Slave

da | Mag 16, 2013 | Senza categoria

Mia moglie è una padrona, io sono il suo cane. O meglio il suo slave, che in gergo BDSM significa appunto schiavo. Anche BDSM significa qualcosa, ma non me lo ricordo mai. Ho scoperto il significato di slave perché c’era un annuncio su un palo vicino al bar dove faccio colazione: PADRONA CERCA SLAVE. Io ingenuamente credevo fosse una ricca ereditiera in cerca di colf, mentre un mio collega, il capo del personale della banca di cui sono proprietario, un giorno mi ha aperto gli occhi e mi ha spiegato cos’è uno slave. Così ho capito di essere uno slave anche io.
Con il tempo io e il capo del personale siamo entrati in una certa confidenza, e ho scoperto che era uno schiavo anche lui. Mi ha spiegato che gli schiavi si riconoscono fra loro, come i gay fra loro, ma io non gli ho mai ammesso subito di essere schiavo, come non gli avrei ammesso subito di essere gay se fossi stato gay. Mica sono una rockstar, sono un banchiere. E poi di questi tempi bisogna stare attenti, si vede da come hanno incastrato gente importante come il povero Strauss-Kahn, il povero Berlusconi, il povero Clinton, il povero Michael Jackson.
Non ero mai stato con una padrona, ma ho sempre avuto questa fantasia, fin dall’infanzia. Ci sono nato. Sono quelle cose che hai dentro, e non sai perché, e di cui ti vergogni, e non ne parli mai con nessuno. Figuriamoci io, era il mio segreto più segreto, non l’avrei rivelato mai a nessuno.
Invece il capo del personale mi spiegò che è pieno di schiavi, cioè di slave, con una posizione di comando. Perfino poliziotti. Perfino culturisti. Si dice che perfino Hitler fosse uno schiavo, nell’intimità. Dico, Hitler! Allora mi sono vergognato meno. E ho pure capito perché Mike Tyson aveva quella vocina.
Nacque una bella amicizia, con il capo del personale. Spettegolando ho scoperto che pure due cassieri sono slave. E il funzionario di sala è uno slave. E la guardia dell’ingresso, quel gigante palestrato, perfino lui è uno slave. Ci sono slave ovunque, mi sono sentito meno solo.
Io non ho mai avuto una moglie, e ho sempre vissuto con mia mamma. Il capo del personale, al contrario, ha una moglie, e una volta gli chiesi se sua moglie era una padrona e lui disse magari. Un classico dello slave represso, mi spiegò il capo del personale, è scegliersi una moglie stronza, io avendo già una mamma stronza non ne avevo bisogno.
Ma dovevo provare una padrona vera, diceva il capo del personale. La vita è una, diceva sempre lui, il capo del personale. Per cui un giorno ho chiamato quel numero dell’annuncio del palo. Avrei potuto farmi dare un contatto collaudato dal capo del personale, ma volevo muovermi per conto mio, e inoltre avevo ancora un residuo di pudore, e poi non avevo voglia di prendere una padrona usata da lui. Certo, pure la mia sarebbe stata usata da altri, ma almeno non li conoscevo, né loro conoscevano me. È come con le donne, speri sempre di non conoscere chi l’ha usata prima di te. Io comunque, ripeto, non ho mai avuto donne, solo la mia mamma.
Nella prima e unica sessione la mia padrona mi mandò subito al pronto soccorso, con un trauma cranico. Mamma mia, chi se l’aspettava? Nelle mie fantasie immaginavo un rapporto più simulato, più graduale, se vogliamo più finto ma meno rischioso. In genere, da quanto ne sapevo, il sesso BDSM era una recita in costume tra parti concordate. Questo BDSM non è una vera dominazione: se chi domina è pagato per farlo, ti sta facendo un servizio, e così, seppi in seguito, pensava anche la mia padrona. Una padrona vera, non finta.
Non ho avuto il coraggio di raccontarlo al capo del personale, mi avrebbe preso per uno sprovveduto. Probabilmente non si telefona a un annuncio su un palo, è da fessi, ci sono giri più sicuri. Come i suoi. Il capo del personale andava dalle sue padrone referenziate, si faceva legare a dei tavoli, o a delle croci, o tenere al guinzaglio, si faceva frustare, faceva il cane e abbaiava, o il valletto leccapiedi e leccava i piedi, o l’islamico a Abu Graib, e se la cavava con qualche livido. Vedeva la sua padrona una volta al mese, e per il resto continuava la sua vita di sempre.
Io invece entrai in casa della mia padrona del numero del palo, in un sottoscala di un condominio in periferia, la pagai in anticipo, secondo le istruzioni, senza neppure guardarla bene in faccia, ero molto nervoso. Lei fu gentile. Cioè a ripensarci non fu esattamente gentile. A me però sembrò gentile proprio perché di poche parole, professionale. In fondo non vai da una padrona per farti fare le coccole.
