Aldo Busi: la volontà, la violenza e la tracotanza per scrivere

da | Giu 23, 2015 | Senza categoria

Intervista allo scrittore, dal suo ultimo Vacche amiche, a ritroso e in avanti: “La mia maggiore ambizione è scrivere un romanzo meraviglioso, leggermelo e bruciarlo.”

Aldo Busi è l’uomo dei suoi libri. Per loro si è “ridotto persino a vivere”, qualcosa che gli è servito a “cavare vite letterarie da insulse vite esistenziali”. Per il resto, è nato a Montichiari, dove mantiene la residenza fiscale. Così è scritto nella biografia che appare sull’aletta delle sue opere – compresa l’ultima, Vacche amiche (un’autobiografia non autorizzata) (Marsilio): una freccia con la cuspide rivolta alle pagine del libro, perché Busi è lì dentro. Non la sua vita, ma molto di più e cioè Busi, che non ammette distinzioni tra uomo e scrittore, perché “uno scrittore vero non è mai autobiografico nemmeno quando lo è”. Busi, che quando scrive, vive e quando vive, dirige da maestro.

Di maestri ci sentiamo orfani e, che lo vogliano o no, i grandi li chiamiamo così: maestri.

 

Busi, perché cerchiamo con tanta foga dei maestri? Lei sente di esserlo?

È qualcosa che non capisco molto. Ho frequentato solo le medie, lavorando prima, durante e dopo. Venivo da una situazione scolastica sfortunata, infelice: ho capito solo dopo che è stata, invece, fortunatissima. Ho dovuto studiare da autodidatta e ho scoperto che proprio questo, considerato come una tara inemendabile, era il viatico dell’invenzione. E a parte che mi ha costretto a confrontarmi con migliaia di testi in svariate lingue come nessun sistema scolastico al mondo contempla.

 

L’autodidatta, però, deve anche essere in grado di riconoscere il proprio talento. È così sicuro che sia capace di farlo?

Certo, totalmente. Io non ho mai avuto dubbi sul mio genio della scrittura come non ho mai avuto dubbi sulla mia psiche sia cosmica che comica. Neanche a sette anni. L’ho sempre raccontato: ho avuto conferme sin dalle elementari, i miei temi venivano letti nelle terze, quarte e quinte. Succedeva anche alle medie. In quegli anni, non avevo libri in casa. Scoprii presto, forse a dieci anni, che, non lontano da dove abitavo io, a casa di una giovane coppia di origini laziali, c’erano i due Melzi, il dizionario linguistico e quello scientifico: li chiesi in prestito e li lessi dalla prima pagina all’ultima, tutte le voci, capendo o non capendo, non aveva importanza. Ricordo ancora con struggimento il colore rosso amaranto delle copertine. Non scrivevo soltanto: facevo cose che normalmente ai bambini non interessava fare, leggere tutto, dalle targhe automobilistiche ai titoli di coda delle locandine dei film, quelle mansioni di tecnici del suono e della luce così inconsuete nei centri rurali, alle istruzioni sui bugiardini dei medicinali, quei nomi così impronunciabili e misteriosi di origine greca e, se posso, un bel po’ stronzica. Ero affamato di lettere, onnivoro, delle cartoline ammiravo gli indirizzi e i saluti sul retro, sognavo di riceverne una anch’io, un giorno. Andavo alla ricerca di libri, ricordo che colpo di fortuna ebbi a imbattermi in un ex carcerato che veniva a prendere la corriera davanti al bar di mio padre. Mi disse che aveva la casa piena di romanzi, allora presi ad andare a trovarlo servendomi della stessa corriera che prendeva lui. Arrivavo da lui con la sporta, la riempivo di libri, facevo ritorno, glieli riportavo e via con un’altra sportata. Cronin, Steinbeck, Sinclair Lewis, Vittorini, Pavese, Hemingway, persino Gertrude Stein, nessun D’Annunzio, Pitigrilli, Liala, Guido da Verona, adesso che ci penso, mi è andata proprio bene. Avevo undici anni. Il mio era un disciplinamento implicito, indiretto, quasi non voluto: il talento non c’entrava, la mia era una passione dettata dalla volontà di alfabetizzarmi non meno del rappresentante delle caramelle Dufour.

