Reportage inattendibile dai luoghi bellowiani (settima e ultima parte)

da | Mag 8, 2013 | Senza categoria

Nel corso del libro, per meglio illustrare tale conflitto intestino all’Occidente, Bellow sceglie come oggetto polemico principale l’intellettuale francese per eccellenza: il maître-à-penser più illustre e più capzioso, erede diretto di Voltaire, Hugo, Valéry e di tanti altri che hanno saputo interpretare la coscienza politica del popolo francese e che hanno simboleggiato per secoli un indiscusso primato culturale: Jean-Paul Sartre.
Attraverso le contraddizioni irrisolte da Sartre sulla questione israeliana – il suo filo-semitismo difficilmente coniugabile alle sue simpatie per il panarabismo di stampo socialista – Bellow mostra la confusionaria astrattezza delle concezioni sartriane. Denunciando la sua ignoranza sull’argomento punta il dito sull’incapacità sartriana di liberarsi dal cilicio della propria ideologia sovversiva e dei propri stereotipi marxisti. Israele, per Bellow, è la vetta alpina su cui gli intellettuali francesi franano inesorabilmente, e Sartre è il capo cordata di questa fallimentare spedizione.

Sartre non manca di farsi beffe di quanti ritengono che sono stati gli arabi a iniziare la guerra del 1967. E qui, il sospetto instillatomi dalla superficiale analisi economica e da quanto Sarte ci dice sul sostegno che Israele riceve dagli ebrei imperialisti degli Stati Uniti, si fa strada e non posso far a meno di chiedermi: “Ma lo sa, questo influente pensatore ed eminente rivoluzionario, di che cosa sta parlando?”.

Ma soprattutto Bellow, attraverso la sua polemica anti-sartriana, prende di mira tutti coloro che hanno alte aspettative morali da parte degli ebrei. Questo lo fa davvero infuriare: “Ma Sartre e altri vogliono, a quanto pare, che gli ebrei siano eccezionalmente eccezionali. Forse gli stessi ebrei hanno dato adito a tali aspettative. Israele ha compiuto sforzi straordinari per essere democratico, equo, ragionevole e capace di cambiare. Ha, infatti, trasformato i suoi ebrei. Nell’Europa di Hitler questi vennero condotti in branco al macello; nel 1948 i superstiti divennero formidabili combattenti. Privi di terra in esilio, si fecero agricoltori. I mammalucchi avevano decretato che le pianure costiere della Palestina restassero un deserto. Gli ebrei ne hanno fatto un giardino”.
Bellow non sopporta che tutti – davvero tutti – sappiano fare la lezione agli ebrei, che nessuno, invece, si permetta (per una forma quasi scaramantica di rispetto) di assumere analoghi atteggiamenti didascalici nei confronti degli arabi. E l’ultima stoccata contro Sartre e la sua cricca non è meno velenosa delle altre, e coinvolge il suo contegno indulgente nei confronti delle nazioni arabe.

Mi domando tante volte perché non debba essere possibile agli intellettuali dell’Occidente […] tenere agli arabi questo discorso: “Dobbiamo pretendere di più anche da voi. Anche voi – e i marxisti fra voi, soprattutto – dovrete far qualcosa per la fratellanza, e per la pace con gli ebrei, poiché essi hanno sofferto pene mostruose, nell’Europa cristiana e nell’Islam. Issale occupa appena lo 0,6 per cento delle terre che voi dite arabe. Non è possibile correggere le tradizioni islamiche, reinterpretarle, apportarvi quelle modifiche che rendano possibile l’accettazione di un tale piccolo possedimento. Una grande civiltà dovrebbe essere aperta a soluzioni umanitarie e generose. La distruzione di Israele non vi arrecherebbe alcun bene. Lasciate gli ebrei vivere, nel loro piccolissimo paese”.

