Reportage inattendibile dai luoghi bellowiani (quarta parte – di molte parti)

da | Apr 20, 2013 | Senza categoria

Uno scrittore perdona quasi tutto a un collega, persino la scortesia di aver scritto un ottimo libro. Ma non il successo: quello è davvero imperdonabile. Auspichi che il tuo migliore amico trovi la donna della sua vita, ma saresti sconvolto se osasse portarti via la tua. Ecco, diciamo che per uno scrittore il pubblico è la donna amata, e il successo l’inevitabile corollario coniugale di quell’amore felice e tormentoso.

Università di Princeton 12 luglio 1986

Forse sbaglio. Ma tendo a conferire un’eccessiva importanza all’essere stato rifiutato, appena tredicenne, da una ragazza eccezionalmente bionda nel contesto maestoso d’un’università statunitense svuotata d’americani e pullulante di stranieri: diciamo che lo considero come uno di quei fatti fondamentali che formano il carattere.

Metà degli anni ’80. Era l’epoca in cui si diffondeva tra le famiglie borghesi l’abitudine di mandare i figli in vacanza-studio in Inghilterra e in America: ma i miei zelantissimi genitori evidentemente volevano di più: devo alla loro megalomania quel soggiorno a Princeton, tra le maggiori istituzioni universitarie della East-Coast. Spaventato dall’idea di essere rinchiuso in quella fortezza neo-gotica, fui stupefatto nel vedere una vacanza dai presupposti così seriosi trasformarsi in un’indimenticabile occasione di promiscuità sessuale e razziale, come nella migliore tradizione collegiale mille volte celebrata da insulsi film di cassetta.

E chissà che non sia stata l’immersione nell’adrenalinica euforia di fine millennio, ad avermi indotto all’errore d’invaghirmi di una di quelle bionde ragazze romane che fanno dell’altezzosità e della concupiscenza una sorta di manifesto politico: così in quel maledetto 12 luglio 1986, dopo una serie di trattative mal gestite da quel diplomatico dilettante e minorenne che ero, fui rifiutato (e stavolta senza alcuna ambiguità) da quella ragazza, che si era peritata nei giorni precedenti di alimentare nel mio povero animo di pubescente una serie di speranze convulse e infondate. Ora, la ragazza apparteneva alla categoria di teen-ager i cui capelli sembrano aver risucchiato tutto il calore di Roma. Un’elegia ariana in terra americana. Diciamo che la mia paranoia operò in modo da convincermi che lei mi avesse rifiutato in quanto ebreo, sebbene oggi possa dire con certezza che quella imperturbabile fanciulla non conoscesse la differenza che correva tra gli ebrei e i pastori tedeschi. Però insomma questo episodio di razzismo del tutto ipotizzato mi aiutò a superare la prima grande buca della mia vita.

Della quale mi sarei ricordato molti anni dopo, imbattendomi nell’avventura di Humboldt, il grasso e geniale poeta tratteggiato da Bellow che s’imbarca in una patetica battaglia contro il sistema WASP per avere una cattedra a Princeton. D’altra parte, come avrei potuto, leggendo la cronaca dettagliata del revanscismo di Humboldt e dei suoi inevitabili fallimenti, sullo sfondo di quella solenne università, non provare un senso di empatia? Non ci trovavamo forse – io e Humboldt – sullo stesso campo di battaglia? Non eravamo entrambi votati (per una sorta di destino da cui la nostra razza stenta a liberarsi) alla sconfitta? Diciamo che se lui aveva provato a sfidare il tempio WASP dell’accademismo americano, io nello stesso luogo, molti anni dopo, avevo provato, con un’omologa operazione, a espugnare un fortino ariano ottenendo lo stesso sconfortante risultato e rifugiandomi nelle stesse paranoie auto-consolatorie.

E diciamo che tale analogia mi offre la possibilità di introdurre il tarlo bellowiano per eccellenza: l’ebraismo e l’America.

Temo che il contenzioso che l’ebreo Bellow ha con i WASP non sia molto dissimile da quello che, per esempio, l’ebreo Zweig e tanti suoi correligionari avevano con la vecchia aristocrazia austriaca qualche decennio prima, alla vigilia del genocidio. È come se anche quel benedetto contenzioso avesse preso armi e bagagli per trasmigrare intonso dall’altra parte dell’Oceano. Il solito vecchio problema: gli ebrei che guardano con ammirazione, con invidia e con uno struggente desiderio di emulazione la classe più alta e irraggiungibile nella scala sociale dei Gentili, sentendosene simultaneamente attratti e ripugnati, accolti e disdegnati…

Eppure – bisogna pur convenirne – l’America del Ventesimo secolo non è l’impero austroungarico. L’America è the land of opportunity. Quindi le cose dovrebbero avvenire in modo affatto diverso. Insomma almeno in America si dovrebbe avere più rispetto per gli ebrei e meno pregiudizi per le minoranze in genere.

