Reportage inattendibile dai luoghi bellowiani (sesta parte – di molte parti)

da | Mag 2, 2013 | Senza categoria

Chicago 9 Marzo, ore 18,30

Solo con il terzo romanzo, Augie March, Bellow comprende pienamente che Chicago è la considerevole porzione di territorio letterario, il tangibile, avvincente luogo americano che toccherà a lui rivendicare con l’autorevolezza con cui la Sicilia era stata monopolizzata da Verga, Londra da Dickens, e il Mississippi da Mark Twain .

Così Philip Roth rivolge un commosso pensiero al suo maestro e alla sua Chicago.

Sono atterrato finalmente.
Ce l’ho fatta. E in fondo non è stata una grande impresa. Ho solo dovuto prendere un aereo, che, tra l’altro, non ero io a pilotare. Eppure mi sento eroico. Sono a Chicago. E il fatto davvero strano è che a questo punto mi sembra di avere poco da dire. Credo di aver detto troppo su luoghi che in fondo non avevano molto a che fare con Bellow, e ora i polpastrelli si atrofizzano nel momento in cui mi trovo nel guscio bellowiano per eccellenza, nel suo spazio urbano elettivo. Ma insomma è così che vanno le cose. E chi si occupa per mestiere di letteratura dovrebbe saperlo. Chicago è bella. Ma non è poi questo posto memorabile. New York è molto più elettrizzante per intendersi (e di Roma, la mia città, non vorrei neppure parlare). Questo è la riprova che Bellow è uno scrittore indimenticabile. Perché ogni scrittore indimenticabile ha bisogno del suo luogo-pretesto. Basta inoltrarsi incautamente nella campagna francese, fermarsi di fronte a quell’oscena catapecchia di Illiers con il suo giardinetto insulso e piccolo-borghese, per capire l’entità del genio proustiano. Ebbene l’impressione che mi fa Chicago, percorrendola a bordo di un taxi guidato da un pakistano con tanto di turbante in un pomeriggio gelido che solo Bellow saprebbe raccontare, è di un luogo-pretesto. D’un luogo che non vale la candela. Non è la prima volta, d’altronde, che m’imbarco in imprese che oltre a rivelarsi deludenti risultano dannose. Mi è accaduto una dozzina d’anni fa di fare un viaggio in Russia, e non tanto per contemplare le macerie dell’Impero Sovietico, quanto per andare alla ricerca dei luoghi tolstoiani: la dimora, la tenuta, la stazione dove il Conte morì. Che delusione! E allora via a Pietroburgo nella casa dove Raskolnikov commette l’omicidio. Che squallore insopportabile! Sì, tali pellegrinaggi sono avventure destinate al fallimento. L’inattendibilità di questo mio reportage nasce dal fatto che non ho voglia di rovinare immagini così care, immagini che serbo con tanta nostalgia: i quartieri dove Augie March ha vissuto e sofferto, quelli su cui Moses Herzog si è commosso pensando all’infanzia, quelli da cui il cupo Professor Corde è partito per un viaggio allucinante.
Non sarebbe più sano lasciare che la Chicago bellowiana rimanesse un Eldorado dell’Immaginazione piuttosto che violare per l’ennesima volta l’Inviolabile?
D’altronde persino le definizioni che Bellow dà di Chicago, pur essendo affascinanti, sono per lo più imprecise e contraddittorie come se anche lui volesse mantenere la sua città su uno sfondo onirico.
Sentite questa, tratta da Il dono di Humboldt:

Situata sulla sponda meridionale dei Grandi Laghi (il venti per cento delle acque dolci del mondo) Chicago contiene, nel suo seno gigantesco, tutto intero il problema della poesia e della vita interiore in America. Qui si possono scrutare, certe cose, come attraverso un’acqua trasparente.

Converrete con me che questa metafora acquatica, per quanto suggestiva, appare un po’ ambigua, se non proprio generica. Anzi, nella sua impenetrabilità, è quasi una non-definizione. Ci troviamo alle prese con un’immagine pre-socratica. Chicago come luogo liquido? Capace di accogliere nel proprio seno il “problema della poesia e della vita interiore in America”? Ha senso tutto questo? Forse tale metafora più che per Chicago funziona per lo stile di Bellow? Anzi, per la sua opera intera? È questa – la sua opera – ad apparire sterminata, profonda, caotica, impetuosa, e piena di riflussi come l’immenso lago Michigan che solo ora scorgo all’orizzonte.
Chicago l’ha inventata Bellow. O almeno la mia Chicago è completamente sua. Ecco forse perché di questa Chicago vera, incombente, rumorosa, fredda, trafficatissima non so che farmene: mi dà un curioso fastidio. Non delusione, ma fastidio. Ed ecco perché chiedo al tassista di riportarmi all’aeroporto. Voglio andarmene prima che sia troppo tardi. Un diniego alla Des Essentes? E sia! Ma in fondo è quello che sento. In qualsiasi luogo, ma non qui. Vorrei spiegare al tassista esterrefatto che io ho già la mia Chicago. Che Chicago esiste in me e non è quella nel ventre della quale lui sta fingendo di trascinarmi. Sì, vorrei tanto spiegarglielo, mentre è intento nella sua proibita conversione a U, mentre scuote la testa e bofonchia parole di rimprovero. Vorrei davvero spiegarglielo. Ma non credo gliene importerebbe.
Eppoi a che serve spiegare?

