Una piuma d’oro

da | Ott 22, 2021

Un autocommento inedito di Giancarlo Pontiggia a partire da un dialogo tra l’autore e Federica Giordano.

 

UNA PIUMA D’ORO

Mi accorgo di non saper niente del buio,
anche se in molti ne hanno scritto. Il buio
inerte, denso, immoto, che si nutre di sé,
e non ha pace. L’anima, che vola via dai suoi tormenti
ne sa forse meno di noi: muore
per vivere ancora, prima che il tempo la disgreghi.
Ricordo una sera in cui eri qui, e mi dicevi
che non c’è fuoco che possa durare per sempre,
e che questa è la legge del mondo: ma io ti chiesi
di quale mondo parlassi.

C’è sempre molta attesa, quando una porta si apre.
Ci carichiamo di un nuovo principio, a un passo
dalle cose, prima che le luci si spengano.
Tra due mondi che si sfiorano,
s’interpone una forza, invisibile, che agisce
e li trasmuta: sai di cosa parlo. La logica della vita
non è vivere, ma restare nel suo nido di fuoco,
accoccolati tra le piume, prima
di ogni verdetto.

Né ira né furore, né fiamme che bruciano
sulla pazienza dei tuoi occhi. Come può essere
che una freccia traversi
il ferro che stride di un cielo? Vorrà dire
che qualcosa è accaduto, che il tempo si è conficcato
fra un interstizio e l’altro, come un palo inatteso.
Oltre i vetri, c’è un secolo che preme, e urge, e si sfilaccia
in un disordine promiscuo, di cose.

Tra il seme e il tempo necessario, fra l’intenzione
e la pienezza dell’animale, si leva un buio imprevisto,
che non abbiamo conteggiato. Mi domando dov’eri,
quando ho guardato in alto, nel fogliame delle palme.
Dov’ero, quando fu deciso che il vento battesse
anche per noi, prima di ogni scopo,
e di ogni decisione.

Noi, poco prima che gli spalti si svuotino,
a un passo dal traguardo, fissi
sui blocchi di partenza, nel lume
che c’infiammò per sempre, mentre frusciano
tende, nel primo zampettare, fermi,
in quel buio.

 

FEDERICA GIORDANO: In questo meraviglioso poemetto inedito si agita una forza cosmogonica. La percezione del tempo, della forza, del corpo, delle foglie e delle ere si muove in un crogiolo multiforme e fertile della nostra coscienza. Attorno a questo nucleo indefinito, brilla, come avvolto in una primigenia armonia sonora, il mistero dello stare al mondo. Nelle tue poesie, si ha come l’impressione di poter sentire così intimamente l’attaccamento alla terra, tanto da poterne comprendere le ragioni ed il senso. Invece, immancabilmente, la chiarezza di visione sfuma e interrogati da un’apparizione come nel primo testo de Il moto delle cose, non sappiamo dire cosa che valga per coloro che ci guardano. Cosa lasciamo, Giancarlo, a chi ci interroga? Cosa può arrivare di noi al «verbo che si intana»?

 

