Uno spazio di vita. Su Antonia Pozzi

da | Dic 29, 2020

di Stefano Bottero

Antonia Pozzi si uccide nel 1938, in un’età della vita che difficilmente sfugge alla connotazione sociale di “giovane”. La poetessa nasce nel 1912, ha soltanto ventisei anni al momento della scomparsa. Nell’ambito della successiva ricezione critica della sua opera, la sua morte sembra aver canalizzato le prospettive analitiche come un’indicazione di significato di-per-sé. Come se, in altre parole, nel suicidio della giovane poetessa risieda una chiave di lettura aprioristica della sua opera in versi. Uno degli elementi che ha contribuito a ciò è certamente costituito dalla matrice crepuscolare delle sue poesie. La rilevanza in esse di epicentri tematici come quello della malinconia, della morte e dell’inaccessibilità della felicità, ha costituito l’innesco di un meccanismo di sovrapposizione ‘antropologico-poetica’ nella lettura critica. Come se il suicidio di Pozzi sia da leggersi scientemente nella prospettiva di ‘traduzione di significato’[1]: dalla dimensione oggettuale-estetica della composizione a quella fisiologica della vita concreta. La miopia di tale meccanismo associativo – che direziona a priori l’interpretazione della sua poesia verso l’immagine dell’identità suicidaria – affonda le sue radici in una problematica connaturata alla critica letteraria stessa: la possibilità che la tensione alla ‘catalogazione’ si imponga come motore epistemologico. Stabilire un discorso critico, o comunque metaletterario, su un poeta a partire da una sua raffigurazione identitaria, non può che vincolare il processo analitico negli argini della raffigurazione stessa. Il canone italiano non è libero da esempi di questo genere; si pensi a quanto rilievo assume una dichiarazione come quella di Mario Luzi a proposito della non-essenza di ‘poeta maledetto’ di Dario Bellezza[2], a fronte di una diffusa atrofizzazione critica relativa alla sua figura come ‘poeta omosessuale’ e, appunto, ‘poeta maledetto’. Più di recente, un altro esempio è stato offerto da Christian Raimo, che nel saggio Contro l’identità italiana riflette sulla strumentalità politica della connotazione identitaria, di volta in volta particolare, di figure letterarie come quella di Dante[3]. La connotazione dell’identità stessa di Antonia Pozzi mediante il prisma del suicidio rischia così di assumere il carattere di una prassi critica: basti pensare, ad esempio, che perfino nello spazio esiguo delle quattro righe dedicate alla sua figura nel recente Storia e testi della letteratura italiana, la notazione sul suo essersi uccisa occupa uno spazio connotativo al pari delle informazioni sul suo isolamento intellettuale e sulla sua poetica. Lo stesso avviene in sedi di genere diverso, come la voce enciclopedica online a cura di Treccani:

Poetessa (Milano 1912 – ivi 1938). Dopo il suo suicidio fu pubblicato il diario poetico Parole (1939), composto a partire dai diciassette anni, che riflette un’amara e inquieta sensibilità e in cui si avverte l’influsso della lirica di Rilke.[4]

