Remake

da | Ott 2, 2013 | Senza categoria

La figura archetipica del genio incompreso ha un nome e cognome: Jean-Gaston Enfray. Ha un atto di nascita: Blois, 14 ottobre 1880. Ed una nota a pié di pagina a lui dedicata nell’ultimo manuale di Storia del Cinema edito dalla Columbia University Press. Il passaggio è quello in cui Kubrick racconta delle difficoltà incontrate nella realizzazione di 2001: Odissea nello spazio. La nota recita: «Tra queste, la causa per plagio intentatagli dal regista Anfray, che vedeva nel film una copia del suo La Télémachie dans la Lune, cortometraggio fantastico del 1902».
Che la carriera di un artista possa ridursi in fondo a questo, ad una nota di manuale, è un rischio che qualsiasi autore dovrebbe sempre sapere di correre. Ma l’ingiustizia è comunque evidente, perché in due righe stampate impietosamente a carattere otto, e col refuso nel cognome come atto ultimo di sfregio, la critica americana ha voluto raccogliere la vita, le idee e la passione di uno dei più eroici pioneri di tutta la cinematografia europea. L’uomo che, in appena dieci anni di attività, immaginò un tasso di capolavori allarmante, da cui il gotha attinse a piene mani ed a cui ognuno volle voltare le spalle. Tra questi: Le Voleur de bicyclette (Il ladro di biciclette, 1900), La Guerre des étoiles (La guerra stellare, 1900), Le Bon, la Brute et le Truand (Il Buono, il Bruto e il Malandrino, 1903) e Chantons sous la pluie (Cantando sotto la pioggia, musical muto del 1904). Queste opere d’arte, autentici pezzi di bravura in fieri, oggi rimasti in copie rare abbandonate ai morsi della polvere nei magazzini di appena un paio di cineteche francesi, esprimono al meglio al proprio pubblico il significato concreto della parola “avanguadia”: è l’eroismo della prima linea, di chi si espone al rischio di aprire la strada, e accetta persino di bruciare in un attimo, dimenticato e calpestato dalle retrovie.

Ebbi l’onore di conoscere Enfray nella Parigi del ‘62, allorché mi apprestavo a intervistare Antonioni per la première francese del suo film L’eclisse. Fuori dal cinema, vestito con una certa umiltà – giacchetta alla buona, pantaloni a coste, forse il suo abito migliore –, un ottantenne scarmigliato fermava tutti i giornalisti e pretendeva di avere il suo spazio sulle colonne dei giornali. Quello che il mondo doveva sapere – e di cui inspiegabilmente i manifesti, i titoli di testa e di coda, le critiche italiane e staniere non facevano cenno – era, in sostanza, la sua ragione di vita. La verità ultima della sua carriera, il suo tarlo notturno nonché la causa scatenante dell’ulcera che lo costringeva ad un regime di pappine: L’eclisse non era che un remake, versione aggiornata del suo corto omonimo girato sessant’anni prima.
Il solito gruppo di colleghi ne raccoglieva le dichiarazioni col ghigno stampato sulla faccia: il giorno dopo ne avrebbero tratto, forse, una nota di colore. Mi provocarono soltanto rabbia. Facevo il critico da anni, avevo imparato a conoscere la pletora triste dei matterelli che infestavano ogni prima: non mi facevano più ridere, nei loro confronti avevo sviluppato un vaccino fatto di fastidio e pietà. Entrai nel cinema ignorandolo, passai col maestro italiano un quarto d’ora d’intervista dal profumo d’incenso, sopportai male il primo tempo del film e approfittai dell’intervallo per esibirmi in una fuga all’inglese. Enfray se ne stava ancora lì, solo, abbattuto, a studiare con ansia i particolari della locandina. «E pensare – mi disse – che ero riuscito a esprimere gli stessi concetti in soli due minuti e quaranta. Un’eclisse, tre personaggi muti. Voilà, l’incomunicabilità. Ma il cinema d’oggi, si sa: mio Dio, che spreco di pellicola!» Il caffé che decisi di accettare a casa sua – appartamento modestissimo a Rue Charlot 8 – fu l’occasione per quella che si rivelò in assoluto la mia scoperta più eccellente.