GIANCARLO PONTIGGIA: Vorrei partire proprio da questo mio testo per entrare nel quesito che poni; e tentare, per una volta, di restituire quel misterioso filo di pensieri e di immagini che la mente segue, quasi all’oscuro di tutto, nel momento in cui tumultuosamente vanno a intrecciarsi e a disporsi quasi magicamente al loro posto, come se esistesse un ordine prefissato cui tendevano.
La poesia ruota tutta intorno al motivo del buio, da cui ha d’altronde inizio, e sul quale finisce: il buio come metafora-immagine della morte, contrapposta a quella del fuoco e della luce, che sono invece emblemi della Fenice (Fenice era il titolo originario di questa poesia). Il buio di cui non sappiamo niente, e su cui si formulano tante ipotesi: la prima strofe si conclude infatti nel ricordo di un dialogo con un lontano interlocutore, giunto alla convinzione che nulla possa esistere dopo che il corpo si è disgregato: l’anima stessa gli appare – come pensava già Lucrezio, sulle orme di Epicuro – come una materia sottile, ma pur sempre materia destinata a esaurirsi. A questa ipotesi, si oppone l’altra, appena accennata nella chiusa della strofe: forse esiste un altro mondo, non sottoposto alle leggi di quello in cui viviamo, al quale la nostra anima aspira.
Le due ipotesi trovano una loro prima forma di rappresentazione nelle immagini su cui si apre la nuova strofe: la porta che si apre, le luci che si spengono. Tra due mondi – e due ipotesi – così in contrasto, chi parla ha come la sensazione che esista una forza misteriosa capace di interferire e di trasmutare (termine del linguaggio alchemico) la sostanza del mondo, e perciò della vita stessa. È qui che s’impone, per la prima volta, l’immagine della Fenice e del suo nido d’oro, dove si compie il miracolo della rinascita.
Ritorna, nella terza strofe, avvolto in un silenzio che non so decifrare, l’interlocutore dell’esordio. La freccia che scheggia il ferro del cielo allude a uno dei più noti paradossi di Zenone, come a indicare la fallacia e l’illusorietà di ciò che appare ai nostri sensi. Come negare che qualcosa possa accadere, e dunque mutare la nostra sorte? Il secolo stesso che stiamo vivendo, pur nella sua congerie informe, nella chiacchiera planetaria che lo sta logorando, sembra nascondere qualcosa di nuovo, contenere una volontà di rinnovamento, una promessa che va ben oltre il suo apparente caos: qui è forse un ricordo dei Saturnia regna di cui parla Virgilio nella IV Ecloga.
La penultima strofe sembra ora procedere per forza argomentativa verso questa speranza: quel buio imprevisto che non abbiamo conteggiato, come il palo inatteso della strofe precedente, sembra fatto di un’altra sostanza rispetto al buio del v. 3. Ancora lo sguardo si volge al nido della Fenice, nascosto in un fogliame di palma. Forse, c’è un punto originario, nella vita di ciascuno di noi, in cui si nasconde una verità decisiva, che ci precede. L’ultima strofe è costruita per schegge visive che si srotolano all’indietro, verso un’origine: la gara si è ormai conclusa, e gli spalti si svuotano; siamo a un passo dal traguardo; poi ai blocchi di partenza, mentre si addensano immagini che ci riportano all’inizio di tutto, della nostra vita, quando ancora zampettavamo sul pavimento di una casa: zampettavamo come la Fenice, forse, nel momento in cui trasforma la sua morte (come il mito racconta) in nuova vita, rigenerandosi. Infine, ecco di nuovo il buio da cui siamo venuti, quando ancora non eravamo, eppure, forse, eravamo, nel gran fermento della vita che pullula, e sembra rivolgersi per una volta proprio a noi, solo a noi.
Non c’è niente di programmato o di premeditato – come d’altronde in tutte le poesie che ho scritto – in questo testo, in cui immagini e pensieri si sono annodati in gran velocità, senza che io sapessi bene, all’inizio, dove volgevano: sapevo solo ciò a cui alludevano, che era poi il motivo
della vita che si rinnova dalle proprie ceneri, su cui fissavo lo sguardo.
Stranamente, ho come avuto la sensazione, mentre andavo scrivendola, che questa dovesse essere la mia ultima poesia, come se mi volesse dire qualcosa che riguardava la mia stessa vita: ma il suo significato poetico – che va sempre ben oltre l’io di chi scrive – è tutto in quelle oscillazioni di sguardi e di pensieri, di contraddizioni e di misteri che si agitano da sempre nell’animo umano.
Qualche giorno dopo, mi è capitato di aggiungere due nuove strofe, che in realtà – se mai dovessi servirmene – costituirebbero una seconda parte, staccata dalla precedente, della poesia. Te le aggiungo:

2

Ci sono anfore, nello scuro dei fondali,
e cavi, chiodi, stroppi, scalmi, tutta
un’attrezzeria dismessa,
priva del bene delle nostre mani:
e l’ombra, che passa, di un naviglio.
È l’ora in cui ci prende
una nostalgia del fuoco, che strema,
e divampa
sui bordi del campo, e non dà riposo.

Sulla cenere, aleggia la memoria
dell’oro che crepitava. Ronza,
nel ventre di una carcassa,
una colonna di fuoco.

