Una moneta sulla “strada per Roma”. Su Paolo Volponi

da | Dic 8, 2015

di Franca Mancinelli

Il seme e la moneta sono due immagini care a Paolo Volponi, entrambe legate ad un principio di metamorfosi, ad una riserva di forze. Appartengono a quel microcosmo agreste, in armonia con i cicli della natura, di cui lo scrittore urbinate aveva avuto esperienza nell’infanzia e ancora nel dopoguerra, quando gli «umani campi»[1] del Montefeltro, attraversati dal vento freddo della storia iniziano a spopolarsi, perdendo lentamente la vita. Sono le immagini a cui si può ricondurre la scrittura di Paolo Volponi, almeno fino alla metà degli anni ’60, fino a Le porte dell’Appennino e alla stesura di quello che avrebbe dovuto essere il suo primo romanzo, La strada per Roma. A questa altezza infatti la sua opera in versi e in prosa rientra dentro le motivazioni e le linee di un romanzo di formazione, che andrebbe letto insieme, saltando i tre decenni che separano l’ideazione dalla pubblicazione del romanzo, ripristinando una sorta di cronologia sospesa, interrotta dall’urgenza di Memoriale prima e de La macchina mondiale poi[2]. Al centro di entrambi è infatti la vicenda di una difficile maturazione, di un travagliato avanzamento verso una, per quanto è possibile, chiara immagine di sé, tra lacerazioni, piaghe, paure bianche e fisse, ossessioni erotiche, mostruose immagini paterne, fino allo specchio terso con cui termina Le porte dell’Appennino e in cui si ritrova infine il protagonista de La strada per Roma, in uno dei capitoli conclusivi del romanzo[3]. Per Volponi scrivere ha infatti coinciso innanzitutto con una ricerca di identità, con il tentativo di uscire da un’adolescenza chiusa e bloccata, di stabilire un rapporto con gli altri e con il mondo, fino a riconoscere nel grumo del suo dolore il «seme della sua forza»[4]. La lingua è stata «il suo percorso, la sua affluenza, la sua uscita da sé»[5], la strada che lo ha portato oltre il grembo di Urbino. Il movimento di conoscenza passa infatti sempre attraverso il luogo della sua origine, «paese di una ferita» insanabile. Ne Il giro dei debitori, uno dei poemetti centrali de L’antica moneta, Volponi affronta proprio il tema del richiamo che lo lega ai suoi luoghi e i due opposti modi di corrispondervi. Di questi due possibili moti a ritroso verso l’origine uno, quello che lo tenta e a cui tuttavia resiste, è un cedimento al piacere regressivo, al desiderio di sprofondare nel grembo della terra, l’altro è una tensione che travalica i confini dell’io e porta a un ricongiungimento alle energie del cosmo, ad una liberazione di forze e ad una metamorfosi. È in questa modalità che il soggetto, a conclusione della lirica, può riconoscersi nell’immagine di un seme che “tende a interrarsi e a restituirsi intero” in una morte-rinascita[6]. Attraverso questa fuoriuscita da sé il «debito» che lo legava ad Urbino impedendogli l’uscita dalle mura può essere assolto: ora può seguire il richiamo della sua «nebulosa radice» crescendo, dando frutto. Quest’acquisita consapevolezza è fondamentale per Paolo Volponi; sarà infatti proprio Il giro dei debitori a inaugurare Le porte dell’Appennino, intitolando la sua prima sezione che raccoglie, oltre allo stesso poemetto, altri tre testi del libro precedente. L’immagine che intitola Le porte dell’Appennino rinvia alla possibilità o meno di un futuro al di là dell’ordine chiuso della sua terra, l’Appennino contadino dove il ciclico perpetuarsi della comunità insieme alle stagioni è ormai infranto dalla storia. In altri componimenti l’immagine della porta torna come metafora dell’ingresso nell’esistenza, inteso soprattutto come superamento dei limiti e delle costrizioni corporali attraverso la sessualità (vedi La vita, vv. 46-49 e Il cuore dei due fiumi, vv. 68-79). Le porte dell’Appennino aprono il «diletto recinto»[7] dell’infanzia, delle illusioni di un mondo chiuso, autoreferenziale, ad una maturità lacerata e sofferta raggiunta attraverso il rapporto equilibrato che l’io è riuscito ad instaurare con l’altro, in primis con la donna. La dedica in epigrafe al libro, riprodotta anche nella raccolta Poesie e poemetti del 1980, è «a mia moglie» e, proprio nel segno della sicurezza e della coscienza data dall’amore quotidiano, secondo lo schema tradizionale del romanzo di formazione, si conclude: «nel giro di queste porte / della nostra casa / che io per primo apro la mattina» (Muore la giovinezza, vv. 98-100).

