Teju Cole. Delle città aperte o della porosità di certi confini

da | Set 10, 2014 | Senza categoria

 

Parte prima – La morte è una perfezione dell’occhio

New York 

Non vedo i confini di questa città, ma ne sento i suoni

Circonferenza

New York non è mai descritta nella sua totalità: da flaneur, Julius non può vederla dall’alto, ma solo ad altezza d’uomo, dalle strade, dai marciapiedi. «E così quando lo scorso autunno avevo cominciato a fare le mie passeggiate serali, mi ero reso conto che Morningside Heights è un buon punto di partenza per esplorare la città». Quindici minuti da Central Park, a Est di Sakura Park, a Nord c’è Harlem: in geometria si dice  circonferenza il luogo geometrico costituito da punti equidistanti da un punto fisso, detto centro – fare il flaneur è andare a visitare tutti i punti equidistanti dal centro e superarli, andare così lontani da dover prendere la metro per tornare a casa.

Le migrazioni

Dice «poco prima che iniziassero i vagabondaggi, avevo preso l’abitudine di osservare il passaggio degli uccelli migratori da casa mia, e ora mi chiedo se ci fosse un nesso», ma se Julius fosse un animale sarebbe una formica che perde la direzione, un animale che si perde volontariamente. Dalla finestra si vedono passare piccioni, rondini, scriccioli, orioli, rondoni e tanagre. E le oche, delle cui migrazioni si ricordano solo i colori del cielo e le stazioni radiofoniche, puntini neri in movimento associati a un brano per orchestra e contralto solo di Ščedrin (o forse era Ysaÿe).

Non siamo abituati a sentire la nostra voce

Sant’Agostino non riesce a credere che si possa leggere senza pronunciare le parole. Ogni libro è un dialogo, qualcuno che scrive e parla, qualcuno che legge e risponde. Parlare da soli: eccentricità, muoversi fuori dalla circonferenza, rendersi visibili, come vedersi camminare nella folla. Il silenzio dei libri contro il rumore incessante della strada, «uno shock dopo la concentrazione e la relativa quiete della giornata, come se qualcuno avesse acceso un televisore a tutto volume in una silenziosa cappella privata», ma il volume non si abbassa, non c’è uno schermo di protezione.

«Una sera ero arrivato a Houston Street semplicemente camminando senza sosta per una decina di chilomentri, fino a sentirmi così esausto e disorientato che faticavo a stare in piedi», quella sera non riesce a dormire, Julius, rievoca gli episodi e le scene a cui ha assistito nella sue peregrinazioni – è un pellegrino, il santuario è la città.

Ogni quartiere è di una sostanza diversa, ognuno ha una diversa pressione atmosferica, un diverso peso psichico.

«Le camminate rispondevano a un bisogno: erano una liberazione dalla severa disciplina mentale del lavoro»: è uno psichiatra, nessun errore, nessuna imperfezione. Vagabondaggi come abbandono a una vita psichica incontrollata, lungo tracciati conosciuti: un jazz, un’improvvisazione su un tema conosciuto. Dal vecchio professore Saito «ho imparato l’arte di ascoltare, e anche l’abilità di costruire una storia partendo dalle omissioni» – così ricostruiamo anche New York, pezzo a pezzo, strada per strada, come seguendo l’idea che «sono gli spazi tra le forme, gli spazi necessari, a definirle come onde o dune».

 

Gli spazi bianchi

Le omissioni, quello che hai perduto – quello che è stato cancellato. Cammini su un cavalcavia, vedi questo panorama «sotto il livello della strada, scorsi il bagliore verde metallico di un vagone della metropolitana, che, esposto agli elementi, attraversava lo spiazzo, una vena liquida sul collo dell’undici settembre», accanto trattori che sembrano giocattoli in quella buca enorme dove prima sorgevano le torri. Il vuoto. «E prima ancora? Quali vie dei Lenape sono sepolte sotto le macerie? Quel luogo, come d’altronde tutta la città, era un palinsesto scritto, cancellato e poi di nuovo riscritto. […] Generazioni su generazioni si infilavano nella cruna dell’ago, e io, individuo di una folla appena discernibile, entrai nella metropolitana. Volevo trovare la linea che mi collegava al mio ruolo in quelle storie. Da qualche parte vicino all’acqua, tenendosi aggrappato a quello che conosceva della vita, il ragazzino, con uno scatto secco, aveva spiccato un altro salto».