Sul volo di linea New York-Tel Aviv 12 marzo

Eppure esiste un luogo bellowiano ancora più elettivo di Chicago. Ed è esattamente quello in cui mi trovo in questo momento: una cabina d’un aereo di linea lanciato a centinaia di chilometri orari su questa sterminatezza di cobalto. Un’asettica cabina di un asettico jet sospeso a nove chilometri d’altezza sull’Oceano Atlantico. Oggi è frequente che filosofi, critici letterari, semiologi, architetti provino a definire cosa sia un “non-luogo”. Sì, la così detta atopia nell’ultimo ventennio ha covato un mucchio di proseliti tra i cattedratici del pianeta. Anche perché la postmodernità sembra averla eletta a spazio estetico privilegiato: sembra quasi che aeroporti, stazioni di metropolitana, fast food, supermarket, nella loro monumentale impersonalità, siano lì al solo scopo di ricordarci che i luoghi – così come noi li conoscevamo – sono morti per sempre. Diciamo che tra questi non-luoghi la cabina d’un jet merita una menzione speciale da parte della critica. Si tratta del non-luogo per eccellenza: iperuranica, lontana, alta, isolata, dall’esterno inaccessibile, in perpetuo movimento e sempre uguale a se stessa. Perfino i cibi serviti da indistinguibili hostess – cibi che uno finisce col divorare anche se sono pessimi – sono fondamentalmente uguali in ogni compagnia. (Una volta, per andare in Australia, viaggiai la notte di capodanno. Il capitano era seriamente imbarazzato: con tutti quei fusi orari che si accavallavano non sapeva quando farci festeggiare. Alla fine decise che avremmo stappato lo spumante alla mezzanotte di Singapore. Il Tempo in aereo non esiste).

I personaggi di Bellow come abbiamo già avuto modo di constatare in Herzog, viaggiano spesso in aereo. Anzi, direi che difficilmente utilizzano altri mezzi di locomozione. Sono sempre sballottati da una parte all’altra del pianeta. All’interno dello stesso romanzo vediamo un personaggio visitare nell’arco d’una dozzina di pagine l’Europa, l’Africa per poi tornare in America. In un altro vediamo il protagonista avventurarsi in veri e propri tour per gli Stati Uniti: da New York a San Francisco. Da San Francisco a Chicago. Da Chicago ai Carabi con la naturalezza con cui un uomo medio copre le abituali distanze tra casa e ufficio. La narrativa di Saul Bellow è veramente uno spot ante litteram della globalizzazione. Lui, ebreo russo nato in Canada e cresciuto in America ha una passione compulsiva per il moto perpetuo. I luoghi, nei suoi romanzi, sono intercambiabili. Flaubert (almeno nel nostro immaginario) è sempre là, nella sua stanza di Croisset, intento a correggere nevroticamente i suoi scritti, così come Proust non fa altro che succhiare caffè nella sua nebulosa camera parigina. Saul Bellow, invece, fedele a una tradizione americana inaugurata da Poe e da James, è sempre in movimento: lo vediamo affondato nella poltrona di Prima Classe d’un jet con un bicchiere di Bourbon tra le dita. È come se il mondo nelle sue pagine si rimpicciolisse. Come se lui avesse il pianeta in pugno.

