge di aggrapparsi, e certamente invano, alle sue statue Alberto Giacometti, morendo. Si aggrappa invano alle sue sinfonie Gustav Mahler, morendo. Finge di fingere di aggrapparsi alle sue righe Franz Kafka, morendo infinitamente.
Anche nell’artista, anche “nell’animale umano la percezione del suono precede – ma di tanto! – la sua nascita: questo venire al buio (altro che luce). [27]
La scrittura, come la nascita, non è che questo venire al buio.

L’esperienza della parola morta

In Conglomerati, [28]  Andrea Zanzotto, nella sezione intitolata “Isola dei morti – Sublimerie”, scrive questi versi:

Nel più accanitamente disseppellito
………………dei verdi dei versi
………………dei ghiacci
Nel supremo tepore o torpore dei colori
indulgenti inclementi insolenti
………………senza tempo senza ore[29]

Disseppellire. Verde. Versi. Ghiacci. Nature fossili. Senza tempo, senza ore. E’ disseppellibile solo ciò che è seppellito. Bisogna essere relitti, vivere come relitti, recuperare relitti fonico-visivi, andare oltre il fonico e oltre il visivo. Contraddire continuamente il Sé e contraddire la lingua del Sé. La lingua del Sé non è il Sé. La lingua del Sé non è il non-Sé.
Camminiamo indomiti verso la direzione dell’annullamento.
Colui che scrive deve tenere a mente che, con Emanuele Severino, “ogni differenza del mondo, ossia ogni essente, o significato, è cioè destinata ad esser pensata e vissuta come un nulla – anche quando si ritiene che un Dio eterno onnipotente possa salvare il mondo dal nulla”. [30]
Il nulla risiede in superficie, ma anche nella fisiologia. La scrittura deve tenerne conto.
Scrive Carmelo Bene: “La fisiologia è esclusa dal romanzo, dal teatro, dal cinema. Non si dà mai una sequenza che s’interrompa perché “Lei” d’improvviso ha da evacuare… Si proscrive l’analità, lo stadio anale, mentre nient’altro è più interessante; al contrario, se ne rimuove lo studio specifico al punto tale che la defecazione pensosa, fiera e autorevole come la maternità si pavoneggia da creazione estetica”. [31]
Quanta estetica e quanta ricerca di significati! Essi non attraversano il vuoto, ma lo rappresentano. Non sono attraversati dal vuoto, tentano di esserne rappresentati. Essi utilizzano una parola morta, e non lo sanno. Dovrebbero fare l’esperienza della parola morta, e non lo fanno. Dovrebbero essere l’esperienza della parola morta.
“Sto preparandomi a partire. (…) Involgiamo le nostre robe, pieghiamo le tende, sgombriamo, spingiamo, tiriamo, spostiamo. Ce ne andremo in viaggio. Molto bene. Quest’uomo mi va, e non sto più a domandarmi perché. La vita, lo sento, esige effervescenza, non riflessione. (…) Non voglio lasciarmi niente alle spalle, qui. Niente mi avvince, niente mi obbliga a dire: “E se invece io…”. No, è finito il tempo dei se e dei ma. La signorina Benjamenta giace sotto terra. Gli allievi, i miei compagni, sono dispersi in impieghi d’ogni sorta. E se io andrò in pezzi e in malora, che cosa si romperà, che cosa si perderà? Uno zero. Io, come singolo individuo, sono uno zero. Ma finiamola ormai con la penna, finiamola con la vita dei pensieri. Vado nel deserto (…). Voglio un po’ vedere se anche in una landa incolta non si può vivere, respirare, esistere, volere e fare sinceramente il bene, e dormire di notte e sognare. Via, adesso non voglio proprio pensare più a nulla. Neanche a Dio? No! Dio sarà al mio fianco. Che bisogno ho di pensare a lui? Dio va con chi è libero dai pensieri”. [32]

Il pensiero della voce

E’ illuminante la lettura del saggio Pascoli e il pensiero della voce di Giorgio Agamben, pubblicato nella raccolta Categorie italiane.[33] Il saggio è dedicato a Gianfranco Contini, il quale fu, per Agamben, il primo a identificare la poetica di Giovanni Pascoli nell’aspirazione a operare in una lingua morta. Secondo Contini, Pascoli si sarebbe posto davanti al linguaggio come davanti a una “riserva di oggetti poetici che furono vivi e a cui si restituisce la vita”. [34]
Lo scrittore, dunque, aspirando alla possibilità di Dio, aspirando all’avvicinamento alla morte, aspirando all’esperienza dell’assenza, aspirando all’esperienza dell’essere l’esperienza, lavorando a questo perpetuo moto di elusione del meccanico in questa continua, ineluttabile, ricaduta nel meccanico, si trova di fronte a un’ulteriore esperienza. Immergersi nella melma luminescente del vocabulum emortuum.