Come l’immagine del seme e della porta, anche quella della moneta è legata a un riaffiorare di forze. Un tema su cui gravitano i motivi del passaggio all’età adulta, del momento in cui “uscire dal proprio vaso”[8] e divenire se stessi. L’immagine guida del secondo libro di Volponi è quella di una luna piena che affiora nel cielo come un’antica moneta dalla terra. Questo magnetico nucleo di luce che governa e presiede le nascite e le semine, risveglia, come nella poesia che intitola il libro, energie primarie che si profondono e fluiscono in una sorta di rito augurale verso la stagione più piena dell’estate. Un «tempo degli inizi», avvolto in una magia contadina, ancestrale, come quello a cui è legata la ragazza de La quinta stagione, «femmina innocente, / fedele a molti uomini» in cui si riconosce la forza di rigenerazione di un’intera civiltà. All’indomani del ’43 è una simile figura femminile a mantenere la fede nella vita, a conservare una misura umana nei giorni della guerra (vedi il poemetto La paura, vv. 272-323).

Ambientato nei primi anni ’50, pensato e progettato da Volponi alla fine di quegli stessi anni, La strada per Roma rielabora, come gran parte delle opere prime, materiale autobiografico, lo stesso da cui nasceva la sua poesia. Il protagonista, Guido, è un ragazzo di poco più di vent’anni, nell’inquieto limite tra giovinezza ed età adulta: un travagliato passaggio che coincide con il difficile distacco dal suo luogo d’origine. Gran parte del romanzo si svolge nel delinearsi di quella strada che porta fuori dal cerchio delle mura di Urbino, oltre un’infanzia prolungata tra le catene e i circoli dell’immaginazione. È possibile seguirne lo svolgimento lungo il tracciato delle strade che lo percorrono: «la strada per Roma» e “le strade di Urbino”, corrispondenti alle prime due parti del romanzo; «la strada per Urbino» alla terza; «la strada di Roma» alla sua conclusione. È in realtà un’unica strada, quella che intitola il romanzo, che il protagonista deve percorrere, prima partendo e fuggendo insieme, poi ritornando e arrivando a conoscere Urbino e le ragioni della partenza, infine giungendo a destinazione, nella realtà di un luogo a lungo vagheggiato e rincorso come l’inizio della vita stessa. Urbino si configura infatti come il luogo della stasi, dell’attesa, dell’impossibilità di agire e di compiere qualcosa se non come prova della propria sicurezza e forza, rito propiziatorio di un’esistenza che si realizzerà soltanto altrove. Il difficile tracciato della strada di Guido passa da una confusa ansia di realizzazione e distinzione dagli altri che lo porta ad immaginare un futuro grandioso quanto vago («Potrei fare l’attore; lo sceneggiatore o il soggettista ma anche l’attore»)[9], alla consapevolezza via via sempre più chiara di quello che sarà il suo destino una volta discussa la tesi. Due prove fondamentali lo aiutano a indirizzare il suo cammino: la conquista di Letizia Cancellieri, la ragazza più ambita della provincia, e la morte del padre che lo lascia solo. Per intraprendere la propria strada, il protagonista deve aprirsi un varco nel velo di nebbia che avvolge Urbino, affrontare la sua immagine segreta, vincere la sua irresistibile forza di attrazione: partire, anche se significa ancora in parte fuggire; da questa acquisita distanza prendere la strada per Urbino, affrontare il rischio del ritorno, di una nostalgia che può infettarlo della stessa malattia che