 

E che cos’è la volontà?

È uno zucchero sublime, non so come si produca, ma so certamente che viene da cellule e ormoni, tutti molto inani e gracili, che tutti insieme, chissà perché, la creano, come la più proibitiva e inumana delle voluttà. Nella volontà risiede l’anima degli antichi, che pure discettavano molto di caso e del suo contrapposto, il destino, la cui unione dà luogo alla tragedia, che è sempre la tragedia di non disporre della volontà risolutoria per opporvisi. La volontà è la vera hybris dell’uomo nei confronti di sé stesso allorché non riconosce altro dio fuori di sé, come me. Anima è una parola che non uso mai, per via della sua origine religiosa, ma chi ha una volontà, ha un’anima in fieri, non una cosa datata e fissata una volta per sempre, e costui, un uomo di ottima volontà, è in grado di creare da sé il maestro che fuori non trova. Non sto parlando di uno sdoppiamento, simile a quello del bambino che crea il compagno di giochi immaginario, perché magari non ha fratelli, sorelle, amici. No, è qualcosa di diverso. La volontà è un’auto-violenza. Io dovevo studiare, lavorare, mantenermi. Ero via di casa, dovevo imparare le lingue straniere, migliorare la mia condizione di sguattero per niente vocazionale. Io lavavo i piatti e al contempo mi sentivo un imperatore così capriccioso da lavare i piatti per fare tirocinio al comando. Tutto questo è stato il mio maestro. La malattia, la disoccupazione, la nostalgia di una casa che non hai o di una madre che hai conosciuto poco, la malinconia, l’esigenza di raggiungere l’indipendenza economica e la naturale regalità della mia intelligenza indomita e coraggiosa: sono questi i maestri. Un maestro, per essere perfetto, dovrebbe portare il discepolo a liberarsi di lui. È come lo Stato di Marx: se è perfetto e realizzato, dovrebbe sparire. Invece, il maestro plagia. E anche l’auto-maestro può essere plagiante, non credo di essermi riuscito bene del tutto.

 

Allora come si trova un giusto equilibrio?

Con l’ostinazione e il limite da superare piolo per piolo, senza scavalcarne mai uno solo lasciando a briglie sciolte l’ambizione artatamente liberata dal morso del senso della disciplina dovuta per non scambiare una proiezione con la realizzazione della cosa desiderata. Si deve insistere e perseverare nella disperazione, nella disarmonia, nella frustrazione, nel sentirsi messi in un canto o in castigo non si saprà mai bene perché. Io è come se fossi sopravvissuto a sessantasette campi di concentramento, ma non ho mai perso di vista quello che volevo: scrivere. Magari mi sarebbe piaciuto anche vivere, ma m’interessava molto di più scrivere, forse perché vivere era al di sopra delle mie effettive possibilità. Ecco perché mi fanno ridere le scuole di scrittura, che con tutto questo c’entrano poco, anzi, nulla, peggio, c’entrano, sì, qualcosa: i soldi che costano. Una truffa concordata tra le parti. Mi mantengo sul banale: un corso di scrittura creativa è persino nocivo se non si ha prima di tutto l’impulso di imparare a memoria almeno alcune delle Metamorfosi di Ovidio in latino prima di mettere “Mah!” nero su bianco.

 

Questo può essere trasmissibile. Le scuole di scrittura, invece, insegnano. Innanzitutto, a confezionare un prodotto. 