L’idea di lingua morta compare tra le prime volte nella cultura occidentale, secondo Giorgio Agamben, nel De Trinitate (X, I, 2) agostiniano. “Supponiamo – egli dice – che qualcuno oda un segno sconosciuto, il suono di una parola di cui ignora il significato, per esempio la parola temetum (un termine desueto per vinum). Certamente, ignorando che cosa esso voglia dire, desidererà saperlo. Ma, per questo, è necessario che egli già sappia che il suono che ha udito non è una vuota voce (inanem vocem), il mero suono te-me-tum, ma un suono significante. Altrimenti quel suono trisillabico sarebbe già conosciuto pienamente nel momento in cui è percepito dall’udito”. [35]
L’esperienza della parola morta deve prefigurarsi come esperienza di una parola proferita: è forse l’unica strada per tentare di fare l’esperienza; l’unica, ancora più vana, per tentare di essere l’esperienza. La parola proferita non è più mero suono, ma non è ancora significato. Questa è l’esperienza della parola morta: “esperienza (…) di un segno come puro voler-dire e intenzione di significare, prima e al di là di ogni concreto avvento di significato”. [36]
In che senso, dunque, scrivere è avvicinarsi alla morte, appressamento della morte? Anche in senso pascoliano. “La voce” scrive Agamben “come nella poesia omonima dei Canti, si avverte ‘solo nel punto che muore’”. [37]
Dove poetica della lingua morta e poetica della voce morta convergono? nella lettera. E’ lì che Pascoli, è lì che l’artista deve situare l’esperienza più autentica della sua opera: “quella in cui egli può cogliere la lingua nell’istante in cui riaffonda, morendo, nella voce e la voce nel punto in cui, emergendo dal mero suono, trapassa (cioè, muore) nel significato”. [38]
Trapassare nel significato, dunque.
Essere l’esperienza del trapasso.
Trapassare il trapasso ma mai all’infinito.

Giovanni Pascoli definiva il linguaggio umano un “linguaggio che più non suona su labbra di viventi”. [39]
Si può scrivere obliando la lingua morta e la voce morta. Si può scrivere prendendo appunti per strada, in metropolitana, cercando di riportare il reale nel reale. Ma neanche un ronzio verrà registrato, neanche un sospiro premortale. Il linguaggio umano non suona più su labbra di viventi.
Si può solo andare, indomiti, girovagando, praticando flânerie, lungo i sentieri dell’indefinito. Non si può che essere l’esperienza.
L’esperienza della scrittura è un tentativo di essere l’esperienza.
Non si può tentare, invano, infinitamente invano, di essere l’esperienza, se non attraverso l’esperienza della “Voce senza suono”: del “suono del silenzio”: se è vero che, possiamo definire la fonologia come “scienza della voce tolta, cioè della Voce”. [40]
La letteratura, come la filosofia, ha certamente a che fare con l’esperienza del silenzio. La letteratura deve essere segregata nel silenzio, senza identità, cercando il proprio nome, infinitamente senza nome. Ambire alla possibilità di Dio. Attuare l’appressamento alla morte subendo l’appressamento della morte.
Solo la parola può metterci in contatto con le cose mute. Le parole sono morte. Le cose mute sono vive. Sarebbe forse, in questo abbraccio vitale e mortale insieme, tentare il silenzio. In varie forme: attraverso il pensiero della voce; attraverso il poema, persino. Esiste la possibilità del romanzo poematico come appressamento alla morte e possibilità di Dio. Esiste la possibilità dello scempio.
Lo scrittore è la notte, lo scrittore è fantasma. Vede rappresentazioni e vive se rappresenta: dunque muore. “L’angelo della morte (…) è il linguaggio. Esso ci annuncia la morte – che altro fa il linguaggio? Ma proprio quest’annuncio ci rende così difficile morire”. [41]
Lo scrittore deve imparare a morire.
Appressamento della morte, prossimità con l’origine.
Morire: accogliamo i borborigmi universali, gli smottamenti sotterranei, quelli celesti. Sfaldiamo, da morenti, i ghiacciai seppelliti sotto eoni e eoni e eoni, millimetri millimetri millimetri. Nuotiamo nelle spore di questa lingua morta, lingua morta che muore, relitto dopo relitto dopo relitto.

 


[1] Stefano Dal Bianco, “Il percorso della poesia di Andrea Zanzotto”, in Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 2011, p. VII.

[2] Ibidem.

[3]Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, Roma, 2008.