Il suicidio diventa così categoria interpretativa, più che notizia biografica: le sue poesie sarebbe da leggersi all’ombra di una morte giovane e autoinflitta. Come già sottolineato, la matrice crepuscolare di esse può costituire un’indicazione ingannevole in tal senso. Il tema della fine della vita occupa infatti uno spazio cospicuo e trasversale. Nella sua opera, il conto dei termini connessi alla parola ‘morte’ (che da sola appare trenta volte) supera le cento unità. Con grande facilità, si può così cadere nell’errore di sovrapporre biografia e opera poetica in un rapporto di interdipendenza non problematizzata. La questione interpretativa si aggrava ulteriormente se si considera che, riferendosi ad Antonia Pozzi, si sta guardando a una figura su cui oltre all’emblema del suicidio pesa l’insieme dei condizionamenti aprioristici derivati dalla femminilità. In altre parole, pesa il rischio di una lettura critica che si approcci alla sua figura non come a quella di un ‘poeta suicida’, ma di ‘donna suicida’ e poeta solo in seconda battuta. La portata epocale di quest’ultima problematica è stata ampiamente sottolineata, e trova oggi nei presupposti della critica femminista – e nelle sue articolazioni – delle istanze di decostruzione. Lo stato di parzialità programmatica nell’assimilazione di scrittrici e poetesse nel canone letterario, rilevata già nel secolo scorso, costituisce un punto che studiosi come Lois Tyson hanno affrontato analiticamente. Nel fortunato Critical Theory: A User Friendly Guide, la docente ha posto in la luce la dinamica generale di scissione binaria tra i materiali del canone critico ‘costituito’ e quelli esterni ad esso, considerati a priori come espressioni di realtà antropologiche, esperienziali e comunitarie parziali, non universalizzabili[5]. Nello specifico delle questioni testuali, letture come quella offerta da Tania Modleski in Feminism and the Power of Interpretation: Some Critical Readings costituiscono un punto di partenza per riprendere ‘contatto’ con una dimensione critico-interpretativa declinata nella specificità del caso identitario femminile. In polemica con il rifiuto di teorici come Jonathan Culler di riconoscere il concetto di “ground” (“retroterra”) come “luogo da cui è possibile teorizzare, costruire, modificare, e rendere consapevole l’esperienza femminile”[6], Modleski centra l’importanza della nozione stessa in ambito di ricezione – e interpretazione – dell’espressione letteraria femminile.

È fondamentale sottolineare che per i nostri scopi, questa nozione di “retroterra” si apre a una definizione di “esperienza” […]. Proprio perché la nozione di “retroterra” è relazionale, quindi “esperienza”, è usata per designare un processo – “un processo mediante il quale, per tutti gli esseri sociali, viene costruita la soggettività… Per ogni persona, dunque, la soggettività è una costruzione continua, non un punto fisso di partenza o di arrivo da cui poi si interagisce con il mondo”[7].[8]

L’attribuzione di un valore primario alla dimensione esperienziale del soggetto scrivente diventa, nella prospettiva di Modleski, un’azione necessaria nell’ambito del superamento di impostazioni epistemologiche e critiche fortemente condizionate in senso vetero-patriarcale. La focalizzazione sulla singolarità ontologica femminile, tuttavia, non costituisce nel contesto critico-letterario uno strumento per l’interpretazione dell’esperienza stessa. Al contrario, si rende utile nella lettura dell’opera: permette di identificare e penetrare analiticamente, a livello concettuale e stilistico, i punti ‘fissati’ dalla singolarità femminile del soggetto scrivente. Il senso di svicolare, nel discorso critico, l’opera di Antonia Pozzi dal suicidio della sua autrice, non è dunque quello di ricavare una prospettiva che stravolga la consueta attribuzione di valore letterario all’atto, da leggersi – nella riflessione di Adele Ricciotti – come “parte di una poesia solitaria subita fino alla fine, attraverso la purezza e la verità dello spirito che l’ha scritta”[9]. S’impone, invece, come un’azione necessaria all’approfondimento del complesso ontologico e concettuale della sua poesia – in specifica considerazione della centralità nodale, in essa, dell’elemento dell’identità.

Io credo questo:
che non si può cambiar nome,
cambiar volto,
alle creature già nate
nel cuore.[10]

Così si apre “Unicità”, poesia del 1933. L’immutabilità dell’‘essenza’ del singolo è affermata come credenza particolare, personale, che riguarda tanto il piano dell’esistenza materiale (“cambiar volto”) quanto quello dell’identità logica (“cambiar nome”). L’essere nati reca così un senso di invariabilità esistenziale. Il dolore che connota l’esperienza umana non è direttamente generato da questa verità, ma costituisce una conseguenza empirica dell’invariabilità stessa, del dover-essere “nel cuore” privi di cambiamento. Un’ulteriore articolazione del tema dell’immobilità dell’essenza singolare nell’essere nati giunge nel 1935 in “Rinascere”, composizione di sessantadue versi in cui, in un’esistenza di vite “chiuse” (v.9), la rinascita consiste in un miraggio relativo all’innamoramento per l’altro.