Non è facile scrivere un prodotto che diventi un prodotto comperato. In migliaia ci provano, ma solo uno fa il best seller. In Italia bastano 20-25mila copie per farne uno. Sono numeri che non raggiungerò mai con Vacche amiche, sebbene tutti quelli che l’hanno letto, per quel poco che me ne arriva, sembrano esserne rimasti incantati. Le recensioni sono tutte entusiastiche, e tutte, come dire, disinnescate, inefficaci. Forse, se qualcuno finalmente si decidesse a stroncarlo, venderebbe di più. Fino a quindici anni fa, sarebbe bastata una recensione delle tante che sono uscite adesso per far vendere il libro. Adesso nemmeno trenta portano alla metà della metà del risultato di allora. Eh, allora le vacche erano davvero grasse, magari nemiche, ma che tempi! E pensare che si stava già peggio, tanto che ci pareva che il meglio fosse ingrato e meschino. Avercelo ora! Quelle rare volte che entro in una libreria penso, ‘Quanta bella carta da riciclare! Il macero deve essere un mercato in grande espansione’.

 

Lei scrive, a questo proposito, proprio in Vacche amiche, che il romanzo è morto perché è morta la ricezione della letteratura, come di tutte le cose non immediatamente fruibili.

Io faccio oggetti di letteratura, ma deve anche pensare che, a farne, sono sempre stati grandi signori con importanti mezzi economici. Flaubert, Balzac… che di certo non si dava pena di fare troppi distinguo tra i generi… Proust erano ricchissimi. Virginia Woolf era molto benestante. La letteratura è nata nelle mani di gente che non pensava di dover vivere di diritti d’autore. Diverso è il caso del grande romanzo del Settecento inglese: Richardson scrisse Pamela e Clarissa perché voleva vivere di diritti d’autore e ci riuscì. Viste le mie origini, io dovrei essere uno da “libri di cassetta”, invece faccio libri di letteratura. Vede la felice contraddizione, la rottura dello schema? Prendiamo autori italiani: Verga e De Roberto stavano più che bene, e Verga nei suoi romanzi giovanili non si discosta molto da Liala. Malaparte era un uomo di governo. Calvino fece molti soldi. Moravia era un borghese telesceneggiato e filmato a tappeto. Pavese no, ma visse e scrisse poco, e poi i piemontesi sulla pagina sono come a letto: monocordi e insapori, è incredibile che abbiano inventato i savoiardi. Io, da proletario, sono diventato l’aristocratico della scrittura perché ho fatto oggetti di letteratura. Se sono oggetti contundenti e respingenti, pazienza per i mollaccioni che insistono sia a leggerli senza avvicinarsene, sia a non leggerli facendo tutt’uno con il pregiudizio che se ne fanno.

 

L’indipendenza economica permette di scegliere che tipo di scrittore si vuole diventare, certo. Tuttavia, lei ha esercitato una libertà di scelta pur non avendo i mezzi per farlo, almeno all’inizio.

L’indipendenza economica è molto importante per uno scrittore come per un imbianchino che oltre al lavoro deve anticipare la vernice. Quando ero povero, volevo qualunque cosa. Poi, sono diventato benestante e solo allora sono riuscito a moderare i miei desideri materiali. Considero un delitto di lesa, autentica maestà non diventare ricco, perché solo allora riesci a renderti conto di chi veramente sei e di quali sono i tuoi veri desideri, se sei un vero uomo di mondo o un pidocchio che si gratta l’ombelico per darsi allegria. Quando sono diventato benestante, del tipo spinto, ho capito che non m’interessava niente di quello che credevo mi interessasse. Ho preso la patente a trentuno anni. Ho pubblicato a trentasei con un anticipo da fame della Adelphi. Non ho mai pensato di poter vivere di diritti d’autore: ho creduto che avrei scritto sempre lavorando come cameriere, operaio, portiere di notte perché, quando lo facevo, non vedevo l’ora di tornare dal lavoro e scrivere, leggere, tradurre, studiare, guardare tv, ascoltare la radio, anche senza capire se ero sintonizzato su lingue che conoscevo poco o per niente, come il turco. Sono quasi rincitrullito dalla sbornia di turco e non ho mai mandato a mente una sola parola, non è meravigliosa la gioventù di uno innamorato dell’umanità a prescindere?

