Sylvia di Leonard Michaels: A fictional memoir in tre movimenti

da | Gen 14, 2015 | Senza categoria

Back to New York. A casa.

Questo è il 1960, 5 anni di corsi di letteratura e torni a New York senza un Ph.D (dal 1953 al 1956 sei stato iscritto all’Università del Michigan, poi a Berkley).

Nessuna idea di cosa fare, a parte il desiderio di scrivere.

(Un viaggio da Berkley a New York, pagato per riportare indietro una macchina che non ti appartiene, una Cadillac decappottabile. Montagne e praterie, «un uomo di ventisette anni iperspecializzato, che fumava sigarette e non sapeva descriversi meglio che dicendo Amo leggere»).

«L’appartamento dei miei genitori nel Lower East Side di Manhattan, quattro stanze e un balcone, era troppo piccolo per accogliere un altro adulto, ma non sarei restato lì a lungo. E comunque, mia madre mi faceva sentire un bambino.»

Dal loro balcone al quattordicesimo piano, verso Seward Park: donne sulle panchine, bambini nei recinti di sabbia. Partite di pallacanestro, mattina e pomeriggio. Di domenica, un mercatino dell’usato montato in fretta, vestiti a poco prezzo, brutti. Puoi comprare macchine fotografiche e televisori. Prostitute sotto un baldacchino di sicomoro e querce.

A Nord: Delancey Street, il ponte di Williamsburg, traffico.

A Ovest: Chinatown, dove abitava Arlene – a dieci anni, il tuo primo grande amore. Little Italy, dove hanno sparato a Joey Gallo.

Le navi mercantili procedono lente, come in sogno. Poi passeri velocissimi e aeroplani diretti in India e Brasile, il brusio vertiginoso dell’esistenza. Tutta la tua biografia in una casa per cui adesso sei troppo grande.

«Io parlavo per ore al telefono, raccontando ai miei amici che ero tornato, e facevo le ore piccole seduto in cucina a bere caffè, leggere e fumare. Quasi tutta la città dormiva».

(Non avevi rimpianti per l’università e gli anni persi, non avevi fallito niente di clamoroso. Leggi il New York Times e ti limiti a fissare la colonna degli annunci)

 

 

Il Village

Le strade del Village rigurgitano folle di turisti: giradischi, blues, marijuana, eroina, tranquillanti. L’appartamento di Naomi («Nessuna battuta. L’affitto è di soli 40 dollari al mese») è in una posizione invidiabile, credi: un tramezzo separa la cucina dal soggiorno, sul tramezzo sono poggiati il telefono, carte, libri e indumenti vari. Sul pavimento di larghi assi rozze e scheggiate: biancheria intima, scarpe e giornali. Una finestra alta, a ovest. Una sui tetti, giù fino allo Hudson e le scogliere del New Jersey.

In cucina, scalza, c’è Sylvia Bloch. Vivrete qua per molto tempo, ma ancora non lo sai.

(Finite a camminare insieme per quattordici isolati. Tornate indietro: «lungo le strade affollate, attraversammo il deprimente atrio verde, salimmo i sei piani di scale ed entrammo nello squallido appartamento, come una coppia destinata a un rito sacrificale. Cominciò senza inizio. Facemmo l’amore finché il pomeriggio divenne crepuscolo e il crepuscolo divenne notte fonda»).

La notte: la passate svegli, in attesa del ragazzo di Sylvia. «All’alba, senza aver dormito un minuto, scendemmo per strada. I detriti luccicanti della notte erano sparpagliati lungo il marciapiede […]. Fra il buio e il giorno, la città dormiva di un sonno fetido e attonito».

Sylvia ti chiede di andare a vivere da lei. Non c’è nessun ordine, neanche nelle vostre richieste.

 

 

Cambridge

A Cambridge lei lascia il dormitorio, «trovammo una stanza vicino al campus, in una grande casa con i corridoi immersi nella penombra. […] La verità è che non sapevo cosa stessi facendo esattamente, o perché mi trovassi a Cambridge».

La casa è piena di oggetti pesanti e inespressivi, coperti da lenzuoli bianchi, persiane accostate, porte chiuse a respingere luce e aria: chiunque ti direbbe che questa è la forma della tua storia. Oggetti incongrui, conservati, indisturbati, c’è una persona che vive con voi, ma neanche lui è padrone là. Stanze in affitto, mobili che non hai scelto, hai ventisette anni e non stai scrivendo abbastanza, Sylvia va a lezione, quando torna – nella stanza con la carta da parati grigia a fiori – e si siede sul letto, i suoi piedi non toccano terra. Le lenzuola tirate, il letto duro, ti sembrano perfette per un cadavere. Prima avevi annotato queste parole: «Una nuova atmosfera apocalittica. All’incirca in quel periodo Elvis Presley e Allen Ginsberg erano i re del sentimento e la parola ama risuonava come un proclama con la forza di uccidi». (L’uomo vi caccia dopo poco, finite in un’altra stanza, in una casa con tutti uomini, è rumorosa, vicina alla cucina, senti il frigorifero, ma i rumori ti piacciono). A Cambridge tutti camminano con energica convinzione. Un giorno vedi da lontano Sylvia che cammina piano, un chiodo nella scarpa. Quella notte dormite vestiti, uno accanto all’altra.