Qui lo sguardo si sposta nel buio dei fondali marini, dove i resti insabbiati di qualche naufragio antico, abbandonati a se stessi, privi «del bene delle nostre mani», e dunque inusati, guardano – in attesa di qualche prodigio – «l’ombra, che passa, di un naviglio». Come se anche negli oggetti inanimati covasse un desiderio di vita piena, «una nostalgia del fuoco»: immagine che, per analogia, attiva di nuovo, poco dopo, la memoria della mitica Fenice («la memoria / dell’oro che crepitava»). La conclusione è tutta nel segno di un celebre passo delle “Georgiche”, quello in cui viene evocato il mito della bugonia: un altro mito di rinascita.
Scrivere, per me, ha sempre significato entrare nel mistero delle cose del mondo, ma evitando ogni deriva irrazionalistica: amo (parlo, naturalmente, su un piano ideale, quello delle intenzioni e delle attese) la parola che sa argomentare, la precisione del dettato, la limpidezza delle immagini, i «nomi felici» – felici perché capaci di non abdicare al senso, di dare ordine all’informe del mondo – evocati fin dal mio primo libro. Forse anche per questo il dato culturale – se così posso chiamarlo – ha sempre rivestito tanta importanza nella mia idea di poesia: non programmato, ci tengo ancora a sottolinearlo, ma invocato, benedetto, necessario. La presenza costante, nei miei testi, dei versi o dei pensieri dei grandi maestri del pensiero e della poesia (non importa se antichi o moderni) va a costituire come un orizzonte di senso dentro il frastuono del mondo, nel quale le nostre parole cadrebbero come ami gettati a caso, destinati a perdersi nel vuoto, a non captare nulla, se non godessero di questo dialogo privilegiato, di questa memoria che è in noi prima di noi.
«Cosa lasciamo a chi ci interroga?». Ho molto apprezzato; la finezza con cui poni la domanda: chi ci interroga, nella poesia che dà inizio al “Moto delle cose”, e alla quale alludi, sono le ombre dei trapassati. Forse è vero che la mia poesia, come è stato scritto, è un lungo, ininterrotto dialogo con le ombre, con i genii delle stanze, con la polvere delle strade su cui abbiamo camminato, e dove altri hanno già calcato le loro orme. Sono quelle ombre, quelle voci che ci assediano fin dalla nostra nascita, e non ci danno tregua, a porre le domande decisive. Come nel mondo arcaico greco – alle origini della lirica occidentale –, e ancor più nella grande esperienza dei tragici, la parola sembra oggi caricarsi di una densità semantica in cui pensare e sentire si sovrappongono drammaticamente, dando vita a qualcosa che non è più un solo pensare, pur continuando ad esserlo: perché dentro questo pensiero che sente, e soffre, e si torce, si aprono orizzonti nuovi, nei quali in gioco è il rapporto fra libertà (ma forse dovremmo dire volontà) e necessità, realtà e utopia, umano e divino – comunque si voglia interpretare questa parola. Tragica non è tanto la vita, quanto la consapevolezza di come ogni nostro atto, anche il più vitale, anche il più ragionato, affondi nell’ignoto e nell’enigma delle cose. Entrare nella materia scura del nostro pensare e parlare, e dunque del destino, ma continuando a rivendicare la dignità di un ordine intellettuale, è l’intenzione prima della poesia, almeno per come io la intendo: e se la parola s’intana, se il senso del mistero prevale, se le risposte decisive mancano, non per questo ci arrenderemo alla parola che avvilisce l’animo, alle tentazioni nichiliste di cui s’è imbevuto tanto Novecento.
Per questo la poesia che amiamo più di ogni altra ha in sé qualcosa della sacra rappresentazione; e per questo la sua lingua porta in sé qualcosa di liturgico e di rituale, anche quando precipiti nel magma della materia, della vita cosmica quale ci appare dagli studi contemporanei. Come nel marmo – nell’accezione michelangiolesca della scultura – è già la forma che andavamo cercando, così in ogni domanda della poesia è già non la risposta, ma la forma di una possibile risposta a ciò che ci assilla, e preme, e stride – in noi, come fuori di noi.