 

E della lingua italiana cosa mi racconta?

La lingua italiana è stata la mia prima lingua straniera. La mia lingua madre è il dialetto bresciano, che è una confluenza di francese, veneto, germanico, spagnolo, latino, latinorum, celtico. È un dialetto coltissimo e meraviglioso, come lo sono tutti i dialetti, con un sistema verbale sofisticato e un uso quasi genetico e connaturato del congiuntivo, che l’italiano non possiede che nel toscano, toscano per i toscani e straparlare per tutti gli altri che non ci mettono studio. Il dialetto bresciano, come bellezza e ricchezza di espressioni e sfumature, non ha nulla da invidiare alla lingua italiana nata dal dialetto fiorentino, e se è per questo nemmeno il veneto, il napoletano, il siciliano, il sardo. Poteva toccare a qualsiasi altro volgare e anche un parlamentare oggi sarebbe in grado di usare il congiuntivo senza farmi andare l’orecchio di traverso.

 

Lei parla con grande trasporto. Immagino sia lo stesso che le consente di continuare a scrivere nel modo che conosce, di continuare a essere Busi. Credo che lei abbia della fiducia, che non è la stessa cosa dell’ottimismo, in chi la legge e nel fatto che in molti ancora potranno scoprirla.

Non lo so più. Ho pubblicato quaranta o cinquanta opere (conto anche le traduzioni). È stato tale, per Vacche amiche, il disprezzo per me stesso, per essere tornato a scrivere, che è stato molto difficile portare a termine il libro – e non so nemmeno quanto sia a termine, tanto è vero che lo sto riscrivendo. Tuttavia, anche nel riprenderlo provo ripugnanza, quindi spesso mi libero di pezzi del romanzo e li regalo ai giornali. Ho una specie di voglia di autodistruggermi nel momento della messa in opera del testo. Un ossimoro, uno iato tra me e l’opera in corso, una schizofrenia. È qualcosa di tremendo e risolverlo non è stato facile. Rimbalzavo, precipitavo. Certo, c’è una fiducia nel perseverare a scrivere, ma la pago con la mia salute. Quaranta o cinquanta opere ed è come se fossero inedite. Valeva la pena? Sì.

 

Certo che sì: lei ha già lasciato una traccia. L’ha lasciata nella nostra letteratura e nella nostra lingua.

Non mi lamento. Però io non sono un canto di Ezra Pound, che nessuno capiva e forse non si capiva nemmeno lui. Ho scritto cose che erano rivolte al popolo italiano. Sono uno scrittore, non un autore. Ho scritto libri accessibili, che però non sembrano essere recepiti come tali. E, infatti, non sono andati dove dovevano andare. Negli anni, è venuto meno il sistema scolastico, il lessico standard si è ridotto tantissimo. Quando uscì, Seminario sulla gioventù poteva essere letto da chiunque avesse fatto le scuole medie. Negli anni Novanta si lamentavano, trovandolo “difficile”. E, sempre di più, si è ridotto il cervelletto linguistico e semantico delle persone: non so se, in questo, ci sia qualcosa di negativo. Già quando ero ragazzo, venivo considerato un’eccezione perché io leggevo e gli altri no. Però, quelli che leggevano io non li conoscevo. Non ho mai capito perché debbano leggere i borghesi e non gli operai, le macellaie e gli spazzini: ero anch’io uno di loro. Io non leggevo per carriera o guadagno: non dovevo fare lezione accademica, non avevo prebende dallo Stato. Leggevo perché, se non leggi, cosa fai nei buchi, anzi, negli squarci vuoti della vita? Tutte le persone disperate che vedo correre nei paesi e nelle città, dopo i 40 e i 50 anni, senza che nessuno si rivolga loro e nessuno tra di loro, mi sembrano orfane di sé stesse. Peregrinano, con sguardo famelico di parole, mai da dare, sempre da ricevere, o da dare in quanto sfogo e pianto sulla prima spalla a tiro. Ah, se solo avessero letto, invece di rompere le palle agli altri e a me che sono una specie di presidio psichiatrico ambulante! Quando vado a fare la spesa mi fermano per ore,  queste persone normali ma orbate della lettura, per parlarmi dei loro problemi, sempre squisitamente da analfabeti di panza. Io ho sempre letto, non perdono chi non lo fa e ancora vagola da un angolo all’altro della piazza in cerca di un discorso che lui per primo non sa fare. Almeno prima di morire, chiunque dovrebbe aver assemblato le parole per leggersi e dirsi. Bisogna invitare al suicidio tutti i noiosi che non hanno letto.