Diciamo che Bellow si sente investito da tale problema sin dal principio della sua carriera di scrittore, e lo risolve con spregiudicatezza, o almeno finge di risolverlo. Il celebre incipit di Augie March non è altro che questa spudorata rivendicazione di americanità anche a scapito della propria matrice ebraica. “Io sono americano, nato a Chicago” dice Augie, e a noi sembra che lo stia gridando. Eppure, nonostante tutto, in lui, da bravo ebreo della diaspora, sopravvive un fascino misterioso (mescolato al risentimento) per la cultura ufficiale dei protestanti anglosassoni, se non altro perché essa sembra ai suoi occhi una sorta di succursale americana della cultura vittoriana, o di quello che ne resta, per cui Bellow prova un’autentica venerazione. Lui, spesso, nei suoi romanzi, cita i componenti del Bloomsbury Set come se costoro fossero semidei appartenenti a un’altra razza, rappresentanti d’un’epoca in cui lo Spirito Umanistico per una volta (dopo l’Atene di Pericle o la Roma di Giulio II) poté trionfare sulla terra.

Ne Il dono di Humboldt, Charlie Citrine, il narratore, è spinto a conoscere Von Humboldt Fleicher perché questi è l’autore d’una silloge accolta con grande favore dall’Accademica, depositaria (agli occhi di Citrine) delle chiavi della cultura alta americana, che per una volta sembrano aver messo da parte la propria schizzinosa diffidenza nei confronti degli ebrei. Questo successo di Humboldt presso l’establishment dei Gentili ha mandato letteralmente in estasi Citrine, fino a spingerlo a sobbarcarsi un viaggio avventuroso pur di stringere la mano a quel fiero Davide che con le sue poesie ha abbattuto il Golia del pregiudizio accademico.

Avresti detto che uno nato nel West End, figlio di immigrati, nevrotici per di più […], che un giovinotto di tal natura dovesse essere per forza maldestro, che la sua sintassi non potesse venir accettata dai raffinati critici gay posti di guardia allo Establishment Protestante e alla Tradizione Snob. Niente affatto. Quelle Ballate erano terse, musicali, spiritose, piene di gioia e di umanità. Platoniche, direi. Con ciò alludo a quella perfezione originaria cui, secondo Platone, ogni essere aspira a ritornare. Sì, le parole di Humboldt erano impeccabili. L’America degli Snob non aveva motivo di temere. Era allora in uno stato di sovreccitazione nervosa: s’aspettava, da un momento all’altro, di veder sbucare l’Anticristo dai bassifondi. Invece, ecco questo Humboldt Fleisher, con un’offerta d’amore. Si comportava come un gentiluomo.

Rifulgono gli attributi usati da Citrine per definire lo stile humboldtiano, attribuiti che ai suoi occhi sembrano decisamente non-ebraici. Le ballate di Humboldt sono “terse, musicali, spiritose, piene di gioia e di umanità. Platoniche, direi”. E per rendere meglio questo disagio l’allusione a Platone è essenziale, perché non solo si tratta del più cristiano (e quindi del meno ebraico) tra i filosofi dell’antichità, ma soprattutto perché la sua idea di bellezza è così astratta e idealizzata che sembra facilmente contrapporsi all’incombente prosaica espressività giudaica. Insomma la nuova vita degli scrittori ebrei in America riprende proprio da dove l’avevano lasciato i loro antenati europei: dal desiderio di assimilarsi da un lato, e dall’altro da quello di non smarrirsi e confondersi con tutti gli altri. Restare ebrei e allo stesso tempo scrivere al modo dei Gentili, e meglio di loro se possibile.

Ma non è solo questo il punto di contatto: i posteri sono legati ai progenitori da una smania non meno travolgente. Una smania che si fa ossessione. E tale smania si chiama “successo”.

Ha scritto Hanna Arendt con la solita acutezza:
Gli uomini di affari ebrei non potevano facilmente rendersi conto di quanto le classi alte fossero antisemite, per il fatto che essi perseguivano solo interessi commerciali e non si preoccupavano affatto degli inviti nei gruppi non ebraici. Ma i loro figli scoprirono abbastanza presto che c’era un solo modo per essere accettati in società – diventare famosi.