Enfray ciabattava nel monolocale. Mi raccontò della sua vita. Suo padre, Charles, si faceva chiamare lo Strepitoso Pallottini ed esercitava nei dintorni di Blois. Prestigiatore autodidatta, era scomparso un giorno nel nulla nel doppiofondo di una cassa durante un esperimento di telecinesi. Le voci dicevano si fosse trattato di un escamotage per scappare con una giovane contorsionista del circo ambulante che lo aveva ingaggiato, ma tanto bastò a convincere Jean che il mondo moderno avesse ancora un angolo riservato all’incanto. A quindici anni, ne ebbe la precisa conferma a Parigi, in cui aveva preso a vivacchiare come assistente di un pregiudicato noto nei pressi dell’Opera come Mago Yuri Meraviglia. In una sera di dicembre, nel Grand Café fumoso in cui il mago ubriaco aveva appena finito di trafiggere Enfray con sei spade dalla punta retrattile, i lumi ad olio si ammansirono per lasciar spazio a un vero miracolo. «Un treno. Un treno comparso dal buio, dove un istante prima non c’era nient’altro che un telone bianco tirato sul fondo della sala. Un treno che non aveva nulla delle immagini false degli spettacoli di lanterna magica, nulla della staticità piatta della fotografia. Quel treno avanzava, ed era sul punto di travolgere il pubblico». L’illuminazione non piovve dal Cielo, ma dall’occhio mistico di un proiettore.

La grande invenzione dei fratelli Lumiere fu per Enfray una porta aperta verso il sogno. Risparmiò per cinque anni mangiando poco altro che tartine, mise da parte un mare di spiccioli. Il giorno in cui il Mago Meraviglia fu incriminato per lesioni aggravate – un brutto incidente durante il gioco della ghigliottina –, ne rilevò l’attività, vendette tutti i suoi strumenti e si comprò una cinepresa. Pensò: lo spettacolo poteva iniziare.
Erano i giorni dello spirito, dell’inconsistente, dell’immateriale. L’arte del cinema si confondeva con gli spettacoli di telepatia e prestigio, e le figure semoventi di nitrato d’argento che il proiettore sapeva evocare non erano poi troppo diverse dalle ombre e dai fantasmi vaghi, che si libravano sui tavoli durante le sedute medianiche nei privatissimi salotti borghesi. Enfray vide il cinema così: come una macchina capace di mostrare quello che non c’era, di anticipare il futuro, di abbattere il muro dell’incanto. Il primo film che immaginò aveva il titolo Gli acchiappafantasmi (1900). Quel pomeriggio, nel suo appartamento, me lo mostrò con un aggeggio a manovella dal rumore infernale. Era la storia, dalla trama brevissima, di quattro massoni occultisti che, grazie agli ultimi ritrovati in fatto di elettromagnetismo, scoprivano il modo di imprigionare gli ectoplasmi che infestavano le antiche case di Parigi. Durata: un minuto e dieci. Spettacolarità: mediocre. Tossicchiai e lo guardai perplesso. L’idea era magnifica, ma la povertà dei mezzi aveva pesato sul risultato finale: gli spettri erano formine di carta mosse da fili chiaramente visibili, e le scariche elettriche sparate dai fucili dei protagonisti erano lampi di magnesio della durata di un secondo. Davvero poco impressionanti.

«Lo so. – disse Enfray – oggi saprei fare di meglio». Ma si diceva che il cinematografo non doveva pretendere di copiare il teatro. Il cinema non doveva fornire una rappresentazione ma, proprio come la magia, un’intuizione, ovvero il segno che qualcosa esisteva di là dal mondo materiale. La seconda opera di Enfray, La guerra stellare, aveva venature politiche e ispirazioni alla Jules Verne. La Luna, nel film, era retta da un imperatore dispotico che si serviva di un luogotenente asmatico per assoggettare gli innocenti seleniti. Dalla Terra, un cannone di dimensioni epocali sparava un’astronavicella carica di eroici ribelli, che sconfiggevano l’imperatore e, in una scena altamente emotiva che concedeva qualcosa al feuilleton, il capo della resistenza scopriva che l’orrido luogotenente altri non era che suo padre.
«Forse la storia le ricorderà qualcosa…» sorrise amaro il vecchio Enfray.
«Sinceramente no.»
«Questo perché non ha visto la scena in cui la capsula dell’astronave rotolava giù dalle scale del palazzo imperiale. Sergej Eisenstein apprezzò il mio film, non so come ebbe modo di vederlo. Ne fece un remake ambientato in Russia, La corazzata Potemkin. Inutile dirle che dai bolscevichi non ricevetti neanche un soldo».