 

Se la seguo bene, lei sta dicendomi che la crisi dell’editoria c’entra molto con la paura della solitudine. Rifuggirla significa anche rifuggire dai libri: sono d’accordo con lei. Penso al modo in cui viene promossa la lettura: sequele di momenti di aggregazione, eventi in cui tutto si fa meno che leggere.

Io non partecipo. Se mi vogliono, peraltro, ho un cachet non bassissimo. Sono l’antitesi dell’esibizionista presenzialista gratis e disposto a smenarci pur di apparire, preferisco spacciarmi per un homo rigorosamente oeconomicus. Non mi piacciono le famigliarità non richieste, non faccio molte concessioni, men che mai in presenza di una trattativa economica per un evento o un’ospitata televisiva. A distanza adoro tutti e do una mano a tutti a fare al meglio il lavoro che non sanno fare nemmeno così così, ma nessuno si deve avvicinare e oltrepassare lo steccato delle buone maniere, men che meno dandomi del tu e chiamandomi “Aldo” a titolo gratuito, pur avendomi riconosciuto il compenso che ho preteso perché si mettesse a mio servizio.

 

C’è qualcosa che ancora non è riuscito a fare?

La mia maggiore ambizione è scrivere un romanzo meraviglioso. E poi leggerlo e bruciarlo. Sarebbe una bella sfida, no? Un selfie stupendo.

 

Nella tracotanza c’è la chiave della vita. E siamo vivi fintanto che diamo.

A me piacerebbe dare qualcosa anche a me stesso: se non lo faccio io, chi lo farà? Conosco i miei lettori. Chiedo loro se sono sicuri di avere letto me. Dico: ma perché hai letto me? Perché hai letto Busi, se poi ti comporti come se avessi letto fumetti biechi, triti, ritriti? Cosa ti ha dato leggere Busi se non ha portato nulla nella tua vita civile e ancora non hai imparato che le posate non si tengono a remi sui piatti? Com’è possibile che leggermi ti sia servito per perfezionare solo la tua corruzione e la tua sciatteria di italiota? È triste per me, da vivo, che i miei libri siano finiti nelle mani sbagliate: preti, banchieri, baroni, psichiatri, santoni, maghe che li hanno usati per perfezionare la loro brama di potere per il potere. Mi rattrista che il mio lavoro non abbia contribuito ad aumentare la coscienza civile o almeno a diminuire la forfora sulle spalle dei doppiopetti dei magnaccia istituzionali.

 

Il suo ideale è riuscire ad avere un’influenza sulla morale delle persone che la leggono tanto da inciderla, lasciarvi un’impronta?

