Una ristampa (e traduzione) delle “Canzoni del conte GIACOMO LEOPARDI”, Bologna 1824.

da | Lug 21, 2014

   Siccome dunque io non voglio che [i miei] sappiano niente de’ fatti miei, perciò la copia sarà mandata Al Sig. Alberto Popoli, Recanati, accompagnandola con un avviso per lettera, che sia diretta a me, e venga separata.

(A Pietro Brighenti, Bologna, 15-05-1824)

Sembrerà strano a qualcuno, forse, ma il primo libro poetico di Giacomo Leopardi, le dieci Canzoni stampate da Nobili & Comp. a Bologna nel 1824, e seguite da importanti Annotazioni del poeta, così notevoli da essere da subito riversate nel “Nuovo Ricoglitore” di Milano (n. 9 e 11, 1825), quella preziosa raccolta d’autore dunque, non è stata mai riedita in quanto tale – salvo ignoranza mia, ovviamente, nella lontana Parigi (ma molto utile è il testo digitale fornito dalla Biblioteca Italiana, Bibit 2004). Invece, la prima edizione dei Canti, che da allora vanno, credo, lentamente maturando (ma, si sa, Il sogno compare sul bolognese “Caffè di Petronio” nell’estate del 1825, e la prima parte degli Idilli – L’infinito con La sera del giorno festivo – fa seguito al medesimo “Nuovo Ricoglitore”, n. 12, poco tempo dopo, nel dicembre del 1825), via via fino al Manifesto del luglio 1830, per “l’imminente pubblicazione dei Canti di Giacomo Leopardi” presso G. Piatti in Firenze (il noto volume del 1831). Allora, infatti, l’unità dei Versi (Bologna 1826) è individuata, proprio sotto il segno canoro, o di ode e cantico[1]. Rileggiamo la prima Annotazione alla “Canzone nona”, Inno ai Patriarchi:

Chiamo quest’Inno, Canzone, per esser poema lirico, benché non abbia stanze né rime, ed atteso anche il proprio significato della voce canzone, la quale importa il medesimo che la voce greca ode, cioè cantico. E mi sovviene che parecchi poemi lirici d’Orazio, non avendo strofe, e taluno oltre di ciò essendo composto d’una sola misura di versi, tuttavia si chiamano Odi come gli altri; forse perché il nome appartiene alla qualità non del metro ma del poema, o vogliamo dire al genere della cosa e non al taglio della veste.

Ora, a me pare che – mentre lavora al suo unico libro di relativo successo (in vita), le Rime del Petrarca, menzionato nella Biographie Universelle del de Feller, t. IV, 1839 –, che la riflessione dunque del poeta sulla forma “Canzone” vada liberandosi dagli schemi metrici prestabiliti a favore di una maggior duttilità (e tanto è noto), ma soprattutto a favore di una concezione moderna di cos’è il lirismo, se si è attenti più all’oggetto (la “cosa”) che al “taglio” appunto formale, già fissato dalla tradizione. Bene: la primissima traccia di tale libera riflessione sul “canto” nella poesia lirica – o sua voce, che dir si voglia –, prima di pensare chiaramente forse a quel titolo, imprevedibile davvero, di Canti, è implicita in tale piccola Annotazione. Sicché, non in appendice o sotto forma di microscopiche note, bensì in calce ad ogni poesia, non fuori testo insomma – e “nel carattere medesimo delle Canzoni” (Lettera a P. Brighenti del 5 dic. 1823) – abbiamo pensato bene di inserire le Annotazioni autoriali alle sue Canzoni del 1824.