Tornate a New York.

 

 

New York

Subentrate nell’appartamento di Naomi. «Litigando ogni giorno, avevamo ormai sviluppato una feroce intimità»: la stanza diventa il ring, finirà quando uno dei due non riuscirà più a rialzarsi.  «Come in una metafora, una cosa era l’altra. Pieno di rabbia e odio, volevo scopare, e anche lei».

Litigate, poi fate l’amore, dormite. Sylvia frequenta la NYU, tu tenti di scrivere, ma questo lo hai già detto.

Nell’appartamento non c’è una scrivania, ma Sylvia non se ne accorge, neanche degli scarafaggi, si lamenta solo di te.

«La ripetizione, secondo i pensatori religiosi è serietà. Lavorare, mangiare, dormire, implicano ripetizione. Il sole che sorge, le fasi lunari, le rivoluzioni dei pianeti e delle stelle – tutto l’universo si ripete. Tutto è rituale. Cessare di ripetere equivale a morire – non il contrario». (è un dato di fatto della tua vita quotidiana, come i litigi e il sesso. Ogni giorno fate sei piani di scale, comprare le sigarette richiede lo stesso numero di passi di quella volta che sei andato a trovare tuo padre in ospedale: tornare a casa è faticoso, la scala come colonna vertebrale dell’edificio, l’odore dei cibi che cucinano, di hashish e di veleno per topi).

Litigate, Sylvia prende le tue camicie e le butta per terra, le calpesta. Tu registri le vostre liti in un diario segreto. La parola per voi è vibranti, di sesso, di angoscia. O anche compulsivi. Una volta torni più tardi del solito e lei ti getta un piatto di spaghetti in faccia – una scena che deve aver visto in un film – tu sei l’uomo crudele che l’ha abbandonata, l’ingrato. Ci sono tracce di sangue, piccole cicatrici sui polsi della ragazza, si è già tagliata in passato, sa come fare per non farsi male, non per davvero.

(Fate l’amore per rifarvi dei litigi, non riuscite a dormire, quindi lo rifate  «non bene, ma fino all’esaurimento». I vicini di casa non vi parlano più, le pareti sono sottili, i bagni in comune, una volta hai trovato due ragazzi che scopavano là dentro, Sylvia ne è rimasta inorridita.)

Sono i tempi di «Charles Mingus che sera dopo sera suonava una musica spigolosa e complessa dinanzi a una sala stipata. In alcune forme salienti della vita e dell’arte, la gente eccedeva se stessa – il sé; il nostro brillante presidente, John F. Kennedy, si scopava le attrici. Era un continuo, accecante bagliore». I film diventano opere cinematografiche. Antonioni, su tutti. Quando finisce il film, nella sala accendono le luci. Perché non possono lasciarci in pace? Ti chiede Sylvia. Sulla via del ritorno era davvero una sofferenza dover arrancare di nuovo nelle strade ventose.

«Portavamo con noi visioni di disperazione e tedio, ma anche l’eccitante intuizione di quel momento, di un mondo moderno in cui il vuoto poteva essere sublime, addirittura uno stile di vita, non solo per Monica Vitti e Alain Delon, ma anche per noi. Perché no? Solo i sentimenti contavano, e quelli erano a nostra disposizione».

Organizzate feste con amici scrittori e intellettuali e artisti, fumate, parlate fino a tardi, nella vostra stanza, piena di speranze o forse solo di quel vuoto che credete pieno di intensità. Dite cose intelligenti e sensuali, parlate di lavori da cambiare e letteratura. Annoti che: «Nessuno di loro pubblicò niente. Alla fine, uno dopo l’altro, giacquero dinanzi ai colleghi anziani che, come antichi sacerdoti maya, strapparono i loro cuori. A onor del vero, bisogna dire che prima cercarono di autodistruggersi con le droghe».

Una sera state andando a un cinema di 42nd Street aperto tutta la notte. Scesi dalla metro, le dici Camminiamo.«Avevamo percorso solo qualche isolato quando iniziò a piovigginare. Il marciapiede divenne scivoloso. Lei inciampò, sporcandosi il vestito bianco e strappando la cinghia di un sandalo. […] Fermai un taxi. Mentre ci dirigevamo verso Broadway nel taxi che faceva un rumore di ferraglia, con l’ampia strada bagnata e lucida su entrambi i lati, vidi che con il vestito bianco insudiciato e i capelli neri luccicanti di pioggia era molto carina. La guardai, imprimendo nella memoria la forma del collo e della bocca e delle ossa del suo volto, e pensai: È mia moglie. La sto lasciando».

Non finisce neanche così, ma come scrivi tu, «è più facile ricordare i brutti momenti».

«Erano più clamorosi; e rispetto a ciò che amavo, ora fa meno male ricordarli. C’erano attimi in cui ci capitava di guardarci, mentre eravamo seduti a qualche metro di distanza in una metropolitana affollata, o a una festa, o nel flusso di una conversazione drogata con altre quattro persone nel nostro soggiorno, quando l’alba grigia iniziava a illuminare le finestre, e ci sorridevamo con gli occhi, come se fossimo imbarazzati dalla nostra stessa fortuna di stare insieme».

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).