Negli Stati Uniti – per come è conformata quella società in realtà così dissimile dalla nostra – c’è un termine che risulta in assoluto il più offensivo che tu possa rivolgere a un tuo simile: “looser”. Perdente, o se preferite, fallito. Anche se in realtà “looser” è un vocabolo intraducibile. Perché dire a un americano “you are a looser!” non equivale a dire a un italiano: “tu sei un perdente!”. Nel nostro paese, per ragioni che è inutile indagare, si è arrivati perfino al paradosso di avventurarsi in una commossa retorica dei perdenti che negli Stati Uniti risulterebbe incomprensibile. Fallire da quelle parti è, per una serie di ragioni sociologiche, un’esperienza assai più mortificante.

Sicché il successo in America diventa per l’appunto un incubo individuale e collettivo, metro essenziale per definire la dignità d’una vita. Una vita senza successo è una vita senza dignità. E se ciò vale per l’americano medio tanto di più vale per l’ebreo americano, e se ciò vale per l’ebreo americano in generale, diventa un vero macigno per l’ebreo americano che sceglie di fare lo scrittore. Perché scrivere è un mestieraccio: è una professione faticosa, mortificante, che dà rare soddisfazioni sociali, e solo sulla lunga distanza. Uno scrive oggi per essere apprezzato se tutto va bene tra un paio d’anni. È una scommessa con se stessi che difficilmente ripaga della fatica. Eppoi c’è un altro problema: in qualsiasi altra professione uno può mantenere un profilo basso o medio, essere un buon avvocato, un ottimo ingegnere, un decoroso chirurgo, ma la scrittura, l’arte reclamano l’eccellenza, il primato, lo sgominamento e l’uccisione degli avversari.

O sei il migliore o non sei. Non esisti.

Saul Bellow ha ottenuto un successo travolgente, ha vinto un Nobel, e a tutt’oggi contende a Faulkner e a Nabokov la palma di scrittore americano più importante del Secolo. Ma non si può dire davvero che quel successo gli sia piovuto dal cielo. Se l’è veramente sudato. Ne ha fatto uno scopo di vita senza ipocrisie. E alla fine lo ha ottenuto.

Ma soprattutto ne ha fatto (ed è solo per questo che ne parlo) motivo di studio e di ispirazione letteraria, come forse solo Balzac, in tutt’altro contesto, ha saputo. Molti libri di Bellow sono dedicati – anche se solo ufficiosamente – a questo annoso problema: fare successo negli Stati Uniti e, per Dio, conservarlo.

Per questo forse si può addirittura dire che la sua vita di uomo e di scrittore sia divisa in due parti. E non è difficile comprendere come lo spartiacque che chiude la prima fase e apre la seconda sia Herzog. Per quello che letterariamente rappresenta nell’opera di Bellow (un’autentica svolta), ma anche per quel che comportò nello svolgersi naturale della sua vita privata: celebrità, danaro, tranquillità, frequentazioni altolocate. Se nei libri precedenti a Herzog (forse con la sola eccezione de Il Re della Pioggia che è storia a sé) Bellow ha cantato il disagio di giovani personaggi ebrei figli di emigrati e il loro desiderio di emergere, di mettersi in luce, che spesso si traduce in scacco, nei libri dopo Herzog, ha provato a raccontarci quanto sia sfibrante e difficile conservare un’immagine di sé compatta quando si è tanto famosi, quanto è difficile contemplare la caduta nel gorgo dell’Oblio dei tuoi amici che non ce l’hanno fatta e quanto è facile specchiarti nel loro destino atroce.

È stato spesso notato che in molti romanzi di Bellow ricorrano figure di familiari (fratelli e padri soprattutto, ma non solo) che, a dispetto del protagonista del libro, hanno raggiunto eminenti posizioni nella società e hanno messo da parte un mucchio di soldi. Ne L’uomo in bilico, il primo romanzo, il giovane Joseph, dichiara immediatamente il proprio disagio, la propria frustrazione per la ricchezza del fratello Amos. Ma la persona per cui sente il maggior astio è Etta, la viziata quindicenne figlia di Amos, allevata a considerare il proprio privilegio pecuniario anzitutto come un attestato di carattere e personalità:

Mia nipote e io non siamo troppo in buoni rapporti; c’è una vecchia ruggine tra noi. La nostra famiglia non era ricca. Amos ricorda spesso quanto abbia dovuto lottare, quanto fosse vestito male da ragazzo e quanto poco mio padre poteva dargli. E lui e Dolly hanno allevato Etta insegnandole che la povertà s’identifica non tanto, forse, col male quanto con la mediocrità e che lei, figlia di gente ricca, è distante anni luce da coloro che vivono miseramente, in appartamentini mal ammobiliati, senza domestici, e che indossano abiti grossolani e sono così privi di orgoglio di fare debiti. I suoi cugini hanno automobili e ville in campagna. Io non rappresento certo un motivo di orgoglio ai suoi occhi.