Mi portò in una stanza, mi disse di spogliarmi, io mi spogliai senza obiettare, credevo tornasse per portarmi uno di quei vestiti ridicoli di BDSM tutti di pelle strizzata. In effetti uno schiavo in giacca e cravatta non si è mai visto. Invece quando rientrò mi colpì in testa con una mazza da baseball.
Mi risvegliai in ambulanza. Ci ho messo qualche minuto per ricordare cosa fosse successo. Ai medici ho dovuto inventare di essere stato aggredito per strada da un gruppo di brutti negri. Non so perché dissi così, brutti negri, non sono razzista, ma ormai l’avevo detto e continuai a dire brutti negri. Mia mamma accorse preoccupata, e io le raccontai la stessa balla dei negri. Tra l’altro l’aver detto brutti negri mi ha salvato dal dover essere troppo preciso con gli identikit per la denuncia, perché insomma i negri, belli o brutti, sono tutti uguali.
Due settimane dopo sono tornato dalla padrona per denunciarla, avevo ancora la testa fasciata. Tuttavia non  avevo realmente intenzione di denunciarla perché appunto se l’avessi denunciata ci sarebbe stato un processo, e mia mamma e tutti della banca e tutti fuori dalla banca avrebbero scoperto che ero uno slave, e uno slave veramente stupido. Già alla gente che non sa cosa è uno slave sembra una cosa da idioti, figuriamoci uno slave abbattuto così, a freddo.
Volevo solo spaventarla. Lei mi chiese cosa volevo, in un tono brusco, minaccioso. Mi mise una strizza pazzesca. Così anziché denunciarla le chiesi se voleva sposarmi. Non so perché lo dissi, mi venne spontaneo. Lei mi disse che cazzo vuoi, figlio di puttana. Fissandomi negli occhi, con quei suoi occhi cattivi da padrona. Io ripetei voglio sposarti. Non lo so nemmeno io se pensavo di scherzare o meno.
Qualsiasi cosa mi avesse chiesto, io l’avrei fatta. Forse non sarei mai dovuto tornare lì, o forse era inevitabile. Forse era il mio destino, il destino della mia natura di slave. Mi batteva il cuore, come quando ti innamori. Mi sembrava di avere sedici anni e non cinquantadue. Era come se quella mazzata che mi aveva dato mi avesse ridato la vita.
Mi chiese cosa facessi di lavoro, io risposi che avevo una banca. No, non lavoravo in banca, la banca era proprio mia. Lei sgranò gli occhi minacciosi e disse: sul serio? E poi disse che già i maschi facevano tutti schifo ma i banchieri di più, erano degli affamatori del popolo. La crisi era colpa delle banche ladre. Io risposi che la banca era del mio povero papà morto, io non c’entravo, mi ci ero trovato e in realtà faceva tutto mio zio perché io non ci capivo niente. E poi disse che ok, mi avrebbe sposato. Ero uno schifoso maschio banchiere capitalista, ma mi avrebbe sposato. Siete degli strozzini, disse lei. Ma si era stufata di fare quella vita.
Quindi la mia padrona non mi ama, sta con me per interesse. D’altra parte ho pensato che tutti i rapporti in fondo sono per interesse. Soprattutto la maggior parte delle donne sta con qualcuno per interesse. Le donne sono dei parassiti. Non sono maschilista ma penso le donne siano dei parassiti. La moglie del capo del personale non sta forse con lui per interesse? E mia mamma, non sta a casa mia per egoismo, per mantenere il suo possesso su di me? Fra l’altro, pensai, l’avrei avuta gratis per tutta la vita, alla fine ci avrei guadagnato, con quello che costano oggi le padrone.
Non ci siamo più rivisti fino al giorno del matrimonio, questi erano i patti. Abbiamo fatto le pubblicazioni in segreto, il matrimonio in Comune in segreto, e solo allora si è trasferita da me.
Vorrei precisare che la mia padrona non porta mai scarpe con il tacco alto, a spillo, da padrona, o indumenti sexy, con le borchie, o quei vestiti strizzati di lattice fetish. Perché piacciono agli uomini, e se una donna si veste per piacere a un uomo non è una padrona, è una schiava travestita, così dice la mia padrona. Lei porta le scarpe da ginnastica, jeans, felpe, si veste veramente male. Perché così non posso piacerle, non c’è eccitazione. Se ti colpisce lo fa mentre meno te lo aspetti, magari stai dormendo e ti entra in camera e ti spacca un vaso in testa, perché se te lo aspetti potrebbe piacerti. All’inizio ti sembra strano, ma poi ti rendi conto che ha ragione lei e diventa tutto più emozionante, cerchi sempre di aspettarti quando lei ti colpirà senza che tu te lo aspetti.
Appena diventata mia moglie, la mia padrona mi ha fatto licenziare tutti i miei inservienti, le due cameriere, il filippino, il giardiniere, l’addetto alla piscina, tutti. Non serviva più nessuno, avrei pensato io a tutto. Mia mamma era andata a trovare mia nonna in Sicilia, chissà cosa sarebbe successo quando tornava. Chiamava ma non rispondevo al telefono, la mia padrona me lo vietava.