serra la città in una storia trascorsa. La conoscenza di Urbino e la consapevolezza di sé passano attraverso l’ultimo definitivo scontro con la figura paterna: nell’assassinio sfiorato di Venanzi-padre, Guido può finalmente purificarsi dell’odio. Solo allora, liberato della «nemica figura» che gli impediva il distacco, può davvero partire e ritrovarsi sulla «strada di Roma». Nel suo percorso di maturazione Guido è riuscito infine a trasformare il nucleo della sua sofferenza nella sua forza. È questa metamorfosi a renderlo se stesso, a condurlo finalmente di fronte a quell’immagine di sé che ha rincorso in tutto il romanzo, cercandola nello specchio della sua stanza, nelle vetrine vuote, nella figura del suo migliore amico Ettore. I suoi passi nel mondo, all’inizio appesi al filo fragilissimo di una volontà frantumata, come se ogni azione tremasse ancora delle infinite possibilità da cui si è sciolta, riescono infine a trovare un equilibrio tra la fermezza, l’esercizio di sé e l’apertura ai minimi trasalimenti e alle vibrazioni della materia. Nell’attesa impaziente che la vita gli si riveli ponendolo di fronte a se stesso, Guido è infatti completamente affidato all’intensità delle proprie percezioni, tra le altalene delle sue lotte interne e gli andirivieni del suo dolore. A guidarlo è il suo volto nascosto, la parte più vera di sé che attende di affiorare e di crescere. Può intuirla attraverso la sua figura riflessa allo specchio, per Guido sempre fonte di sicurezza e di conforto. Così, prima di uscire nelle strade di Roma, nella stanza d’albergo, di fronte alla sua immagine allo specchio, come per affidarsi alla forza che riconosce già in sé e portarla a compimento: «Questo – pronunciò a se stesso – è tutta la mia speranza e il mio bene». Gran parte dei gesti di Guido sono di natura rituale: obbediscono ad una necessità di rendere le cose favorevoli e benigne, come se la realtà potesse essere plasmata dal suo desiderio. Per questo, oltre che della sua immagine, Guido è alla continua ricerca del contatto con cose che lo rassicurano, come talismani in cui leggere quella verità e attingere quel potere che sta cercando in se stesso: così la buccia del mandarino (p. 17); il tè bevuto nella notte (p. 130); il suo pullover azzurro (p. 136); la pietra di una colonna (p. 161); la bibita sul treno per Roma (p. 291); la felce mossa dal ventilatore (p. 328). Alle cose Guido può affidare il suo destino: i pronostici affidati all’uva della Penna Bianca o ad un sasso lanciato come «pegno» della sua partenza[10], sono altrettante manifestazioni della sua fiducia nella parola capace di creare e determinare la realtà. Una fede radicata nell’infanzia e nel pensiero magico-contadino dei suoi avi; una modalità della percezione e dello sguardo legata ad Urbino, luogo del suo primo contatto con il mondo. Di questo territorio assoluto, soggetto al governo dell’immaginazione, vengono tracciati i confini nel romanzo come di un regno solitario a cui il ragazzo può ancora ritornare, per attingere forza:

quand’era solo, era grande, era Corsalini, di Urbino, partorito dal suo palazzo di Lavagine, duro come quelle pietre che dominava dall’infanzia, che aveva frustato come leoni e spezzato come catene: quelle pietre lucide dei basamenti di due o tre case intorno alla sua e del muretto della fontana Barberina. Da lì erano partite le sue barche e lì erano atterrati i suoi aeroplani, con i motori in fiamme[11].

