Trasformazione: il nazareno di Chaves Nogales

da | Mag 7, 2013 | Senza categoria

Non esiste Pasquetta in Spagna. E non esiste soluzione di continuità. Lunedì mattina il centro è un brulichio di gente. Sprazzi di sole rompono giorni troppo bui. Le strade delle celebrazioni ufficiali sono già libere. Sembra che nulla sia accaduto, che qui le file di centinaia e centinaia di seggiole non siano mai state ammonticchiate e che chili e chili di cera non siano caduti da migliaia di candele e che chili e chili di mondezza non siano mai stati raccolti. Tutto è come sempre a Sevilla quando i grandi giorni devono arrivare. I negozi su calle Francos ricominciano a essere affollati di donne che controllano il taglio di tessuti di ogni colore, mentre in Alcaiceria de la Loza il via vai è sulla porta delle sartorie classiche da uomo. Si aspetta la feria, allora. Già si aspetta la feria. Giacchette corte da cavaliere andaluso, selle in cuoio scintillante, vestiti luminosi da sevillana, fiori tra i capelli. Plaza del Salvador, che nella mattina di venerdì sembrava un mare di teste riverse, bagnate dalla pioggia e dalla stanchezza, nell’attesa furibonda che la Macarena riprendesse il cammino e quasi corresse indietro verso la sua chiesa, è di nuovo una distesa di teste riverse, ma al contrario, anziché al cielo sul bicchiere. Dalle sette in poi, sotto l’ultimo sole, la Bodeguita Los Soportales e l’Antigua Bodeguita sono affollate, i bocchettoni metallici spillano birre e birre e le mani veloci compongono vino rosso e limone, vino rosso e gassosa, birra e gassosa, birra e birra e cocktail e ancora cocktail. Non c’è chi non si aggiri con un bicchiere in mano. E così va via il lunedì, poi il martedì e il mercoledì, e con il giovedì, be’, ormai è fatta e già comincia a avvicinarsi il weekend. Ma non cambia nulla. Le porte si aprono e richiudono in continuazione nei negozi di tessuti e vestiti. Le porte restano aperte come in un Colosseo dell’anima in tutti i locali dove si beve, si mangia, si ciarla e si domanda “eri anche tu fra i nazarenos del Cristo di? Chi c’era fra i nazarenos della Vergine di? Non dirmi che quest’anno eri nazareno anche tu nella tua confraternita di?” e così via.

Cosa dicono, uomini e donne, a Sevilla, in questo scorcio postumo di Semana Santa? Perché ci si vanta o ci si prende in giro per aver sfilato in interminabili processioni, portando croci, candele, immagini, il volto nascosto da un cappello a cono che a chi non sia abituato pare una reminiscenza del Ku Klux Klan, il corpo coperto da una lunga veste nera o bianca o bianca ornata di rosso o verde o di tutti i colori e i tessuti che le confraternite di Sevilla, più o meno ricche, hanno scelto per i fratelli destinati a sfilare fra i pasos? Di cosa si sta parlando e perché è così scontato vantarsi o prendersi in giro per il vanto? Per una settimana intera i libretti che raccontano quotidianamente le caratteristiche di ciascuna confraternita, hanno snocciolato numeri: Confraternita de La Paz, 1750 nazarenos; Confraternita de San Gonzalo, 2000 nazarenos; Confraternita di Santa Cruz, 550 nazarenos; Montesiòn, 800; El Gran Poder, 2300; Macarena 2750; La Mortaja 350. Da qualche centinaio a qualche migliaio a definire la lunghezza della processione, il tempo che impiega a passare da un capo all’altro, e soprattutto la sontuosità, eccellenza, sobrietà o semplicità del passaggio. Perché è vero che sono i pasos con le novità, l’eccellenza, l’artigianato, i restauri, gli ori e le ricchezze, a definire il posto che occupa ciascuna confraternita, ma sono i nazarenos, con la loro quantità e il loro stile, a comporre davvero il quadro. Del resto, è noto che ci sono confraternite che ammettono di tutto – dai nazarenos bambini, quasi bebè, fino a uomini che si fermano in un bar, baciano i passanti, si scoprono il capo – e ci sono invece confraternite serissime, che non ammettono se non fratelli dell’hermandad e non ne tollererebbero mai comportamenti poco consoni. Tutte quante, però, sono accusate dalle malelingue di un luogo ormai comune, sospeso fra verità e menzogna: da anni i nazarenos sarebbero sempre più spesso estranei in affitto, uomini pagati per l’occasione, pur di ingrossare le fila della processione e darle stile. Vero o falso che sia, il sospetto da solo rischia di rivelarsi distruttivo.