A Bellow piacciono gli aerei, e non tanto le elettrizzanti sensazioni del decollo e dell’atterraggio, quanto invece la calma metafisica della crociera: i panorami mozzafiato cui lui sembra non abituarsi mai: “Siamo in balia dei motori e ci troviamo sospesi fra cielo e mare – azzurro, sopra di noi e sotto di noi, la bellezza del creato ci avvolge, tra un azzurro più cupo e un azzurro più chiaro – non avvertiamo la velocità, neppure il movimento. Succhiamo aranciate attraverso una cannuccia, da involucri di carta, mentre sorvoliamo Cipro. O è Creta? Il pilota ha anche accennato all’Adriatico? Poi vengono le vette delle Alpi, con le loro nevi, i cumuli di nubi”.
Descrizione esemplare! Una delle tante. (Il racconto Come è andata la vostra giornata? dalla raccolta Quello col piede in bocca, si svolge quasi interamente in aereo. Nel passo citato avvertiamo non solo la sensazione di spaesamento e di lontananza del volo, ma direi soprattutto l’impressione di aerea libertà che distingue la letteratura bellowiana: epitome del suo internazionalismo ebraico e del suo fiero cosmopolitismo. È come se la sua narrativa avesse abolito i disagi del jetlag, dei ritardi, dei bagagli, del dover trovare un taxi, del dormire in letti stranieri e inospitali.
Al JFK mi hanno sottoposto a controlli di una scrupolosità disumana. Un addetto della compagnia ha perfino preteso di parlare con lo zio israeliano che mi ospiterà qualche giorno a Tel Aviv. La cosa, invece di irritarmi, mi ha tranquillizzato. Se ispezionano così uno come me – con questa faccia cronicamente giudaica – figurarsi con un presunto terrorista. È così che si deve ragionare di questi tempi. E mi chiedo se esista un obbiettivo più allettante per un terrorista di un aereo zeppo di ebrei americani che fa una tratta come New York-Tel Aviv.
(Eppoi solo ieri è accaduto quello spaventoso disastro a Madrid! E ovunque, almeno da questa parte di mondo, si respira un’aria di tragedia).
Come talismano per il viaggio ho qui con me, tra le mani, uno dei più eccitanti, profetici e misconosciuti libri di Bellow. Gerusalemme andata e ritorno. Commentario personale. Un libro del 76 scritto da un neo-premio Nobel su un argomento così intrinsecamente drammatico. Che mi sembra fin troppo appropriato alla circostanza e ai tempi. Un libro che conosco quasi a memoria. Che negli anni ho annotato con coscienziosità nevrotica. E per ragioni affatto personali. Diciamo che come molti uomini con un po’ di sangue ebraico nelle vene non parlo volentieri di Israele. Ogni volta che ho provato a farlo sono stato ferito dai miei disimpegnati interlocutori, dai loro malvagi pregiudizi, ma anche dai miei. E allora meglio tacere, rispondere a mezza bocca alle provocazioni altrui, e tentare di dimenticare tutto al più presto. Chi lo dice che il dialogo su certe cose sia fruttuoso? Talvolta esso è solo un modo per offendere il prossimo e per lasciarsi insultare. Ormai ho imparato la lezione: Israele per i Gentili è un ottimo argomento di conversazione politica, una palestra truculenta e complicata su cui provare gli attrezzi della propria dialettica e l’onestà del proprio spirito critico. Per un ebreo, invece, Israele è come una metastasi che abbia aggredito un organo interno: una cosa che fa male, che fa paura, ma di cui è inutile e penoso parlare. Spesso nella vita per difendermi dal cicaleccio anti-israeliano dei salotti romani sono ricorso alle pagine di questo libro. Ecco perché esso è così rovinato e consunto. È la mia via di fuga, ma anche una forma auto-punitiva. Perché tanta lucidità uccide.
Il libro racconta il viaggio di Bellow di tre mesi in Israele compiuto con la moglie a metà degli anni ‘70. Inizia in aereo naturalmente. E proprio come nei suoi romanzi migliori, notazioni di ambiente si alternano a riflessioni d’una così sofferta profondità, e d’un’equanimità quasi rabbinica.

Bellow, al di là delle sue affettazioni di modestia e incomprensione, capisce assolutamente tutto della questione, molto più dei tanti eminenti personaggi che via via incontra e intervista: capisce che Israele, con buona pace di molti fondamentalisti ebrei, è uno scandalo geografico e politico, e andarci a vivere è stato un nuovo perverso modo escogitato dagli ebrei per rendere la propria vita un inferno, ma capisce anche che gli arabi non sono quelle dimesse vittime piene di ragioni per uccidere che molti in Occidente si ostinano a raccontarci. E che spesso la loro crudeltà ha qualcosa di sovradimensionato rispetto alle offese subite, qualcosa di turpemente ferino.

La cosa avvincente (non dico sia per forza una qualità) di questo libro è che sembra scritto oggi, in questi giorni terribili, come se la Guerra che solo adesso ci sembra incombere, fosse iniziata allora. Ed è veramente raro che un libro di politica internazionale rimanga così fresco. Le motivazioni che mi vengono in mente per spiegare tale misteriosa longevità saggistica sono tre:

1) La preveggenza di Bellow.
2) La situazione che, a dispetto delle apparenze, non è poi così cambiata rispetto a trent’anni fa. Si è semplicemente radicalizzata, resa spettacolare dagli attentati compiuti fuori dai confini di Israele (che chissà perché fanno più male di quelli che hanno insanguinato Gerusalemme e Tel Aviv per decenni) e dalla macabra attenzione dei mezzi di comunicazione.
3) La qualità della scrittura di Bellow è talmente alta che tende a rendere ogni materia trattata fuori dal tempo.