Joseph disprezza e odia sua nipote, eppure non può impedirsi di soffrire per il disprezzo che lei si compiace di restituirgli, come se subdolamente lo stesso Joseph aderisse a quel giudizio detrattivo che la nipote ha formulato – per la perversa educazione che le è stata impartita – su di lui.

Uno schema analogo si ripete ne La resa dei conti: stavolta c’è un padre egoista e spilorcio che si rifiuta di aiutare economicamente il figlio, sebbene questi stia per affogare, e quel medesimo figlio che, nonostante tutto, non riesce a elaborare un giudizio completamente negativo nei confronti del padre preferendo puntare l’aculeo della propria riprovazione su di sé, sul proprio fallimento.

Masochismo ebraico?

No, stavolta si tratta d’un tratto distintivo dell’americanità bellowiana.

In Herzog, quando il protagonista sta per inabissarsi nel fondo della follia, è ancora un fratello ricco a intervenire per tentare di farlo rinsavire. È come se, nell’universo bellowiano, la ricchezza fosse sinonimo di salute mentale. È la ricchezza che conferisce prestigio ai personaggi, che li rende saggi e distinti, non il primato intellettuale e neppure quello accademico così importante per gli ebrei. Ed è perfino lacrimevolmente ingenuo il modo in cui Moses si lascia consigliare dal fratello. È come se la stima per lo spirito pratico di quel simpatico filibustiere chicaghese si fosse impossessata di lui fino a mutarsi in giudizio di merito. Il fratello è meglio di lui perché ha fatto molti più soldi. Ma Moses non ne è invidioso: Moses ama suo fratello alla follia.

(Bisogna capire che Saul Bellow non è un bohemien che si compiace di disprezzare coloro che hanno scelto di vivere negli agi della borghesia. No, lui ha un occhio di simpatia per i borghesi, è lui a sentirsi matto, proprio come il suo inconcludente e dissipatore Herzog. Tale l’entità della sua schizofrenia).

Allora non è difficile capire come tale faccenda del successo e del danaro si sia trasferita dalla mente di Bellow sulla pagina, trasformandosi da impaccio biografico in tema letterario. Non a caso, nei romanzi dopo Herzog, i fratelli e i genitori ricchi, pur non scomparendo completamente, pesano di meno. Diciamo che oramai non c’è più bisogno della loro autorità. È come se dopo il successo di Herzog, Bellow fosse diventato improvvisamente maggiorenne.

Ciò non di meno quando, all’età di quarantanove anni, Bellow si ritrova inaspettatamente, e a causa del suo libro più difficile, un uomo ricco, ha un vero e proprio attacco di panico.

Essere ricco e famoso in America. C’è da sviluppare un fottio di ansie da prestazione. L’assai informato biografo di Bellow ricorda che le settimane in cui Herzog raggiungeva vette insperate di vendite e popolarità, il fratello Maurice abbia commentato con soddisfazione: “Il fratellino ce l’ha fatta finalmente”.

Erano lustri, decenni che i Bellow evidentemente chiedevano a quel “fratellino” artista di seguire la strada scritta nel suo DNA: la strada del successo in America. Tanto meglio se a questi soldi si accompagnava una notorietà che possiamo dire internazionale. Tanto meglio se alla speculazione edilizia lui aveva saputo sostituire la folle speculazione intellettuale di Moses Herzog.

E non deve essere stato semplice per uno scrittore cinquantenne che fino a quel momento ha scritto libri su quanto è difficile la vita in America, dover ora occuparsi di quanto sia facile viverci se hai molti quattrini e molto prestigio. Bisogna riconoscere che la ricetta scelta da Bellow per tenere a bada il successo – e per gestirlo nei libri – è stata certamente la più intelligente possibile.

Cos’altro fare se non prendendone ironicamente le distanze? mostrando quanto la ricchezza sia una cosa che in realtà non ci riguarda e come, dopo tutto, i problemi rimangano sempre gli stessi: il terrore di invecchiare e di diventare cretini, il declino della propria nazione, l’orrore della morte che ogni giorno ti succhia un impercettibile ma determinante centilitro di vitalità dalle vene?

[continua…]

La prima parte del Reportage è qui.
La seconda è qui.
La terza qui.

(Il testo è originariamente apparso in due puntate sui numeri 27, luglio-settembre 2004, e 28, ottobre-dicembre 2004, della quinta serie di Nuovi Argomenti)

 

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).