È infatti a questa risorsa immaginativa che farà ricorso quando si troverà di fronte al cadavere del padre:

Quello della pista era un altro dei suoi giochi intimi, come quello di trasformare il letto in una zattera, la notte in una capanna, il mancorrente della scala nel decollo di un aeroplano. Tutti questi giochi finivano sempre per portarlo a ritrovare una immagine di sé sicura e felice, che nasceva dall’incontro di circostanze soltanto favorevoli[12].

Nel percorso di maturazione di Guido la consapevolezza raggiunta riguardo a questa sua facoltà visionaria è fondamentale. Guido non scrive: attribuirgli anche il dono della scrittura sarebbe stato troppo rischioso per un personaggio già dotato di molti aspetti autobiografici. Ma scrive Ettore, l’amico così fraterno da essere a tratti la sua immagine allo specchio. Nelle sue parole possiamo infatti leggere una dichiarazione di poetica che avrebbe sottoscritto Volponi, in quegli anni in cui accoglieva la lezione di Pasolini e di «Officina», gli anni dei poemetti de Le porte dell’Appennino e dell’ideazione de La strada per Roma: «mi hai detto che mi facevo vincere dalla poesia pessimista del paesaggio. Adesso rompo il paesaggio; lo spezzo per vedere quanto ogni cosa per conto suo vale e se può essere salvata. Bisogna agire con violenza se si vuol capire come si possono trasformare le cose»[13]. Ma anche Guido, pur non scrivendo, è uno scrittore: lo dicono l’intensità delle sue percezioni, il suo analizzare e giudicare ogni cosa «sotto la luce dei suoi dolori»[14], la tendenza a figurarsi la realtà abbandonandosi al flusso dell’immaginazione, anticipando anche, come nella trama di un romanzo, lo svolgersi degli eventi[15]. Questi stessi aspetti che potrebbero essere sintomi di chiusura e di fragilità, si capovolgono nel loro contrario quando, di fronte alla segretaria di cui si era invaghito, Guido improvvisa la dettatura di un improbabile capitolo della sua tesi:

Pensò che cosa era cambiato, anzi come aveva potuto cambiare fino a diventare tacito e sicuro da timido che era; timido da ritagliare le cose reali intorno, vederne solo una parte. Pensò ancora che di fronte alla parte ritagliata era sempre stato come un padrone, che addirittura poteva scegliere la luce, far crescere le piante, far sparire le persone. Era questo il ‘seme’ della sua forza; che sarebbe cresciuta con lui, pensò. Dovette solo prenderne coscienza[16].

Perché questo seme riposto nella potenza immaginativa e creatrice della parola non limiti lo svolgimento del pensiero e si sviluppi fino a compiere quella metamorfosi che lo condurrà oltre la giovinezza, sarà fondamentale il distacco da Urbino, luogo che esercita una tale forza d’attrazione su Guido da condizionarne le percezioni e il linguaggio[17].

UNA MONETA: UN DISCO DI SEME, UN CERCHIO DI LUCE

L’immagine della moneta riaffiora in due momenti fondamentali della formazione di Guido: sul corpo di Letizia Cancellieri e nella sua stanza la prima notte dopo il decesso del padre. Nell’attrazione verso Letizia e nella repulsione verso il padre, Guido vive due aspetti del suo contraddittorio rapporto con Urbino: nella nobile ragazza la soggezione e la malia che esercita il passato glorioso della città, il richiamo antico, senza tempo, del suo caldo e risonante «dolce vaso»[18], nel padre l’immagine della città «chiusa come un pugno» al mutamento, «nemica» di ogni sua aspirazione al distacco e al superamento delle «care / piaghe»[19] infantili. Dalla prima figura Guido dovrà fuggire, la seconda dovrà affrontarla e sconfiggerla.

