“Una storia separata: Christopher Whyte”. Intervista di Christian Sinicco

da | Lug 3, 2018

Christopher Whyte / Crìsdean MacIlleBhàin (1952) è un poeta di lingua gaelico scozzese. Per molti anni è stato docente di letteratura scozzese presso l’Università di Glasgow. L’intervista che pubblichiamo, a cura di Christian Sinicco, è tratta dall’ultimo numero di “Argo – Confini”, 2018. Il volume è una partnership tra Argo, Poesia del nostro tempo e Istos Edizioni.

Sono passati più di 25 anni dal Trattato di Maastricht e l’auspicio di una Europa senza confini è messo in crisi da molte spinte centrifughe, tra cui quella più eclatante, risolta nella Brexit. Secondo la tua opinione cosa non ha funzionato nel meccanismo europeo?

Per un fatto di onestà, devo cominciare dicendo che fin dall’inizio – dalla fine dell’infanzia e dalla prima adolescenza – sono stato fortemente a favore dell’integrazione europea e dell’indipendenza scozzese. Per me non erano spinte contraddittorie, ma quasi due aspetti della stessa spinta. E devo specificare che per me l’Europa significava la “vera” Europa, cioè includeva gli ex-paesi del socialismo reale, che solo dal 2004 in poi hanno fatto parte dell’Unione Europea che conosciamo. Osservazione da aggiungere. Trovo che sia sbagliato generalizzare eccessivamente sulle diverse realtà europee. Per più di un decennio ho abitato a Budapest, in Ungheria, e mi è risultato chiaro che ognuno dei paesi “dell’est” ha una storia separata. Difficilmente sono accomunabili. L’arrivo al governo dei comunisti a Praga e a Budapest, ad esempio, è stato un processo assolutamente non assimilabile nei due casi. E le esperienze delle repubbliche ceca e slovacca, durante la guerra e in seguito, sono state profondamente diverse, nonostante facessero parte dello stesso stato prima del 1939 e dal 1945 al 1992.

Cosa sta succedendo, secondo te, in Gran Bretagna? Quali sono le cause di una scelta così drastica come quella di uscire dall’Unione? Riesci a spiegare cosa non ha funzionato nel meccanismo dell’integrazione europea, sul piano culturale?

Direi non tanto quello che succede in Gran Bretagna ma, per essere più preciso, in Inghilterra – voglio dire, “England”! – e a Londra. Alcuni anni fa ho visto un bellissimo film inglese con Colin Firth e Helena Bonham Carter, Il discorso del re, che però mi ha lasciato profondamente turbato. Uscendo dal cinema, mi sono detto: Ma è possibile che l’immaginario degli inglesi – the English! – non sia stato capace di trovare un nuovo mito? Di arrivare ad un concetto della sua relazione con l’Europa che non sia più quella del 1939? Con tutti i riferimenti scontati ed obbligatori al grande drammaturgo nazionale?
Lo storico Anthony Judt ha scritto che il dilemma fondamentale della politica britannica dalla Seconda Guerra in poi è stato se associarsi all’Europa o agli Stati Uniti. È del tutto possibile che stiamo assistendo all’ultimo sgretolamento di un impero storico, quello britannico, che per gran parte dell’Ottocento è stato il paese più potente al mondo. Questi “atti conclusivi” raramente offrono uno spettacolo edificante, e possono alimentare aspetti molto distruttivi.

Gli scozzesi e gli irlandesi come si pongono a proposito?

Come cechi e slovacchi, irlandesi e scozzesi hanno rispettivamente due storie, due esperienze, molto diverse e assolutamente non assimilabili. Gli scozzesi sono stati in parte vittime dell’impresa imperiale e coloniale, in parte sono stati dei collaboratori. Per loro – per noi – staccarsi dalla compagine britannica è un processo doloroso e finora incerto, nonostante gran parte del mondo intellettuale e culturalmente produttivo la pensi come me.

Tu scrivi da tanti anni poesia unicamente in gaelico scozzese. Quali relazioni vedi tra l’uso di questa lingua e i processi politici e culturali che si stanno svolgendo adesso nelle isole britanniche?