[4] Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Einaudi, Torino, terza edizione accresciuta, 2008.

[5] Ibidem.

[6] Vedi Giorgio Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Einaudi, Torino, nuova edizione accresciuta, 2001, pp. XIV-XV.

[7] Ivi, p. 11.

[8] Thomas LeClair, An Interview with Don DeLillo, “Contemporary Literature, 23, no.1, pp. 19-31. L’intervista è leggibile anche in Thomas DePietro (edited by), Conversations with Don DeLillo, University Press of Mississippi, Jackson, 2005, pp. 3-15.

[9] Maurice Blanchot, L’infinito intrattenimento. Scritti sull’insensato gioco di scrivere, Einaudi, Torino,1977, p. 563; ripubblicato nel 2015, presso lo stesso editore, con il titolo, certamente più giusto, di: La conversazione infinita.                                                                                                                                                              

[10] Ivi, p. 564.

[11]  Il termine è introdotto da Carl Gustav Jung nel 1911 (Wandlungen und Symbole der Libido), con riferimento a un’imago “materna”, “paterna”, “fraterna”. Caratterizzata come “rappresentazione o immagine inconscia”, l’imago è piuttosto uno schema immaginario, un prototipo inconscio che orienta in maniera specifica il modo in cui il soggetto percepisce l’altro, ne orienta cioè le proiezioni. Formatasi sulla base delle prime relazioni del bambino con l’ambiente familiare, l’imago non va peraltro considerata come correlato di figure reali, ma presenta carattere fantasmatico; così a un’imago genitoriale minacciosa e terribile possono corrispondere genitori reali estremamente miti (Vedi la voce “imago” dell’enciclopedia Treccani).

[12] Vedi Jacques Lacan, “Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io”, in Scritti, a cura di Giacomo B. Contri, vol. I, Einaudi, Torino, 2002, pp. 87-94.

[13] Carmelo Bene, Opere. Con l’autografia di un ritratto, Bompiani, Milano, 1995, p. 3.

[14] Ivi, p. V.

[15] Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1964, par. 6.41, p.79. Vedi anche: Iris Murdoch, “Il romanziere come metafisico”, in Esistenzialisti e mistici. Scritti di filosofia e letteratura, a cura di Peter Conradi, il Saggiatore, Milano, 2014, pp. 123-129.

[16] Sri Ramana Maharshi, “Chi sono io?”, in Opere, Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma, 2012, pp. 49-60, cit. p. 51.

[17] Sri Ramana Maharshi, “La ghirlanda delle istruzioni spirituali”, in op. cit., pp.61-86, cit. p.77.

[18] Giacomo Leopardi, Storia di un’anima, scelta dall’Epistolario, con introduzione e note di Ugo Dotti, Rizzoli, Milano, 1982, p. 151.

[19] Franz Kafka, Racconti, a cura di Ervino Pocar, Mondadori, Milano, 1992, p. 452.

[20] Martin Heidegger, Il concetto di tempo, Adelphi, Milano, 1998, pp. 48-49.

[21] René Guénon, Gli stati molteplici dell’essere, Adelphi, Milano, 1996, p. 125.

[22] Martin Heidegger, Essere e tempo, nuova edizione italiana a cura di Franco Volpi sulla versione di Pietro Chiodi, Longanesi, Milano, 2005, p. 391.

[23] Ibidem.

[24] The Oxford Dictionary of Quotations, Oxford University Press, Oxford, 1953, seconda edizione.

[25] György Lukács, Teoria del romanzo, a cura di Giuseppe Raciti, Se, Milano, 2004, p. 63.

[26] Giorgio Agamben, Idea della prosa, Quodlibet, Macerata, 2002, p.85.

[27] Carmelo Bene, Op. cit., p. X.

[28] Andrea Zanzotto, Conglomerati, Mondadori, Milano, 2009.

[29] Idem, Tutte le poesie, cit. p. 1076.

[30] Emanuele Severino, Intorno al senso del nulla, Adelphi, Milano, 2013, p. 109.

[31] Carmelo Bene, op. cit., p. X.

[32] Robert Walser, Jakob von Gunten. Un diario, Adelphi, Milano, 2007, p. 168.

[33] Giorgio Agamben, Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura, Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 61-72.

[34] Id., p. 61. Vedi anche Gianfranco Contini, Il linguaggio di Pascoli, in Id., Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino, 1970, p. 237.

[35] Ivi, p. 62.

[36] Ivi, p. 63.

[37] Ivi, p. 68.

[38] Ibidem.

[39] Ivi, p. 71.

[40] Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sulla negatività, cit. p. 107.

[41] Id., Idea della prosa, cit. p.117.

Immagine: Sam Jinks, Baby.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).