La bellezza di Letizia Cancellieri appartiene a quella parte della città che vive avvolta in un alone di leggenda: affonda nelle origini di Urbino, dove la realtà confina con la sua idealizzazione, in quel «mare irreale» della nebbia, «da miracolo o da pittura protorinascimentale»[20], da cui Volponi immagina nascere il disegno della città. L’arrivo degli alleati all’indomani della guerra non ha raggiunto il cuore di Urbino, non ne ha cambiato il volto, così come la figura di Letizia, appena incrinata dall’ombra delle voci intorno alle sue relazioni con i soldati. La naturalezza che emana come il personaggio di un dipinto, la distanza che socialmente la divide dal borghese Guido, fanno di Letizia una figura irraggiungibile, la cui realtà resta comunque, anche nella prossimità del contatto, in parte velata e sfuggente. Conquistarla significa per Guido colmare il divario che separa la sua immaginazione dalla realtà, ritrovarsi finalmente «tra le strade vere di Urbino». È questa la sua prima e più importante prova; una fonte di prestigio, di sicurezza, una conferma delle proprie aspirazioni di grandezza nei confronti del destino che lo attende. Ma di una conquista soltanto apparente si tratta: Guido può possedere il corpo di Letizia ma non arrivare a conoscerne il segreto, a raggiungere la sua intima immagine. L’icona della città che si sovrappone alla sua figura, che vive in lei, nel suo stesso corpo[21], la protegge e preserva dall’incontro con Guido, come da quello con la realtà. Guido non può «tirare giù dal quadro» Letizia: è invece lui che, entrando nel suo palazzo e possedendo il suo corpo, non può fare a meno di “entrare a far parte del quadro”, obbedendo a quell’ordine e a quell’armonia che appartengono al suo ambiente. Volponi lascia che sia un’immagine a narrare il momento di maggiore vicinanza della vicenda di Letizia e Guido e insieme l’inizio del loro distacco. Come la giovane donna dipinta sul baule della sua stanza, Letizia è divisa tra due opposte spinte: amare/preservarsi, partire/tornare ma in un senso inverso da Guido (tornata da Roma, teme di non riuscire a ripartire da Urbino). I brevi inserti del suo diario che Volponi intesse nella narrazione rivelano uno sguardo consapevole e distaccato, capace di vedere oltre la recita e le ostentazioni di sicurezza di Guido. In tutto il romanzo l’immagine più indifesa e debole del ragazzo è infatti quella restituita da Letizia: nudo, accanto a lei, le appare senza alcun futuro davanti, senza alcuna strada e «niente altro da mostrare, niente oltre a quello che è adesso»[22].

Nella relazione tra i due giovani resta uno spazio in cui non giunge l’ambizione e la prodezza di Guido, l’esercizio estenuato e accanito di sé che l’ha condotto fin dentro alle stanze del palazzo Cancellieri; un varco che non può colmare la disponibilità di Letizia, la sua accoglienza verso ciò che si muove e accade oltre la cornice, oltre l’incanto a cui è legata la sua figura, come a una vicenda per sempre trascorsa.

Tra l’orto e le stanze passava le sue giornate in attesa di Guido che le piaceva sempre di più. Avrebbe voluto litigarci, ma forse lui non sarebbe stato capace di un giuoco più crudele. Non le riusciva nemmeno di dirgli che poteva amarla fino alla fine, senza ogni volta ritirarsi e abbandonarle ‘la moneta’, un sacchettino d’oro sul ventre o sulle cosce. Non le faceva schifo, anzi poteva anche piacerle quel gruzzoletto splendente e vivo che sbocciava sulla sua pelle, ma le rincresceva di perdere lui, la sua lotta completa. Si rammaricava di non sapere ‘le parole in dialetto’, i sinonimi che certo c’erano per poterglielo dire ridendo e senza vergognarsi. Anche perché lui non diceva una parola e non lasciava nemmeno un gemito; lei sentiva per un momento che gli si piegavano le ginocchia come al giovane del mobile, e poi lo sentiva arcuarsi e scattare, scartarla come se avesse paura di ferirla[23].

