Scrivere del corpo (e farsi prendere sul serio)

da | Apr 29, 2014 | Senza categoria

 

Di Violetta Bellocchio è da poco uscito un memoir, “Il corpo non dimentica”, che alterna ricordi e riflessioni sul periodo di dipendenza da alcol dell’autrice, puntellati da abbondanti apostrofi al lettore: fra “non è una bugia. Questo è persino vero” alle prime pagine, e “tutte queste cose sono vere” alle ultime pagine, si incontrano frequentemente espressioni come “credetemi, perché è vero” e “Avanti, dimostratemi che sbaglio”.

Perché questa insistenza sull’autenticità, sulla verità e sulle prove da esibire, mi sono chiesta? Di seguito le risposte che mi sono data, per ultima quella in cui provo a mettere in relazione queste apostrofi con un altro aspetto interessante del libro, ovvero le numerose descrizioni che la voce narrante fa del proprio corpo.

Certo, prima di tutto mi son detta che “è tutto vero” è una cosa che i memoir devono saper gridare, e che è da questo che il genere trae molta della sua forza. “Il corpo non dimentica”, per capirci, sarebbe andato in ristampa dopo sei giorni se non ci fosse stato detto che si trattava proprio di una storia vera, che quelle cose erano capitate veramente ed erano capitate all’autrice? Non so. Ma ci sono ragioni per credere che la questione della verità sia per Bellocchio essenziale anche per altri motivi.

“Abbiamo le prove” – se sono le donne a raccontare

Penso prima di tutto alla rivista online che la scrittrice ha fondato lo scorso Settembre, che porta proprio il nome di “Abbiamo le prove”, e che pubblica ogni giorno un pezzo di nonfiction scritto da una donna. Il bisogno di trovare più storie in giro scritte da donne, dichiara Violetta, le è nato dalla constatazione di aver impiegato lei stessa dei giorni prima di prendere anche solo in considerazione la versione dei fatti data dalle due donne che nel 2010 avevano denunciato Julian Assange per reati sessuali. “E ti ricordi l’avvocato che diceva «è tutto un brutto equivoco, la Svezia ha una legge sul sesso a sorpresa» ? .. Come ti sei sentita, dopo, a sapere che t’eri bevuta una cazzata invece di accettare che due (2) donne dicessero la verità?”, chiede Bellocchio nell’editoriale della rivista.

“Santa Barbara” – dare letture di genere in Italia

Dal 2011 al 2013, poi, la scrittrice ha tenuto la rubrica “Santa Barbara” su Rivista Studio, che analizzava i rapporti fra “il gender, la cultura di massa e l’identità personale”. Nei pezzi si parla, fra le cose, di come la nostra società tenda a sostenere i colpevoli di stupro più delle vittime, di come i mezzi d’informazione abbiano bisogno di ritrarre secondo certi schemi una star dipendente dall’alcol, di come siano poche le storie che raccontano di aborti, di cosa succede se una donna bianca mette una parrucca afro. I pezzi sono intelligenti e informati e spiccano per l’altissimo rapporto fra link e parole; in uno degli articoli ci viene detto addirittura che la redazione stessa le avrebbe chiesto di contenere la sovrabbondanza di esempi. In questo caso l’ansia dimostrativa si può forse spiegare con la consapevolezza di presentare ad un certo pubblico di lettori italiani, forse per la prima volta, la prospettiva degli studi di genere applicati alla critica della cultura pop al tempo di youtube: una cosa che sembra poco seria, che adotta procedimenti dimostrativi non familiari, di natura -boh? Sociologica, letteraria, psicologica?, per sostenere i quali si avvertirebbe quindi la necessità di sfoderare un argomentare inattaccabile. Le prove, appunto.

“Una troia marcia” – parlare da donna di un passato di alcolismo

Allora, tornando al libro, con i suoi racconti delle bottiglie nascoste vicino al letto, delle feste in cui ci si sente a disagio, del vomito e delle riunioni degli alcolisti anonimi, mi è sembrato che quest’insistenza sulla verità potesse essere un fatto di rivendicazione disperata di autorevolezza. Come a dire: credetemi, anche se scrivo da una posizione infima, quella della dipendenza meno riconosciuta in un paese che, ci dice Bellocchio, “tende a non riconoscere quelle come me”, dove “un uomo può disintossicarsi con successo ed essere riaccolto con la società”, mentre “una donna che si disintossica sarà sempre una troia marcia”. E mi è venuto anche in mente che, soprattutto nella tradizione americana, la scrittura di memoir ha avuto molto a che fare con la presa di parola delle minoranze rese invisibili, e che il libro di Bellocchio ha a sua volta tantissimo a che fare con queste scritture- fra l’altro, è uno dei pochi libri (l’unico?) di una scrittrice italiana bianca che riconosce come colore non solo il nero, ma anche il bianco: “un ginecologo bianco”, “bianca, femmina, italiana” leggiamo, e dopo un po’ smettiamo di  pensare “e certo”.

“Il corpo non dimentica” – l’esperienza attraverso il corpo può essere rilevante?