 

Al di là dell’oceano

Voli a Bruxelles e non sai neanche perché. I tuoi vagabondaggi ti portavano a chilometri da casa, adesso ti portano su un aereo. Prendi tutte le tue vacanze, passi mesi in Europa. Qui stava tua nonna – ti assomigliava? Le omissioni: non sappiamo che aspetto ha Julius, come non sappiamo qual è l’aspetto di New York. Osserviamo tutto dal microscopio, conosciamo i tuoi pensieri, ma vediamo solo attraverso i tuoi occhi, mai i tuoi occhi. È la terza volta che vai, ma ricordi poco. Ordine, grigiore, l’atteggiamento formale e distaccato della gente. Il silenzio, la quiete: se New York è rumore incessante, è movimento, sono gli stormi che migrano, le metro che corrono, qui tutto è ovattato, silente, immobile.

Sogni di Lagos, la tua Nigeria compare solo nei sogni, nei racconti, nelle storie delle persone. Piove, una notte a Bruxelles, e tu sogni della pioggia implacabile e intensa che ti spaventava e confondeva un giorno della tua infanzia. Ricordi di quando tuo padre beveva la Coca Cola e tu ti eri ripromesso che da grande ne avresti avuta quanta ne volevi – salvo poi crescere e iniziare a odiarla. Ricordi tutte queste cose e detesti chi vuole rendere la tua giovinezza qualcosa di esotico, chi ama gli scrittori in esilio che mitizzano le loro origini, perché per te sono solo origini e a volte il suono dei tuoi pensieri sembra rimbombare nel silenzio della cattedrale belga. Fuori piove ancora.

 

A New York – Parte seconda. Ho esplorato me stesso

Il Loews 175th Street Theatre era ricco di dettagli sfarzosi: lampadari, moquette rossa, una profusione di ornamenti architettonici ispirati a vari stili – egizio, moresco, persiano, Art Déco. È diventato una chiesa, sempre meno frequentata. Nella sua prima vita ospitava trentamila spettatori, ma il miscuglio di stili architettonici non era riuscito neanche allora, non si è mai risolto in qualcosa di significativo.

Come psichiatra sei abituato a usare i Segni Esteriori come indizi di realtà interiori, nonostante la relazione tra i due mondi non sia affatto chiara. I Segni sono visibili, difficile non notarli, ma non è forse quello che resta invisibile, inascoltato a essere più importante? Pensi al punto cieco, il blind spot che non riusciamo a vedere. «È proprio qui, dove si concentrano molti dei neuroni associati alla visione, che la visione va in tilt».

La mente è opaca a se stessa, pensi. Una notte, vedi le luci della Quarantaduesima che lampeggiano in lontananza, il vento sferza rumorosamente, sei rimasto chiuso fuori dal Carnegie Hall: una solitudine di rara purezza. Trovi un’apertura di emergenza, rientri, ma prima guardi il cielo. «Le stelle! Non avevo pensato di riuscire a vederle, non con l’inquinamento luminoso che avvolgeva costantemente la città, e non in una sera di pioggia. Ma mentre stavo scendendo le scale, la pioggia si era interrotta, e aveva pulito l’aria. […] Erano stelle meravigliose, una nuvola lontana di lucciole, ma nel corpo sentivo quello che i miei occhi non potevano afferrare, cioè che la loro vera natura era l’eco visiva di qualcosa che era già nel passato. […] Negli spazi bui tra le stelle morte, brillanti, c’erano stelle che non potevo vedere, stelle che esistevano ancora, ed emettevano una luce che non mi aveva ancora raggiunto, stelle che vivevano e illuminavano ma che per me erano presenti solo come interstizi vuoti. La loro luce sarebbe arrivata un giorno sulla terra, molto dopo che io e la mia generazione e tutta la generazione dopo di me saremmo scivolati fuori dal tempo». 


Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).