Uccello lieve

il mio cuore

ed ogni tuo sguardo

un suo volo profondo

in un remoto tempo

azzurro –

solo la mia

gioia

e rinascere in te.[11]

Il cuore, che ritorna come immagine topicamente legata alla singolarità emotiva, incontra nell’altro una possibilità di leggerezza. Questa è tuttavia proibita dall’incapacità stessa di rinascere, atto che non l’io non conosce: il verso interno “Rinascere – non sai:” è scandito per ben due volte (v. 27 e v.50). La percezione della propria identità trova così una descrizione nell’incontro dinamico con l’altro-da-sé, amato. Nel rapporto con l’altro l’identità di Pozzi incontra una definizione, e appare ritratta in versi densi di uno sguardo interiorizzato. La declinazione formale/concettuale di tale sguardo, il suo farsi poesia, rappresenta una costante specifica della sua opera: attraverso la lente dell’autodefinizione, gli elementi empirici e le sensazioni del sé trovano una collocazione lirica. Proprio nel 1933, come sottolineato da Matteo Vecchio, Pozzi attraversa una fase di ‘sintesi’ tra tendenze riflessive diverse a proposito della propria concezione poetica. Ad affermazioni relative all’intendere la poesia come pura “catarsi dal dolore”[12], nell’arco di pochi mesi la poetessa fa seguire una lettura di essa termini di uno sforzo immane: “vincere il peso inerte delle parole inanimate, farle vive”[13].

Accentuandosi la tensione sacrificale, all’interno di una prospettiva ideologica che si sta tuttavia lentamente laicizzando, essa viene resa operativa nel quadro di una differente modalità di convivenza esistenziale tra vita e scrittura, poiché, accanto alla componente autosacrificale e sublimatoria (che coinvolge senza soluzione di continuità vita e scrittura, riflessione critica ed esistenza), si corrobora la componente fabbrile che rintraccia nel «lavoro» rielaborativo della creazione artistica […] la sublimazione del travaglio stesso […].[14]

Nella poiesis del verso, l’espressione della sua esistenza singolare come pratica del rapporto al dolore. Quella del 1933 è così una ‘fase’ in cui la tendenza si acuisce e fissa un carattere che non verrà mai totalmente meno nella prassi poetica successiva. La significatività nodale del ’33 si rende identificabile anche dal punto di vista della quantità di elaborazioni: se si considera la sola raccolta di Parole, le poesie datate nell’anno sono 89, numero di gran lunga più elevato di quelli relativi alle altre annualità[15]. Nel 1929 e nel 1935 arriva a concludere appena 49 poesie; negli altri anni, il numero delle composizioni relative a ciascuno non supera la ventina[16]. Si fissa così un punto cardinale teoretico nella poetica di Pozzi, relativo al bilanciamento nella sua poesia dell’unicità singolare-personale e della prassi compositiva in sé. Da esso, l’orientamento della qualità stilistica inedita della sua opera poetica, in cui il dato biografico è contemporaneamente marginalizzato e fondante:

nel difficile equilibrio tra un’intensità del sentire che la portava sempre verso una sorta di “oltranza” e di dimensione onirica e la scrittura in sé – che richiedeva invece distacco ed oggettivazione – [Antonia Pozzi] cercò di sottrarre la poesia al dato immediatamente e acriticamente autobiografico.[17]

La tendenza a questo equilibrio formale-concettuale appare osservabile anche in composizioni che, ovviamente, precedono la ‘fase’ del 1933. Tornando alla lettura di Matteo Vecchio, la lezione filosofica di Antonio Banfi costituisce per Pozzi il fondamento della consapevolezza relativa alla frattura epocale tra vita e scrittura[18]. In quest’ultima, l’esperienza della vita non è “tacitata”, proprio sulla vita “fonda i propri movimenti”[19]. La vita ne è dunque prefigurazione, elemento da essa inscindibile e per sempre separato. Così, la poetessa compone nel settembre del 1929:

Nel giallore temporalesco
le mie poesiucole
ricopiate su un quaderno di scuola
per te.
L’anima s’appiattisce
tra passato e presente
come un’avvizzita corolla di papavero