È impressionante pensare che queste parole venivano scritte trent’anni fa. E che esse oggi non sfigurerebbero sulle pagine di qualsiasi giornale. È angoscioso dover rilevare come la situazione da allora sia peggiorata. Viene naturale lasciarsi traversare dall’idea joyciana della Storia come incubo dal quale è impossibile svegliarsi. C’è da credere che questo incubo non finirà mai.
Ma l’oggetto polemico di Bellow non è soltanto la Francia e il tendenzioso giacobinismo di molti suoi letterati. La sua polemica coinvolge quella figura d’intellettuale europeo o americano, il cui amore sfrenato per l’Oriente e per l’Islam si è trasformato nel tempo in una forma d’iniqua indulgenza nei confronti, non tanto dell’islamismo in generale, quanto verso alcune sue forme radicali e disumane. Insomma per essere chiari Bellow ce l’ha a morte con quello che oggi, con espressione generica, viene chiamato il “relativismo morale”. Ma siccome Bellow non è un ideologo ma essenzialmente un grande narratore, gli viene facile usare un personaggio per descriverci questo singolare atteggiamento ideologico. Così mette in scena un personaggio drammaticamente fosco che sembra scaturito da una pagina di Dostoevskij: Marshal Hodgoson, autore d’un’opera accademica in tre volumi intitolata The Venture of Islam. Ecco come Bellow lo ritrae: “Marshall era un quacchero, pacifista e vegetariano: molto strambo, molto infelice, non privo di fascino. Contraddittoria era la sua visione del mondo: come può un pacifista innamorarsi del bellicoso Islam?”.
Al di là di questo ultimo interrogativo “come può un pacifista innamorarsi del bellicoso Islam?”, ancora una volta di sconvolgente attualità, è interessante notare l’accostamento degli aggettivi apparentemente in contrasto ma che illustrano in realtà una sotterranea corrispondenza semantica: “quacchero, pacifista, vegetariano, strambo, infelice, non privo di fascino”. Non bastano già tali attributi per fare di Marshal un personaggio?
Marshall Hodgoson è amico dell’Islam e nemico del sionismo, ci spiega Bellow. Ma non è questa la cosa più interessante del suo carattere, né la più drammatica della sua vita. Perché quello che c’è da sapere su Marshall è assai più terribile: lui ha due figlie piccole affette da una malattia al sistema nervoso così invasiva da non consentire loro neppure di sollevare la testa sul collo. “Spesso incontravo Marshall, al quinto piano dell’Istituto di Scienze Sociali […] e parlavamo. Il doloroso argomento non veniva mai evitato. Io gli chiedevo come stavano le bambine. Non riuscivano a dormire, mi diceva. Lui e sua moglie stavano su la notte, a far loro compagnia, dandosi il cambio. Quindi la sua faccia era spesso gonfia per mancanza di sonno, congestionata; aveva gli occhi perturbanti; era rauco, per aver letto favole alle figlie. Mi diceva, quasi sfiatato, che era cosa da spezzare il cuore, come le bimbe si rendessero conto di tante cose. Poi, con le lacrime agli occhi, tornava di corsa ai suoi studi”.
Certo Bellow non lo dice, ma per noi lettori è lecito immaginare una relazione morbosa tra il risentimento anti-occidentale di Marshall e il suo dramma personale. Così come ci sembra d’intercettare una corrispondenza tra il suo desiderio di immergersi nei propri studi, e quella forma di stordente esotismo con cui molti di noi provano a fuggire la realtà (non si è mai riflettuto abbastanza sul bovarismo dei cattedratici). Non a caso poche righe più oltre Bellow dice: “Sull’Islam [Marshall] aveva idee romantiche”. Il romanticismo quindi: un modo di rapportarsi al proprio oggetto di studio singolarmente poco accademico anche se perfettamente comprensibile. Forse è così che in noi scaturiscono le passioni politiche? I nostri odi ideologici? E i nostri amori? È così? È questo? È il risentimento? È la disperazione che, al solito, spiega ogni cosa?