Infine, forse, mi sono detta, si chiede di essere credute e prese sul serio nonostante si stia parlando del corpo. Non siamo ancora uscite del tutto dai secoli in cui, noi donne, si esisteva solo nel partorire, allattare e curare i bambini, nell’essere vicine ai corpi dei malati, nell’essere quindi tutte corpo, tatto e odori, secoli in cui la letteratura era quella cosa astratta e grandiosa che facevano gli uomini che trascendevano il corpo- secoli in cui, quindi, il canone non poteva che respingere la nostra esperienza. A parlare di corpo, oggi, di esperienza privilegiata attraverso il corpo (è il corpo, appunto, a “non dimenticare”) non si rischia di legarsi di nuovo, stringendo i lacci con le nostri mani, a questo corpo ingombrante, che pensiamo di saper gestire, ma che ormai è diventato un simbolo troppo potente per essere mai prese sul serio se mai lo rievochiamo?

E se non solo si parla di corpo, ma si parla estesamente di uteri e mestruazioni? Ne “Il corpo non dimentica” ho trovato le descrizioni più estese e dettagliate di mestruazioni e secrezioni vaginali in genere che io abbia mai letto in un libro. Ve ne riporto alcune:

“Una mano che mi pianta gli artigli nell’utero, e poi li allarga. E mi strizza. Una contrazione, cinque dita. … Sto perdendo il mio peso in sangue. Ho i brividi, le gambe tutte appiccicose. Prendo l’antidolorifico che prendo sempre -una bustina di Aulin- e aspetto che le contrazioni passino. Oddio: non è che passano, ma la chimica smussa le punte del dolore, e poi ti distende tutto dentro, come un palmo sopra il lenzuolo mentre rifai il letto”,“Sto perdendo sangue nero, e denso. Mobile. Un serpente”, “E la pillola di due anni fa non l’ho sentita, ma questa la sento. Per tutta la sera, per tutta la notte, è una disinfestazione. Sto rigettando qualcosa. Odora di ammoniaca. Brucia mentre sgocciola fuori. No, non sgocciola- è qualcosa che striscia fuori, una lunga coda”, “Perché da lì dentro sta uscendo qualsiasi cosa. Sudore, acqua, pesci, tigri, vite precedenti. E se non mi cambio mi sembra di andare in giro con dei filamenti di pollo tra gli incisivi”.

E poi lo vediamo impiegato come correlativo oggettivo del periodo della dipendenza -“Il mio ciclo non è un ciclo. Si blocca, riparte. Trentotto giorni. Quaranta giorni. Quarantadue. Come se volesse tagliare un traguardo. Intanto io piango, mi gonfio, voglio morire, sciagura imminente. Tutto quanto”- e del periodo della disintossicazione- “Via via, quando smetto di bere, diventa il contrario, uno specchio. Ventotto giorni. Ventisette a volte. Ventinove, durante le ondate di caldo. Ventisei quando ho voglia che piova.”

 

Quindi: ancora a pensare che scrivere di vagine sia un atto sovversivo? No, certo, qui non si rivendica questo, come non c’è voglia di scandalizzare. Qui c’è qualcosa di diverso: l’esplorazione della possibilità di inserire certi temi in una storia, senza che la storia perda di rilevanza, di rappresentatività. Così vediamo che si può parlare di ciclo per parlare (anche) di alcolismo e si può parlare di vagine per parlare (anche) di: eredità, dolore, vergogna, sollievo. Un tema potenzialmente come gli altri: né solamente femminile né sovversivo né gratuitamente esibizionista.

C’è per esempio il racconto della diagnosi di “stenosi”, cioè strato di pelle in eccesso, che le fanno alla vagina, di cui si dice: “non è colpa di nessuno, forse è ereditaria, forse no”; “di tutta la fase preliminare, prima della barella e dei punti, quello che mi resta è una misura di sollievo. Un certo lo sapevo. Sarà terribile, ovvio, essere aperta e poi squarciata, ma metterà un segno fermo sull’orrore senza nome che mi ha seguito fin qui – la ragione per cui i rapporti completi sono sempre stati dolorosi fino a qui”; “credevo di essere frigida, invece ero solo deforme. Che sollievo”, “niente rimette in prospettiva dolore e vergogna come una mutazione. Una traccia. Una prova”.

 

Si chiede di essere prese sul serio, quindi, ma comunque si abbandona uno stile più immediatamente riconoscibile come “letterario”, e lo si abbandona quasi, verrebbe da dire, deliberatamente, dopo aver mostrato di saperlo padroneggiare, come nelle descrizioni delle case eleganti di Milano con “le rose bianche su quelle terrazze”, “la calma e la storia nascoste in una parete rotonda, bianca” e “la ricchezza che è un tipo di benessere, ha abbronzato le loro ossa e pulito il loro sangue”, dove “loro” sono quelli che di queste case possiedono “anche il tetto”.

Ed è proprio dalla tensione fra il bisogno di essere creduta da una parte e il rifiuto di adottare uno stile autorevole dall’altra, che si genera il meccanismo forse più interessante della scrittura di Bellocchio: la torsione fra il paragrafo appena finito e quello successivo che spesso sembra recitato da un altro personaggio, “a parte”. Il risultato è un movimento quasi innaturale per la scrittura, che ci restituisce una voce sistematicamente e lucidamente fuori luogo. E l’effetto che fa, per esempio nell’immaginare un uomo, è questo:

“Non mi avrebbero dato la pace, certe cose, e non stavo cercando l’amore o sperando di trovarlo per felice incidente – la storia di mezza notte non si traduce in bambini timorati di Dio-, ma ho sempre sperato che uno di questi uomini avesse un portico, una veranda che desse su una strada con gli alberi in fila, e che avrei potuto respirare l’aria del mattino seduta lì fuori, e avrei guardato la vernice scrostata, i punti in cui si sollevava dal legno.

Poi, non so. Probabilmente lui mi portava il caffè in una tazza col manico.”

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).