Il libro, appena uscito per i tipi di Le Lavoir Saint-Martin (Parigi), a parte un’utile giustificazione dello scrivente, Pourquoi les Chansons, riproduce dunque quell’edizione voluta dal giovane recanatese, con le preziose varianti fornite nei segmenti ripresi per le Annotazioni (il testo seguito è invece, di norma, quello definitivo) – ad es. quel moderno Evviva (Annot. alla sesta strofe di All’Italia) poi ricorretto in Viva (nostra ed. bilingue p. 39), oppure luci preferito a giorni (Bruto minore, IV str. id. p. 176) poi recuperato. Qui si tocca da vicino quel lavorio incessante, che portò la lingua del Leopardi a un’apparente semplicità, del resto spesso più sensibile nella poesia (G. Nencioni) che forse veniva per un po’, ancora sentita relativamente vicina al “popolo” (il giovane Giacomo ascoltava parlare la gente del suo “borgo selvaggio” e ne apprezzava la loquela), soprattutto del resto negli Idilli per quanto concerne questo periodo della scrittura leopardiana (così vi prevale aria, contro aere nelle Canzoni: G. Nencioni ancora). Ancora: sono preziosi i vari significati, spesso illustrati attraverso abbondanti sinonimie, per la semplice lettura e comprensione del testo. Così, per vago (e qui, di nuovo si rimanda al Petrarca), reso più problematico dal presque-même francese (“vague” è solo un ramo della significazione, e spesso fuorviante), o sprone / spronare, trepido (in pratica, latinismo), stridere… e non sto a parlare qui – ancora una volta – dei quasi intraducibili (impossibilia) almo, molle, e così di seguito, e con coppie terribili, in genere femminili (alma / altrice). Più in generale, il poeta difende a spada tratta l’inventività vitale della lingua, sia per i singoli termini (p. 102: lessico di “quell’altro Vocabolario dal quale tutti gli scrittori classici […] derivarono tutto quello che parve loro convenevole”), sia per il discorso medesimo (p. 130: “d’où provient que nous pouvons écrire barbarement même si nous évitons la moindre syllabe qui ne puisse être accréditée par dix ou quinze textes classiques”), senza remore di tipo scolastico per il vero creatore di lingua (il poeta, che egli sa di essere). Ho portato questo esempio qui nella nostra traduzione, perché a volte questa impone – ovviamente – di variare, anzi cambiare come sempre succede nel tradurre. Allo stesso modo, vediamo alcune citazioni:

Tutto aver si convien, né men che quelli
Ch’AL tempestoso MAR CREDON LA VITA.

Né SI CREDEVA ancor LA VITA A’ VENTI.

Dunque A L’AMANTE L’ONESTA’ CREDESTI?

Troppo credi e commetti al torto lido.

(ed. 1824, p. 175-76)

*

Tout doit être connu, non moins qu’à ceux
Qui À l’hostile mer CONFIENT LEUR VIE.

On n’OFFRAIT pas encor SA VIE AUX VENTS.

Donc À L’AMANT TU OFFIS TA PUDEUR?

Trop tu crois et confies au tort rivage.

(ed. bil. nostra p. 190-91)

A volte, questa è stata anche un’occasione per rispolverare antiche versioni non sempre disponibili, come quelle, non diciamo dell’abbé Delille, ma di un D. Torche per l’Aminta del Tasso, ad esempio (p. 192). Quanto ai contenuti extra-letterari, sono tuttora da notare le frequenti allusioni alla politica gretta e protettrice degli stati (per lo più i pontifici), come a p. 192 (“cet étranger [dissueto] possède un permis de circuler…”) o 228: “Si le mot instaurare est de contrebande, que les douaniers pédants fassent fouiller au corps le Secrétaire florentin…”, ecc. Deliziosa questa reticenza rispetto, giustappunto ai “pedanti”, ove viene ribadita di nuovo la libertà del vero scrittore: “Ad ogni modo volli piuttosto quell’altra [forma di parola]. E perché? Questo non tocca ai pedanti di saperlo.” (p. 178, e: “Ce n’est pas chose à apprendre aux pédants”, p. 193). In maniera più generale, il giovane poeta di provincia presente in questo libro è ironico, allegro spesso, senza inutili moralismi nel dire e nello scrivere, impietoso però con l’accademismo ottuso e serioso; in questo, egli è e resterà nostro contemporaneo. La lettura di testi qua e là insistiti, non facili, impegnati in lotte che forse non ci riguardano più (dico, per alcune di esse), risulta alla fine molto gradevole e spesso entusiasmante. Il sarcasmo (singolare, qui, quello alimentare o meglio nutrizionale, compreso il giochetto sul significato di crusca), amaro quando si sfiorano gli albori della colonizzazione, è sempre produttivo, positivo nel senso che fa pensare: secondo noi, sarebbe in questi piccoli particolari – non dissimili a volte da quelli sparsi nel carteggio – che bisognerebbe rintracciare meglio il pensiero del cosiddetto “poeta filosofo”.