Bellow anche in questo libro mostra il suo interesse spasmodico per gli uomini di potere. L’eminenza letteraria e il Nobel lo hanno messo in contatto da un certo momento della vita in poi, con i così detti “grandi della terra”: presidenti, ministri, consiglieri… E lui non si è tirato indietro, non resistendo alla tentazione di ritrarli dal vivo: medaglioni mordaci, dall’inappuntabile precisione psicologica, in cui la descrizione fisica, spesso appena schizzata, serve, nella migliore tradizione del realismo ottocentesco, a rendere la rappresentazione ancora più precisa e verosimile. La cosa che più lo incuriosisce è quell’atteggiamento tipico di un Potente di sottrarsi alla discussione franca e aperta (Kissinger, per esempio, ci viene ritratto sfuggente e ipocrita come i suoi occhi, pomposo e inutile come i suoi riccioloni). Parlare con un Potente è come parlare con nessuno. È trattare con un individuo che ha speso la vita ad affinare la propria arte della dissimulazione. Un Potente sa quello che vuoi da lui, ma mette tutto se stesso affinché tu non comprenda cosa lui vuole da te, un Potente ama essere potente, ma vorrebbe tanto darti l’idea che non glie ne importa.

Peres ha l’aura dell’uomo di potere. Altre volte ho avuto modo di notarla. Ce l’avevano anche i Kennedy, John e Bobby. Era come se mangiassero solo interiora: fegato, reni, altre ghiandole potenti. I capelli gli rilucevano, avevano un bel colorito, i denti robustissimi. Presumo che questo sia l’effetto del potere, non di una dieta a base di frattaglie e uova di pesce, poiché Leopold Bloom, che ne andava ghiotto, non abbagliava mica le strade di Dublino con la sua vitalità.
Ecco qual è la nevrosi dei Potenti: la salute eccessiva e l’esorbitante benessere. La salute eccessiva e l’esorbitante benessere dei Potenti è ciò che li rende diversi da noialtri, e così indistinguibili tra loro. Con alcune illustri eccezioni.

Rabin ha un’aria semplice, modesta. Il Rabin che Alexandra [l’allora moglie di Bellow] e io abbiamo incontrato a pranzo assomiglia a una persona privata in una difficile posizione pubblica. Robusto e di media altezza, ha un collo possente, la sua fronte è resa più spaziosa dalla stempiatura, ha il colorito chiaro, rossiccio. Denota intelligenza, ardimento. È ovvio che si sforza di continuo ad aver senso: tale bisogno non semplifica la vita. Parla inglese correttamente, con molte gutturali israeliani. Sotto il suo aspetto dimesso si cela un notevole vigore.

È di quel Rabin che sta parlando. Del Primo Ministro progressista che sarebbe stato ucciso per mano d’un ebreo molti anni dopo. Non si può dire che Bellow nella sua descrizione prefiguri la fine tragica di Rabin (sarebbe ridicolo pensarlo). Tuttavia il suo ritratto è aderente all’immagine che noi conserviamo del Rabin vicino alla morte. Un uomo estremamente forte che lotta con se stesso per dissimulare quel vigore. Ci torna alla memoria l’immagine storica (oramai così beffarda) di lui che stringe la mano ad Arafat con il tipico disagio di chi sta per scoppiare in collera, con la ritrosia di chi sta facendo con autentico sforzo qualcosa di cui quasi si vergogna, per un bene superiore e non per se stesso. Non riesce a sorridere. Quasi non guarda il suo raggiante interlocutore. Sì, la sobrietà un po’ riservata del giovane Rabin che colpisce Bellow è la stessa che noi abbiamo imparato a conoscere nel vecchio Rabin, nel Rabin morente. La considerazione di Bellow sul modo gutturale di parlare l’inglese è preziosa. Perché è come se quell’inglese gutturale marcasse improvvisamente una differenza. Quei suoni di gola sono strettamente connessi all’energia di Rabin, alla sua potenza di uomo e di grande combattente (non bisogna dimenticare che lui è uno degli eroi della Guerra dei sei giorni). Rabin assurge quasi a simbolo della nuova tipologia di ebreo che Israele ha saputo formare. Questi individui fieri, riservati, senza fronzoli, un po’ presuntuosi forse e un po’ antipatici, con uno spiccato senso della disciplina, che sembrano non aver paura di niente, tanto meno di morire.
Mi viene in mente quello che scrive Amos Oz sulla sua stupenda autobiografia Una storia di amore e di tenebra (ritengo si tratti non solo del miglior libro di Oz, ma di uno delle opere più significative dell’ultimo decennio), a proposito dei nuovi personaggi che la fantasia di uno scrittore israeliano ha il dovere di immaginare:

Non ce ne facciamo più nulla insomma, della letteratura da piagnistei, ci siamo stufati delle descrizioni dei borghi ebraici, siamo sazi di quegli esemplari umani tutti accattoni e giovinotti, straccivendoli e fannulloni dalla lingua lunga, ora qui nella nostra terra abbiamo bisogno di una letteratura veramente nuova, una letteratura i cui protagonisti siano personaggi maschili e femminili attivi e non passivi, donne e uomini che non siano stereotipi di maniera ma persone in carne e ossa, dotate di istinti forti, di debolezze tragiche e anche di profonde contraddizioni interiori, figure da cui la nostra gioventù possa trarre entusiasmo, alla cui luce possa educarsi, attingere ispirazione dalle loro idee e dalle loro opere, eroi ed eroine figli del nostro tempo e anche figure epiche e tragiche della storia antica del nostro popolo, che invitino al rispetto e all’immedesimazione, e non suscitino ribrezzo e distaccata pietà. Di personaggi letterari israeliti ed europei abbiamo bisogno ora nella nostra terra, niente più sensali e giullari e fannulloni e ricchi e mendicanti esilico-folkloristici.

Bellow, nell’ormai lontano ’76, quando scrive il commentario, prefigura già la nascita di tale tipologia di personaggio, proprio attraverso i ritratti di alcuni eminenti politici israeliani: i Potenti d’Israele gli fanno uno strano effetto: forse proprio perché somigliano ai Potenti di ogni altro paese che lui abbia conosciuto. Le coordinate sono sempre le stesse: vigore fisico, occhi scintillanti, estrema circospezione. Se ci si pensa, gli ebrei, non potendo contare, fino al ’48, su una patria, non hanno mai conosciuto il tormento di dover creare una classe dirigente. Sicché Israele ha dovuto immettere, nel denso calderone della storia, una figura istituzionale del tutto inedita: il Potente ebreo, per l’appunto. Sì, Israele ha dovuto inventare la figura del Potente ebreo per ragioni istituzionali. Il Potente ebreo è una delle conquiste del popolo ebraico in Palestina. È un simbolo della normalizzazione d’un paese. E la normalizzazione è ciò che più sta a cuore a molti laici intellettuali israeliani, sin dai tempi della fondazione. Non a caso Bellow loda il punto di vista d’un allora giovane e promettente scrittore israeliano: A.B. Yehoshua. “L’esperienza” scrive Bellow “insegna che la sanità mentale non è stabile e duratura. Da qui l’aspirazione degli ebrei alla ‘normalità’. Yehoshua parla appunto degli ebrei ‘non più diversi’ in un Paese dove esser ebreo costituisca la norma. Se non ci fosse stato da combattere con gli arabi questo che era il principale obbiettivo del sionismo sarebbe stato raggiunto”.

Che altro dire di questo commentario? mentre l’aereo inizia la sua manovra di atterraggio, nell’istante prezioso in cui una virata mi offre uno di quei paradisiaci orizzonti che commuovono Bellow?
Forse che lo sguardo che Saul Bellow ha saputo gettare sui Potenti possiede la deliziosa e energica penetrazione dei ritratti dal vivo del sommo Saint-Simon. Sì, se uno dovesse giudicare la seconda parte della lunghissima carriera di Bellow, da Sammler fino a Revelstein, potrebbe ricostruire una sorta di Mémoires, in cui le gesta dei Grandi Uomini vengono rievocate con un realismo profanatorio e un’intelligenza scorticante.

Forse Jung aveva ragione a dire che la psiche di ognuno di noi affonda le radici in epoche remote. Io penso talvolta che il mio senso del comico è più vicino al 1776 che non al 1976.

Bellow lo sa, lo sente: lui è il moralista classico che le Lettere americane aspettavano da un paio di secoli.

Nota
In riferimento a un passaggio della prima parte di questo testo, pubblicato sul numero precedente della rivista, abbiamo ricevuto la seguente puntualizzazione da parte di Eve Rothemberg, operatore di Central Park: “Caro Mr. Piperno, non ci sono alberi di sequoia a Central Park, quindi la sua storia è frutto solo della sua immaginazione.E lei è uno scrittore inattendibile”.

 

La prima parte del Reportage è qui.
La seconda è qui.
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La sesta qui.

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).