– a ricordo d’un idillio di viaggio –
fra le pagine di una guida turistica.[20]

Il titolo della composizione è “Copiatura”. I nove versi sono scissi in due segmenti di diversa lunghezza dal punto fermo. L’asimmetria è, tuttavia, solo ‘apparente’: la connotazione parentetica dell’ottavo verso ne disloca la presenza, riportandone il quid a una dimensione differente da quella della presenza, che riguarda invece l’intera composizione. La poetessa è immersa nella realtà che descrive, il suo punto focale è immesso nella concretezza di uno spazio e di un tempo. La tensione fotografica dei primi quattro versi porta il lettore in un’immagine che, a ben vedere, è scevra di inessenzialità descrittive. Il dato, gli elementi di ciò che esiste, presentano sé stessi nella compresenza orizzontale del reale. Così il “giallore temporalesco”, così le “poesiucole ricopiate”, così il “quaderno di scuola”. La motivazione che soggiace alla copiatura, espressa da due sillabe appena nel quarto verso, connette i due segmenti della poesia (vv. 1-4 / vv. 4-9) come il punto in cui dimensione della vita concreta – il riferimento alla persona amata – e quella del movente esistenziale coesistono. Superato il “per te”, lo sguardo della poetessa penetra la filigrana ontologica del momento stesso della scrittura, nella descrizione concreta del movimento dell’anima che avvizzisce come un papavero lasciato a disidratare. Il ricordo, inciso che disturba un’ipotetica proporzione di ‘quattro : quattro’ versi, allontana per un istante la ‘visuale’ del lettore, spezzando in due la similitudine del papavero. Il ricordo, oggetto della singolarità esperienziale della poetessa, resta così a margine della composizione stessa, ritirando tutto ciò che la riguarda come persona fisica oltre il confine della parentesi, dell’a parte. Come già detto, la definizione della sua identità giunge nel rapportarsi all’altro – in questo caso, a un ricordo di un momento idilliaco. Ricordo che, appena un mese prima dalla composizione di “Copiatura”, concludeva “La discesa” declinandosi in questi termini:

Nel mio ricordo stanco, disperato,
tu ti frantumi d’ombra e di silenzio.[21]

Nell’osservazione dell’assenza di fissità connotative nelle ricorrenze immaginifiche – come quella del ricordo – si rende chiaro un carattere ulteriore della realtà compositiva di Antonia Pozzi, quello cioè della sua essenza non-inerziale. Le declinazioni dell’interiorità, legate in maniera cospicua a sentimenti di mancanza e disperazione, non trovano nella sua opera una consistenza figurativa identica a sé stessa, ma scandiscono con varietà dinamica la “monotonia”[22] del dolore. La sostanza identitaria dell’atto poetico-creativo si pone dunque nel centro della frattura – banfiana – tra vita e scrittura, scansando le istanze di ricomposizione assoluta da un lato e di annichilimento dall’altro. Una chiave fondamentale per la lettura della questione giunge, nella contemporaneità recente, da Giorgio Agamben. Ne L’uomo senza contenuto, il filosofo mette a fuoco quanto segue.

Ciò di cui l’artista fa esperienza nell’opera d’arte è, infatti, che la soggettività artistica è l’essenza assoluta, per la quale ogni materia è indifferente: ma il puro principio creativo-formale, scisso da ogni contenuto, è l’assoluta inessenzialità astratta che annienta e dissolve ogni contenuto in un continuo sforzo per trascendere e realizzare sé stessa. Se l’artista cerca ora in un contenuto o in una fede determinata la propria certezza, è nella menzogna, perché sa che la pura soggettività artistica è l’essenza di ogni cosa; ma se cerca in questa la propria realtà, si trova nella condizione paradossale di dover trovare la propria essenza proprio in ciò che è inessenziale, il proprio contenuto in ciò che è soltanto forma. La sua condizione è, perciò, la lacerazione radicale: e, fuori di questa lacerazione, in lui tutto è menzogna.[23]