Enfray si angustiava, senza capire che il problema non era soltanto di natura economica. La genialità del maestro Eisenstein – unita al denaro del regime – gli aveva permesso di sviluppare al meglio l’idea che lui aveva semplicemente abbozzato. Pietosa la resa dei robot compagni dei protagonisti (lo stesso Enfray e un vicino di casa, che si muovevano a scatti ricoperti di padelle e coperchi da cucina), pietosa la resa dei razzi, dipinti su un telo da una mano inesperta. Perché contro Enfray aveva giocato la Storia: la sua immaginazione gli aveva permesso di anticipare il futuro, quando il presente non gliene forniva i mezzi.
«Guardi, ecco, guardi!» Mi mostrò Cenerentola, uno dei primi esperimenti di cinema di animazione (1901). «Volevo dalla mia parte i bambini, volevo dalla mia parte il domani». Si era limitato a filmare le pagine bianche di un quaderno sul quale aveva disegnato i fotogrammi della storia e che aveva fatto scorrere veloci giusto davanti all’obiettivo: cento pagine, in cui si aveva appena il tempo di vedere la sua Cenerentola ballare col principe e smarrire la scarpa. «Conoscerà il remake di Walt Disney. Gli ho scritto a suo tempo. Mai avuto risposta».

Studiavo quell’uomo, lo osservavo sorridere nella penombra mentre davanti a lui scorrevano i parti furiosi della sua immaginazione: tragedie induiste (L’Avatar, 1902), melodrammi coloniali (Casablanca, 1903), documentari naturali (Gli uccelli, 1903) e altre decine di intuizioni maldestre. Lo vedevo sospeso, tra l’orgoglio dell’idea ed il rimpianto della realizzazione, e ripensavo al vecchio mito di cui avevo letto in un manuale di etnologia. Si diceva che un tempo, nel Congo belga, vivesse il Padre delle Storie, un vecchio cieco e analfabeta che era capace di raccontare ai bambini le trame di tutti i romanzi dell’umanità. Quel vecchio sapeva inventare dal nulla la storia de Il conte di Montecristo senza aver mai letto Dumas, e le vicende di Pinocchio come se fossero opera sua. Quel vecchio attingeva al pozzo profondo dell’immaginazione collettiva, e non si poteva dubitare che tutte le favole sconosciute o inedite che a volte gli uscivano di bocca avrebbero trovato, prima o poi, uno scrittore.

Così anche Enfray aveva trovato davvero nel cinema tutti gli spunti del domani. «Ma il mondo, lo sa, – si lamentava – non ha mai avuto bisogno dei precursori. Il mondo afferma di volere i veggenti. Oh, certo, certo che li vuole: per sfruttarli e disfarsene. Il mondo applaude soltanto chi vive nel presente, chi propone il già visto, il già sentito, chi parla la lingua che già sa capire. Ovvero, desidera il banale». Perché il genio, pensavo io intanto, in silenzio, annuendo, è l’uomo che vive sfasato nel tempo, che rompe davvero quella parete sottile, il diaframma critico tra visibile e invisibile per permettere agli altri di passare.
«Remake. Questo vogliono. Ben rifiniti, fatti meglio, al passo coi tempi…» Sullo schermo scorrevano immagini ormai abrase, fotogrammi inizio secolo di un melò breve strappalacrime, la morte di un automa fuggito dall’Esposizione Universale di Parigi a cui evidentemente Fritz Lang si era ispirato per Metropolis. «E se ogni mio film è stato patetico, come lo spiega, poi, il futuro? Come lo spiega che se n’è nutrito?»

Pensai che il cuore è sempre troppo, troppo grande, rispetto alla vita che ci è toccata in sorte. Rispetto ai tempi, ai mezzi poveri, alla materia limitata che abbiamo a disposizione. Che una vita non basta per realizzare i nostri sogni, e che altri poi dovranno raccoglierli, senza portarci gratitudine. Lo salutai, gli augurai buone cose. Enfray si spense nel gennaio del 1970 per complicazioni polmonari. L’ultima frase che pronunciò, nel delirio, fu la battuta amara che l’automa Pascal, protagonista del suo film, diceva al padrone in punto di morte: «Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare». Piansi e mi dissi, perlomeno, che se l’aveva immaginata lui, qualcuno avrebbe dato voce a quella didascalia bianco su nero, a quell’intuizione generosa che il cinema del 1905 aveva lasciato banalmente muta. Come una lacrima, pensai, che semina il campo del futuro.

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).