La «moneta» che appare sulla pelle di Letizia è connessa al riemergere di una lingua capace di trasmettere le pulsioni e le energie represse: una lingua delle origini, simile ad un verso animale, un mezzo per dare voce alla parte più indicibile e naturale della sua persona che Letizia riconosce nel dialetto[24]. Esserne privata la isola nel suo mondo, non le fornisce le parole che avrebbero potuto permetterle di appartenere a Guido senza riserve. Il loro incontro è già dipinto sul baule della stanza di Letizia, i due giovani non hanno potuto fare altro che rivivere dentro questa antica rappresentazione: nelle movenze e nei gesti di un tempo avvolto in un’aura come di fiaba, in cui lui l’avrebbe salutata con un inchino. Così, subito dopo il brusco distacco da lei l’immagine che rimane nella mente di Guido la mostra «voltata a metà verso di lui»[25] proprio come la giovane donna dipinta sul mobile, divisa tra l’omaggio a un cavaliere e l’attenzione al giovane dalle gambe piegate. Guido fugge nel momento in cui si accorge di non potere raggiungere una verità su Letizia, nel montare crescente di una realtà che non è più capace di trattenere né di distinguere dall’immagine idealizzata che ha guidato la sua impresa. Mentre le voci di precedenti storie con i soldati sembrano concretizzarsi attorno ai silenzi e alle reticenze di lei, in una mossa infantile di finta forza, Guido abbandona la ragazza. Fuggendo salva se stesso dalla sconfitta che avrebbe dovuto riconoscere e salva lei, la sua immagine, dalla corruzione della realtà.

Letizia è la figura femminile più importante del romanzo, quella attorno a cui gravita il desiderio di affermazione e di conoscenza di Guido, l’unica che può fare breccia nel suo narcisismo[26]; l’unica, insieme alla madre morta, capace di risorgere nell’assenza: la qualità della sua persona è così forte e densa di significati che, al contrario di tutte le altre donne in cui la componente erotica e sessuale è dominante nella relazione, può continuare a vivere nella sua immaginazione anche senza corpo. Grazie alla distanza che la sua figura riacquista attraverso il distacco, Letizia può riaffiorare come era apparsa all’inizio, quando Guido e gli amici potevano “respirarne l’aria” e restare a guardare “nient’altro che la speranza di vederla”[27]. Nell’ultima parte del romanzo, quando Guido affronta la realtà estranea di Roma combattendo ancora il richiamo nostalgico di Urbino, la figura di Letizia si rivela nella sua essenza. Il suo fantasma nato tra i vicoli e i palazzi di Urbino resiste oltre le sue mura, riappare proprio come l’immagine della città, purificata dal dolore della distanza. Così al ristorante dove, dopo la sosta al bordello, conforta e corona il suo primo sentimento di familiarità e di padronanza sulle cose: «se fosse entrata la Cancellieri, si sarebbe alzato e si sarebbe inchinato». Così tra le rovine di Ostia percorsa nello stordimento della solitudine e nel tremore di perdersi come se, raggiunto il luogo più lontano da Urbino si trovasse sulla soglia di una prova determinante: «pensò di potere incontrare la Cancellieri, con un vestito rosso e verde, silenziosa e inquieta come un fringuello»[28].