Si è qui inteso riportare nella sua interezza un passaggio che racchiude il senso di una riflessione articolata complessivamente nel sesto capitolo dello studio, “Un nulla che annienta sé stesso”. Nelle parole di Agamben, dense della radicalità teoretica della prospettiva estetica romantica, la poesia è posta come oggetto in cui l’identità artistica raggiunge il suo assoluto non nella totale negazione della contingenza della vita, ma nello scarto di ogni creazione realizzata a-partire-da essa. Nel trascrivere nell’opera il contenuto esperienziale singolare, determinato al di fuori della stessa creazione, il poeta di orienta alla “menzogna”. L’esteriore, empirico, è dunque inessenziale, e porta il poeta a quella stessa lacerazione verbalizzata da Banfi. L’assoluto dell’esperienza poetica è così assoluto identitario, che non annulla la personalità singolare ma ne definisce l’essenza, scolpendola esteticamente. La consapevolezza della “trascendenza del principio creativo-formale”[24] reca con sé, per l’artista, la chiarissima riprova della frattura tra vita e scrittura. Così questi è “uomo senza contenuto, che non ha altra identità che un perpetuo emergere sul nulla dell’espressione”[25]. Nulla che non annienta, ma che impone la propria presenza nell’orientamento della vita artistica stessa. A fronte di ciò, la concretezza della percezione emotiva – e spirituale – dell’assoluto da parte di Antonia Pozzi, non stupisce. Al contrario, a distanza di novant’anni rimangono estremamente significative le parole di una poetessa diciottenne in cui la solidità di una visione teoretica incontra la profondità della sensibilità artistica.

Anche se io non riuscirò mai a vedere nel vostro Cristo più che l’uomo, pure saprò farmi buona, saprò camminare, saprò crearmi dentro sempre più il mio dio: e non cercherò di conoscerlo, perché conoscerlo è rimpicciolirlo. Sarà un camminare con una meta canora dentro, che non si può vedere ma senza posa si sente; un vivere la vita senza abbandoni, creandosene dentro, ad ogni istante, gli scopi.[26]

La riflessione estetica agambeniana indica così una via interpretativa che permette di leggere in chiave sintetica l’incontro delle tendenze logiche ed emotive soggiacenti alla poetica di Antonia Pozzi. Gli archetipi delle esperienze artistiche di Rimbaud e Artaud, opposti nell’alienazione assoluta e nella riscrittura straniata della corporeità stessa, sono letti dal filosofo come le due vie ‘possibili’, con le quali in epoca contemporanea il poeta è chiamato a misurarsi. Nel seguire questo spunto dualistico, versi come quelli di “La voce” mostrano il farsi centrale, nella poesia di Antonia Pozzi, dell’equilibrio ontologico-estetico nello scrivere. Usando le parole di Agamben, nel “conciliare la propria lacerazione”[27].

allora hai voce
tu in me –
con quella nota
ampia e sola
che dice i sogni sepolti
del mondo, l’oppressa
nostalgia della luce.[28]

Nell’unica “nota”, racchiuso il mare infinito della soggettività: le speranze e le aspirazioni da un lato (i “sogni”), il dolore dall’altro (la “nostalgia oppressa”). La voce dell’altro-da-sé, che penetra l’identità artistica come principio unificante e sincretico, si fa motrice dell’atto compositivo come momento in cui l’identità della poetessa afferma sé stessa. Affermazione in cui la dimensione biografica ed esteriore della vita non domina, ma si pone a latere. In questo senso, Antonia Pozzi scansa la “menzogna” agambeniana rendendo lo scrivere stesso come il fulcro immanente all’espressione dei suoi sentimenti. Nelle sue parole a Vittorio Sereni, al racconto di un mondo che “non esiste neppure come mondo a sé, ma è solo il morire di tutto un lungo spazio di vita”[29].

 

 

[1] Significato, appunto, di tristezza identitaria, crepuscolare e maledettistica.

[2] M. Luzi, Sempre in colluttazione con il mondo e con sé stesso in Addio amori/Addio cuori, Dario Bellezza, a cura di A. Veneziani, Fermenti Editrice, Roma, 1996, p. 15.