Per il gaelico, credo che sia più giusto – più onesto e schietto – rispondere da un punto di vista strettamente personale. Io sono nato e cresciuto a Glasgow. Mia madre era figlia dell’immigrazione irlandese e il nostro ambiente era fortemente cattolico, non calvinista come per la maggioranza degli scozzesi a quei tempi.
Ho studiato dai gesuiti e poi sono andato direttamente a Cambridge, dove mi sono laureato in English, cioè in letteratura inglese. “English” e “literature” erano due concetti così sovrapponibili che un termine poteva benissimo sostituire l’altro. Il processo per cui gli elementi intellettualmente più promettenti delle comunità subalterne sono attentamente filtrati e portati verso il centro per essere assorbiti dalla cultura dominante è di tipo prettamente imperialista e colonialista. Personalmente ho sempre avuto un forte senso di estraneità verso la lingua inglese – sono cresciuto praticamente monolingue, anche se il dialetto scozzese di Glasgow che ci circondava era vivacissimo, e oggi conta ormai una discreta produzione letteraria – e verso la cultura degli inglesi.
Sentivo chiaramente che questa cultura non era mia, e che questa lingua non mi apparteneva.

Sei una persona di madrelingua inglese e hai scelto di non adoperare questa lingua di portata “mondiale” nella tua poesia… Perché?

Il dono della lingua del colonizzatore è un dono che ti rimane bloccato nella gola. Ti impedisce di parlare o di ragionare. Di vedere chiaramente te stesso, chi sei, di cosa hai bisogno. Credo che ci possano essere dei paralleli interessanti, ad esempio, con la situazione di certi scrittori del “maghreb” francese, ma ne so troppo poco per parlarne in dettaglio. Per me il fatto che la Scozia sia tuttora un paese trilingue, dove si parla un inglese colto di tipo locale, lo scozzese, e poi il gaelico, è una cosa che mi ha salvato.
Scrivere poesia in lingua gaelica significava scrivere una poesia che non avrebbe mai potuto essere assimilata dalla cultura dominante e distruttrice. Era una difesa splendida contro il progetto culturale imperialista. Al livello personale, poetico, mi ha permesso di dire delle cose che, usando l’inglese, non sarei mai arrivato a capire o a dire.

Una posizione comune di chi parla e di chi si occupa del gaelico?

La gente che scrive gaelico o che si occupa in Scozia delle lingue “nostre” e delle loro culture è massicciamente a favore dell’indipendenza, e questo almeno fin dal 1918, anche da prima. Ormai il gaelico è parlato attivamente da meno di sessantamila persone, ma rimane una lingua nazionale. Imparare il gaelico e viaggiare attraverso la Scozia è come vedere alzarsi il sipario su uno spettacolo appassionante, in parte perché gran parte dei nostri toponimi, che suonano strani in inglese, sono forme storpiate di nomi di luoghi del tutto chiari in gaelico – il promontorio esteso, il villaggio accanto allo stretto, e così via. Imparare il gaelico è un modo per impossessarsi del territorio e della sua storia, di accedere a informazioni a lungo tenute nascoste per motivi sui quali non c’è bisogno di discutere.

Cosa prevedi per l’immediato futuro della Gran Bretagna?

Sta diventando chiaro per tante persone che la Brexit è un grandissimo sbaglio, anzi potenzialmente una catastrofe per il Regno Unito. Sospetto che molti di quelli che hanno votato per la Brexit l’hanno fatto solo come voto di protesta, e sono rimasti inorriditi la mattina dopo vedendo che aveva vinto. Ha vinto per il 4% dei votanti, ricordiamocelo.
Da un paio di decenni la Scozia e l’Inghilterra, come paesi, stanno assumendo contorni diversi. Il parlamento di Westminster è un parlamento eletto a voto maggioritario e, in fondo, poco rappresentativo rispetto al voto delle persone. È un parlamento senza una costituzione scritta a cui riferirsi. In Inghilterra il livello di “leadership” politico è scaduto spaventosamente. La Scozia ha un parlamento eletto in modo proporzionale e vede in Nicola Sturgeon l’immagine di una “leader” competente, di livello discreto. Il modo in cui si svolge la vita politica nei due parlamenti è diverso e la reciproca comprensione diventa sempre più problematica.

Pensi che le aspirazioni indipendentistiche della Scozia possano realizzarsi?

Credo che la Scozia diventerà uno stato indipendente, e si arriverà ad una riunificazione anche riluttante in Irlanda. Ma sono ottimista di natura, forse troppo. Una cosa sicura è che nelle isole cosiddette “britanniche” – gli irlandesi preferiscono dire “these islands”! – ci aspettano anni difficili pieni di incertezza e di sacrifici.
E questo mi dispiace profondamente.