“Non si è mai dato il caso che una hermandad abbia dovuto affittare nazarenos. Il giorno in cui questo capiterà, i penitenti si convertiranno in comparse e la Semana Santa in una mascherata”. Le parole di Chaves Nogales non ammettono repliche. Furono vergate nel 1935 per il quotidiano Ahora di Madrid. Erano tempi di fuoco e di fuoco era l’uomo. Cronista, viaggiatore, aviatore, scrittore – Manuel Chaves Nogales era nato a Sevilla nel 1897, si era trasferito a Madrid nel 22 e aveva scritto dei grandi totalitarismi del secolo viaggiando (anche come aviatore) nella Russia bolscevica, intervistando Goebbels, raccontando Hitler.  In quello stesso 35 era uscito il suo capolavoro, una biografia condita di elementi narrativi, costruita su una letterarietá anfibia che sarebbe andata di moda oltre settant’anni dopo. Il libro s’intitolava Juan Belmonte, matador de toros, era dedicato al più famoso dei toreri novecenteschi ma raccontava soprattutto la sua Sevilla. La città che avrebbe affrescato ora nel reportage sulla Semana Santa, prima che i tempi cupi della guerra civile finissero per costringerlo all’esilio. In Francia, fino all’invasione nazista. Poi in Inghilterra. La moglie e la figlia però non poterono resistere al richiamo della patria. Chaves Nogales invece sarebbe morto a Londra nel 1944.

Cosmopolita per scelta e necessitá, dunque, Chaves Nogales conosceva la Spagna profonda e, proprio perché aveva visto molto di più, sapeva giudicarla con lucidità, senza paura di apparire provinciale. Quando si mette a scrivere, nel 1935, la Semana Santa sta per tornare in scena. Perché tornare? La Repubblica è stata proclamata a fine aprile del 1931, e tra i cambiamenti che ha portato a Sevilla, con un senso di laicità quasi esasperato e infine fideistico, c’è una specie di lotta senza quartiere contro manifestazioni arcaiche, apparentemente irrazionali e ispirate a una fede che andrebbe semmai smantellata. Il risultato è che il più paradigmatico degli eventi, la festa pasquale, finisce per ritrovarsi privo di qualsiasi finanziamento. Nel 1932 la settimana passa in un lugubre vuoto; nel 1933 si offre qualche spicciolo solo alla confraternita più povera – l’Estrella de Triana – e il risultato è un fiasco; nel 1934 si raggiunge un compromesso che permette una manifestazione dignitosa. Poi le cose cambiano. Si decide, da ogni parte politica, di evitare qualsiasi boicottaggio e la Semana Santa torna in programma – bene di tutti i sivigliani. Chaves Nogales, allora, scrive. Nonostante sia lontano, a Madrid, con il piglio dello scrittore che mescola racconti, ricordi, fattarelli, considerazioni politiche o filosofiche, istantanee da cronista e ritratti di personaggi minori da grande narratore, pubblica un reportage sul giornale di cui è direttore, Ahora, molto vicino al Presidente Azana che resterà al suo posto fino alla fine della guerra civile, nel 1939. Si tratta di pagine eccezionali che appariranno anche in versione ridotta sul settimanale francese Voila nell’aprile del 1936 e che oggi finalmente ricompaiono in una raccolta di scritti giornalistici intitolata Andalucìa roja y “la Blanca Paloma” (Almuzar, pp. 165, euro 15,95).