Ecco cosa scrive Bellow appena atterrato in Israele:

Si va a far spesa nei supermercati, si telefona agli amici, si ascolta musica classica alla radio. Ma d’un tratto la sinfonia s’interrompe e danno notizia di un attentato dinamitardo. Una bomba è scoppiata in un caffè sulla strada per Giaffa: sei giovani uccisi, altri trentotto feriti. Turbato, addolorato, tu posi il bicchiere con il tuo civile drink. Inquieto, esci per recarti civilmente a cena. Sì, d’accordo, le bombe esplodono un po’ ovunque. Poco fa si è saputo di un attentato in piena Londra. Ma la differenza è che, quando scoppia una bomba nel West End londinese, non viene messo in forse il diritto dell’Inghilterra ad esistere.
Invece, qui, siedi con persone simpatiche in una sala da pranzo come tante, e sai che la padrona di casa ha perso un figlio, che sua sorella ne ha perduti due nel ’73, che, in questa via di Gerusalemme – fresca, redolente di fiori nella notte coi lampioni occhieggianti fra il verde cupo – molte famiglie hanno subito lutti, come questa. E in quel caffè sulla strada per Giaffa, frequentato da studenti e giovani operai, sei adolescenti sono morti poco fa.
Cosa rende meglio il dramma israeliano? e quello che noi stiamo vivendo e siamo destinati a vivere nei prossimi anni, della descrizione della nostra “civile” quotidianità interrotta da spaventose esplosioni? Eppoi quella coscienza oscura che resiste, anche quando il ricordo cade, nera coscienza di pericolo che neanche Conrad avrebbe saputo raccontare. “Una delle bizzarrie di questo paese” nota Bellow a un certo punto “è che quando qui si dice ‘lotta per la vita’ lo si intende alla lettera. Altrove, è un espressione metaforica. E neanche la parola ‘incubo’ qui è un modo di dire”.

Ma la chiaroveggenza di Bellow si spinge oltre. Questo libro sembra lucidamente dare conto delle incomprensioni venate di aspra malignità che dividono gli americani dai francesi, dopo la Seconda Guerra Mondiale (sembra che i francesi non abbiano perdonato agli americani di aver vinto la guerra contro Hitler dopo che loro l’avevano persa così rapidamente – pare insinuare astiosamente l’autore di questo commentario). Bellow riesce a stento a mantenere la calma di fronte al problema francese, dà l’impressione di chi vuole a tutti i costi ricacciare in gola il proprio risentimento, e non ci riesce: “La Francia è un paese i cui pensatori, sedentari a Parigi, ritengono di saper tutto quello che c’è da sapere sul mondo esterno. Il mondo esterno è quel che dichiarano che sia. Se vuoi sapere tutto sugli aborigeni australiani, consulta il Larousse. […] Insomma: per lo più in Europa si ritiene che il capitalismo è finito e che la democrazia liberale sta morendo. Se alla Francia, importasse qualcosa della democrazia liberale e della liberà, certo si comporterebbe in modo diverso nei confronti di Israele. Invece, la Francia preferisce il feudalisimo arabo, il socialismo arabo, il comunismo cinese. Preferisce far affari con il Terzo Mondo. Preferisce qualsiasi cosa ad Israele”.

Giudizi aspri, che denunciano ancora una volta l’adesione bellowiana a un certo conservatorismo liberale di stampo statunitense: ma, comunque la si pensi, è difficile rimanere indifferenti di fronte alla lucidità con cui Bellow spiega la differenza tra gli intellettuali francesi e quelli americani. Il risentimento rivoluzionario e antagonistico (talvolta un po’ salottiero) dei primi, spruzzato di terzomondismo, e il pragmatismo idealista (mi si perdoni l’apparente aporia) dei secondi. Su questo si esercita il sarcasmo bellowiano: “Quel che la Svizzera è per le vacanze invernali e la costa dalmata per i turisti estivi, Israele e i palestinesi sono per l’Occidente, e per il suo bisogno di Giustizia: una sorta di luogo di villeggiatura morale”.

[continua…]

La prima parte del Reportage è qui.
La seconda è qui.
La terza qui.
La quarta qui.
La quinta qui.

(Il testo è originariamente apparso in due puntate sui numeri 27, luglio-settembre 2004, e 28, ottobre-dicembre 2004, della quinta serie di Nuovi Argomenti)

 

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).