Non sarei mai più uscito di casa, e avrei venduto la banca. Si è fatta intestare tutti i miei conti in banca, perché io non ne avrei più avuto bisogno, così ha detto. Mi sembrava giusto, d’altronde era la mia padrona.
Non ci mise molto a prendere possesso della mia camera e della casa e dei telefoni e a mettere le sue nuove regole. Delle regole da padrona in piena regola. Anzitutto mia mamma sarebbe dovuta andare via di casa. Cosa? Dissi io. Hai capito bene, disse lei.
Quando mia mamma tornò successe il finimondo. Entrò in camera sua e vide le valige per terra e disse cos’è questa storia chiamo la polizia. Io le presentai la mia padrona, e cercai di spiegarle la nuova situazione, e mia mamma cominciò a urlare e andare avanti e indietro urlando e diceva che stava avendo un infarto e minacciava di farmi diseredare e di far arrestare la mia padrona e di sentirsi sempre peggio, forse stava avendo anche un ictus, mentre la mia padrona fumava una sigaretta indifferente.
A un certo punto mia mamma disse che quella puttana sarebbe dovuta passare sul suo cadavere. Allora la mia padrona disse ok, spense la sigaretta sul tappeto persiano e le dette un pugno e mia mamma cadde camminando all’indietro e volò giù dalle scale mentre la dentiera le volò in avanti finendo sul tappeto. Io corsi subito di sotto per soccorrere la mia povera mamma, era morta sul colpo. La mia padrona scese le scale e passò sul suo cadavere.
Ero sconcertato, ma molto confuso, perché mia mamma d’altra parte aveva chiamato la mia padrona puttana. Non che se lo meritasse, ma credo non dovesse chiamare la mia padrona puttana.
In ogni caso la morte di mia mamma è stato un tragico incidente. È inciampata e volata giù, così abbiamo dichiarato alla polizia io e la mia padrona. Era vecchia, non ci vedeva bene, e molti vecchi muoiono così, cadendo giù da qualche parte. È un classico, e nessuno fa troppe indagini, sono vecchi.
Qualche giorno dopo ho firmato un testamento, di fronte a un notaio amico della mia padrona, dove ho dichiarato nel pieno delle mie facoltà mentali che la mia padrona avrebbe ereditato tutto, perfino quanto io avevo ereditato da mia mamma. La mattina dopo mi ha comunicato che  avrei dormito fuori, nella cuccia di Tobia, il mio cane, che nella notte era morto. O meglio, la mia padrona gli aveva messo nella ciotola delle polpette avvelenate.
Ho pianto, molto più che per mia mamma, Tobia era il mio compagno fedele da sette anni. Era un beagle. Ho preso la pala e l’ho seppellito in giardino, come mi ha ordinato di fare la mia padrona. Intanto la mia padrona sarebbe partita con le sue amiche per le Maldive. Perché con me si annoiava. Non succedeva niente di interessante. Dal suo punto di vista aveva ragione.
È veramente una stronza, la mia padrona, ma ci tengo a dire che è onesta. Non ha mai detto di essere qualcosa di diverso da quello che è, non ha mai finto. Il nostro è un rapporto pulito. Vedo molta gente in giro infelice, credono di essere normali ma sono molto più schiavi di noi slave. Le mogli vivono per i figli, i mariti stanno tutto il giorno chiusi in un ufficio, poi tre ore al giorno nel traffico, viaggiano una volta all’anno in villaggi turistici come l’ora d’aria dei carcerati, e si credono liberi. Non hanno mai provato a essere felici. Per essere felici ci vuole coraggio.
Così la mia padrona è partita per le Maldive, starà via una settimana, e mi ha lasciato solo in casa, a fare la guardia. Non proprio in casa, in giardino. Quando sento un rumore sospetto devo correre nella direzione del rumore fin dove arriva la catena e abbaiare. Abbaio piano, bau, bau, bau, perché ho paura mi sentano i vicini, sebbene siano abbastanza lontani dalla villa. Posso spingermi fino al bordo della piscina, dove posso bere. Mi ha perfino regalato una maschera da cane con l’elastico, e vedo tutto strano attraverso i due buchini.
Ho resistito due giorni senza mangiare. Nella mia ciotola la mia padrona ha lasciato delle polpette uguali a quelle che mangiava il povero Tobia. Nella cuccia un blocco e una penna, nel caso volessi scrivere qualcosa. Quando l’ho salutata abbaiando, sotto la maschera, mi ha dato un calcio per togliermi dai piedi, ha detto di fare la guardia, e di mangiare le polpette, con un sorrisino perfido, e credo di aver capito. Io, a differenza di Tobia, sospetto che le polpette siano avvelenate, anzi ne sono certo, ma se non le mangiassi non sarei più il suo cane. Per essere felici ci vuole coraggio. E io sono un cane, il cane della mia padrona.

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).