Troviamo tutto quello che può spingerci alla curiosità, in questa storia a metà tra memoir, evocazione e cronaca. Numeri, denaro, quantità di cera, candele, velluti, ori, argenti si intrecciano con la descrizione dei ruoli e con le storie di personaggi più o meno noto che rappresentano perfettamente quei ruoli, dal famoso capataz fino al più povero dei venditori di cera. Fiori, vestiario, leggi e storia si mescolano a notazioni ironiche, appassionate, precise e fredde come solo nella penna dei più chirurgici fra i cronisti. Su tutto corre una comprensione che razionalmente si affida a un senso poco ragionativo di un evento che ha a che fare con l’irrazionale e che i suoi peggiori nemici li trova “nel Cardinale e nel Governatore, ossia il rappresentante della Chiesa e dello Stato”. Non perde mai il filo, Chaves Nogales, nonostante le ragioni che esaltano migliaia e migliaia di sivigliani siano sostanzialmente omesse da un punto di vista dichiarativo e a esse si rimandi piuttosto per allusioni. Di molti piccoli eventi e curiosità però lo scrittore ci indica una spiegazione prosaica, semplice, che rimanda spesso alla debolezza connaturata alla dimensione di noi uomini. E così è, per esempio, nel caso del ruolo di nazareno.

Chi appartiene a una confraternita “mette in essa ciò che di meglio ha in se stesso”. E tuttavia non sono molti quelli che passano l’anno intero a vedersi, discutere, considerare, immaginare. Chi lo fa, generalmente lo fa con l’animo sivigliano più puro, spiega Chaves Nogales, quello di un popolo di concittadini che quando si diedero alla costruzione della Cattedrale lo fecero dicendo “tiriamo su un tempio tale che le generazioni a venire possano prenderci per matti”. I fratelli s’incontrano infatti per sognare ori, lussi, ricchezze esagerate e imponderabili. Questi fratelli spesso sono gente umile e dalla vita grigia che non possono far altro che sognare “mantelli rutilanti bordati di oro e montagne di pietre preziose”. I potenti della confraternita non fanno parte di questo piccolo zoccolo duro che si riunisce spesso in taverna e che finisce per costituire la classica tertulia, ossia la situazione tutta spagnola in  cui si discute di un argomento finendo per discuterne mille altri: “queste tertulie in cui si parla alternativamente di santi, toreri e donne è dove si va elaborando lentamente la Semana Santa di Sevilla”. Ma appunto, sono pochi questi umili carbonari della Vergine. E quando si avvicinano i mesi di fuoco, la domanda è sempre la stessa. “Quanto siamo pochi! Ce la faremo?”. Poi, improvvisamente, i numeri cambiano: decine e decine di fratelli compaiono sull’uscio, le fila dei futuri nazarenos vanno ingrossandosi a vista d’occhio. Cosa succede? Chaves Nogales intitola il suo capitoletto “La vanità del volto nascosto”. Le sue parole bastano da sole: “Quando cammina all’interno della fila interminabile, rigido e silenzioso, senza nulla che possa distinguerlo dagli altri e la gente lo guarda negli occhi che brillano dietro il cappello a cono chiedendosi “Chi sarà questo?”, il nazareno del Gran Poder sente crescere meravigliosamente la sua personalità, un orgoglio sovrumano lo prende e s’illude di essere lui, lui solo, tutta la confraternita; lui è dunque il ricco commerciante, il potente banchiere, l’aristocratico fine, il famoso torero, il signorino sbevazzone, il cacicco temuto, l’odiato usuraio, il galletto, il latifondista. Tutti i potenti della confraternita, quando si coprono il capo con i loro cappelli e dissimulano il corpo sotto le pieghe della tunica, prestano i propri attributi di potere al nazareno sconosciuto, al pover’uomo a cui scintillano gli occhi di satanico orgoglio quando sente dire alle sue spalle: “Sarà lui Maranon? Sarà Sanchez Dalp? Sarà el Gallo?”

[continua…]

La prima parte del reportage di Matteo Nucci è qui.
La seconda qui.
La terza qui.
La quarta qui.
La quinta qui.
La sesta qui.

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).