[3] C. Raimo, Contro l’identità italiana (Edizione Kindle), Einaudi, Torino, 2019, pos. 1135: “Se è evidente che l’influenza di Dante è planetaria e millenaria […] è altrettanto chiaro che in Italia, ancora più che per altri Paesi, la letteratura fa la politica. L’utilizzo politico di Dante è la metonimia dell’uso millenario della letteratura per una costruzione politica identitaria”.

[4] Pozzi, Antonia in Enciclopedia on line, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani:

https://www.treccani.it/enciclopedia/antonia-pozzi (ultima visita in data 05/11/2020).

[5] L. Tyson, Critical Theory: A User Friendly Guide, 2nd Edition, Routledge, New York, 2006, pp. 107-108.

[6] T. Modleski, Feminism and the Power of Interpretation: Some Critical Readings in  Feminist Studies/Critical Studies, (a cura di) T. de Laurentis, The Macmillan Press, Londra, 1986, p. 135: “place from which it is possible to theorize, construct, modify, and make conscious female experience”.

[7] T. de Lauretis, Alice Doesn’t: Feminism, Semiotics, Cinema, Indiana University Press, Bloomington, 1984, p. 159.

[8] T. Modleski, Feminism and the Power of Interpretation: Some Critical Readings in  Feminist Studies/Critical Studies, (a cura di) T. de Laurentis, 1986, p. 135: “Importantly for our purposes, this notion of “ground” opens onto a definition of “experience” […]. Just as the notion of “ground” is relational, so “experience” is used to designate a process – “a process by which, for all social beings, subjectivity is constructed…. For each person, therefore, subjectivity is an ongoing construction, not a fixed point of departure or arrival from which one then interacts with the world”.

[9] A. Ricciotti, Antonia Pozzi: la poesia dell’anima in «Cuadernos de filología italiana», 2014, vol. 21, p.233.

[10] A. Pozzi, Parole in Tutte le opere, Garzanti, Milano, 2009, p. 92.

[11] Ivi. pp. 193-194.

[12] A. Pozzi, Lettera a T. Gadenz, Milano 11 gennaio 1933, in A. Pozzi, L’età delle parole è finita: lettere 1923-1938, a cura di A. Cenni e O. Dino, Archinto, Milano, 2002, p. 127.

[13] A. Pozzi, Lettera mutila a P. Treves, 9 settembre 1933, in ibid., p. 152.

[14] M. Vecchio, Antonia Pozzi. Tre studi in «Otto/Novecento», n.2, 2010, pp. 233-234.

[15] L’arco temporale di riferimento per la sua produzione è da stabilirsi tra il 1929 e il 1938.

[16] Il conto è stato operato sulla base dell’edizione digitale testo di A. Pozzi, Parole, curato da A. Ceni e O. Dino, distribuito da Liber Liber, 2009, sulla base di A. Pozzi, Parole, Garzanti, Milano, 2001:

https://www.liberliber.it/online/autori/autori-p/antonia-pozzi/ (ultima visita in data 05/11/2020).

[17] A. M. Torriglia, “Ora accetti d’essere poeta”. Sulla poetica di Antonia Pozzi e la scuola di Milano in «Italian culture», Vol. 38, n.1, 2020, p. 37.

[18] M. Vecchio, Antonia Pozzi. Tre studi, p. 236.

[19] Ivi. p. 237.

[20] A. Pozzi, Parole, p. 356.

[21] A. Pozzi, Parole, p. 23. Poesia datata 14 agosto 1929.

[22] A. Pozzi, Parole, p. 264: “e cade / il temeggio del volo / grevemente / sul notturno monotono cuore”.

[23] G. Agamben, L’uomo senza contenuto, Einaudi, Torino, 2003, Edizione Kindle, pos. 942.

[24] ibid.

[25] Ivi. pos. 951.

[26] A. Pozzi, Lettera ad Antonio Maria Cervi, 13 Aprile 1930, in Antonia Pozzi: se Dio non è lontano, T. Altea, Materiali di estetica, n. 5.2, 2018, p. 32.

[27] G. Agamben, L’uomo senza contenuto, pos. 942.

[28] A. Pozzi, Parole, p. 176-177.

[29] A Pozzi, Lettera a V. Sereni, 20 Giugno 1945, in Tutte le opere, p. 521.