Certo! Cosa se ne fa l’umanità di uno scrittore che non vuole cambiare il mondo, possibilmente partendo da se stesso? Solo ai supermercati e ai politici e ai preti e ai militari e banchieri e ai pavidi in generale conviene che resti tale e quale. Che mi si legge a fare, altrimenti? E perché si dovrebbe mai leggere? Per sapere il significato della parola panopticon? L’etica civile non è una bella frase: implica consapevolezza, autocontrollo, soppressione dell’istinto di rapina. Se qualcuno legge le mie opere e non arriva al fondo della sua insaziabile trippa becera e animalesca, se non interviene per contenerla ed educarla, perde il suo tempo. Io volevo che a leggermi fossero operai, lavoratori, commesse. I cittadini, tutti! Io volevo e ancora voglio una rivoluzione, però stavolta dal basso verace, non dal bassissimo delle classi dirigenti. Ma loro, questi citoyens del mio Stivale, non ci sono: non vedo l’eco sociale della mia opera, mentre sempre più a migliaia continuano a lamentarsi di non vedermi più in televisione, nelle mie operette, per quanto deliziosamente fuori canone siano. E allora ecco l’assurdo che ripeto: pur di restare inedito, mi sono ridotto a pubblicare.

 

Più che assurdo, una contraddizione. Contraddirsi è un lusso, un dovere o un errore?

È una cosa che capita ed ha una sua qualità e necessità, spesso persino un suo rigore. Io non so cosa sia la contraddizione: chi crede che io mi contraddica è stolto. Non credo di essermi mai contraddetto. Si chiama contraddizione l’incapacità di accettare che si è ciò che si dice fintanto che altre prove sulla vera personalità non sono a disposizione. La retorica ha le sue apparenti tortuosità, e talvolta si dà una mossa per tenersi sveglia, niente di male, si ride di sé. La vera e drammatica contraddizione non sta nel discorso con le sue parti e sfaccettature e controtempi comici, la contraddizione è quella tra il dire e il fare, l’ipocrisia della comoda scissione messa con le spalle al muro, e lì nessuno potrà mai prendermi in castagna.

 

Non si ricrede neanche mai?

Sono poche le occasioni che ho per commettere errori, non sono un colluso proprio di carattere. Una delle prove più grandi di civiltà e virilità sta nel saper riconoscere un proprio errore. Io non mi sono trovato in gangli esistenziali o politici per cui abbia commesso errori delinquenziali che mi abbiano incanaglito e di cui possa vergognarmi a tal punto da doverli nascondere. A volte ho chiesto scusa anche sapendo di non aver sbagliato, perché ero davanti a persone gracili. Però mi sono pentito: quella finta comprensione, quell’eccesso di indulgenza verso gli altri sono sbagliati, sono stato ingiustamente troppo pietoso. Non bisogna mai graziare nessuno: facendolo, non gli si dà la possibilità di rimettersi in gioco e rimettere in gioco la propria perseveranza, magari nell’errore. Significa, in altre parole, sottovalutarlo. Sottovaluto qualcuno tanto da rinunciare a dirgli in faccia il resto solo quando lo do per spacciato anche senza il mio calcio in culo.

 

Scrive ancora lettere?

Scrivo mail molto lunghe e strutturate come se fossero sculture di giada sull’orlo di un tavolo, non si sa quanto staranno lì e se stanno per cadere. Ci metto anche due ore per trovare il punto giusto di vertigine romantica. Perciò raramente non le invio a me stesso.

 

Marco Cubeddu (Genova, 1987), ha pubblicato i romanzi «Con una bomba a mano sul cuore» (Mondadori, 2013) e «Pornokiller» (Mondadori, 2015). Scrive su diverse testate, tra cui «La Lettura» del «Corriere della Sera», «Link - idee per la tv», «Il Secolo XIX», «Panorama», «Il Giornale» e «Linkiesta». È caporedattore della rivista letteraria «Nuovi Argomenti». Vive tra Roma e Milano. «L'ultimo anno della mia giovinezza», reality letterario sulla vita di Costantino della Gherardesca, esce per Mondadori il 30 gennaio 2018.