Ma va da sé che, per noi, il lavoro più importante è stato quello della resa in francese dei testi poetici, discussi e riscritti a più mani, in seno al gruppo CIRCE; a cominciare dalla scelta del verso, come già in passato per la nostra Vita nova bilingue[2]. Del resto, della scrittura di e per la traduzione (quella collettiva, delle poesie dunque) si è parlato anche in occasione di una giornata per Leopardi, Les lectures de Giacomo, tenuta a Paris 3 – Sorbonne Nouvelle nel marzo scorso[3]. Forse non sta a me parlarne in questa sede. Anzi posso darne un campione, e aggiungere semplicemente – da traduttore singolo con una certa esperienza – che mai un individuo sarebbe giunto a un risultato simile, salvo a passarci parecchi anni, in modo da ritradurre più volte dopo aver quasi dimenticato le scelte fatte in precedenza. Infatti, l’insostituibile vantaggio di una ricerca – poi scrittura – collettiva, portata avanti insieme, con una riflessione di tipo traduttologico, preparata e consapevole, se il gruppo riesce a rimanere unito e affiatato, è per l’appunto che nessuno può prevedere, o antivedere, le scelte che farà l’altro rispetto alle sue proprie. Si procede quindi partendo ovviamente da una lettura approfondita del testo di origine (testo O) secondo una visuale pluristilistica e plurilinguistica, ossia da più sfaccettati modi di dire e di sentire, con vari riferimenti intra, inter e extra-testuali, in un vasto arcitesto, e ovviamente con diversissimi ritmi e “voci”, sensibilità di uomini e donne ecc. fino a trovare un accordo sul testo – ché opera testuale deve essere, capace di durare in quanto tale – quasi “desideroso” (avrebbe detto forse Benjamin) o comunque non scontento di essere posto accanto all’altro, come oggetto non già servile ma autonomo: testo destinatario insomma (testo D) anche se pur sempre “secondo” rispetto alle infinite possibilità serbate, liberate, a volte scatenate dal testo O, sovrano. Ecco dunque il campione annunciato (si tratta – “Non io d’Olimpo…” – dell’explicit della Canzone VI, Bruto minore):

Non, les sourds rois de l’Olympe ou du Cocyte
ni cette terre indigne
moribond je n’appelle, ni la nuit même ;
ni vous, dernier rayon dans la noire mort,
consciences futures. Les tombes hautaines
seraient calmées par les pleurs, ornées des mots
et des dons de la tourbe ?
Les temps s’effondrent, des rejetons gâtés
ne sauraient honorer
les nobles esprits, venger ultimement
les misérables. Qu’autour de moi le sombre
rapace tourne ses ailes ; que m’accable
le fauve, que l’orage
emporte ma dépouille
perdue ; le vent cueille mon nom, ma mémoire.

(p. 163)

 

 


[1] Cfr. D. De Robertis, ristampa anastatica dei Canti 1831, Firenze, Le Lettere, 1987 (« Identità dell’opera »,, p. 198.).

[2] Dante Alighieri, Vie nouvelle, ed. crit. bilingue (dir. J.-Ch. Vegliante), Paris, Garnier classiques, 2011.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).