Preservata dalle ombre, purificata da ogni scoria, Letizia può seguirlo come il riverbero di un’immagine della città, un’apparizione benigna che richiama la sua origine, orientandolo, conferendogli forza: quasi una qualità della luce e dell’aria, una componente che accompagna le sue percezioni favorevoli, i momenti in cui ritrova se stesso e in se stesso l’icona di Urbino disciolta come una madre. Non è un caso che, dopo essere fuggito dal suo palazzo, nella confusione tra il desiderio di incontrare Letizia e di continuare a fuggire, tra i moti dell’orgoglio e la necessità di ritrovare conforto, Guido capiti di fronte all’affresco di una madonna col bambino. Il centro della sua storia con Letizia viene così incorniciato tra due immagini: quella raffigurata sul baule e questa ritrovata in un vicolo. Una giovane donna in un rituale cortese e una madre con suo figlio. Due immagini del rapporto tra Guido e Letizia e tra Guido e quella parte di Urbino che vive in lei. Dopo la fuga dalla Cancellieri, la città si mostra infatti «deserta e ostile»[29], come per un maleficio. Guido non può rimanere avvinto dall’incanto senza tempo di Urbino che emana quella ragazza. Quel legame può richiudersi su di lui come una “cancellata”: Letizia, come la sua antica famiglia, è una custode della città, una depositaria della sua anima. Da lei, per trovare la sua strada, non può fare altro che fuggire come si fugge da una madre. E, una volta maturata la sicurezza in sé e la consapevolezza delle proprie forze, come a una madre fare ritorno.

Il padre di Guido è un’altra figura fondamentale de La strada per Roma; non pronuncia una parola in tutto il romanzo ma incombe nella prima parte con tutta la densità e il peso della sua presenza. Un silenzioso inferno quotidiano che si ripresenta al momento dei pasti, l’unico nel quale Guido non può evitare di affrontare il genitore. L’odio feroce che il ragazzo prova nei suoi confronti è un sentimento assoluto, sciolto da ogni motivazione razionale, legato all’esistenza stessa del genitore, percepita dal figlio come una minaccia per la propria vita. La prima comparsa del padre è infatti nel cono d’ombra di un assassinio che l’immaginazione cinematografica di Guido proietta sugli spazi di casa. In questa cena l’attenzione esasperata del ragazzo ai gesti del padre, alle posizioni che assume, agli oggetti con cui viene a contatto, rispondono ad un tentativo di cognizione del proprio dolore, ad una strategia che è insieme conoscitiva e difensiva (contenere l’azione e gli effetti della presenza del padre delimitandone i contorni). Così anche fissare lo sguardo su un dettaglio della sua persona fino a farne una natura morta, a vederlo «come una materia qualunque»[30]. Sono soprattutto le mani del padre ad essere registrate dallo sguardo di Guido, in questo rapporto in cui le parole sono contratte nei gesti, affidate alla fisicità dei corpi, in uno scontro a stento trattenuto. Durante i pasti consumati come una partita a scacchi, Guido non può evitare di sentirsi sconfitto, schiacciato dall’evidenza materiale della figura paterna. Soltanto nella cena che precede la morte del padre, dopo essersi trovato suo malgrado riflesso nei gesti paterni, Guido riesce a rivolgergli la parola e a provare poi, nella sua stanza, «un’ondata di affetto, di intesa»[31].

Due indicatori, all’inizio della seconda parte del romanzo, segnalano che ci troviamo di fronte ad una svolta fondamentale della vicenda: il ritorno alla scena con cui si apre il libro, e la frequenza con cui ricorrono le annotazioni della luce, la più alta in tutta La strada per Roma. La realtà si sta infatti per rivelare al protagonista come mai gli era apparsa prima[32]. Volponi lascia che Guido non colga il messaggio che gli è indirizzato dalla vetrina della Pennabianca a cui, in uno dei suoi rituali propiziatori, aveva legato un segno del suo futuro: i suoi passi vengono guidati come in «un’ipnosi della luce». È il linguaggio della luce a dischiudergli la percezione della realtà strappandolo dalla notte «tutta chiusa» e «ancora intera» in cui era immerso poco prima con Ettore, e immettendolo nella stanza dove giace il cadavere del padre e tutto è «aperto e illuminato». Un brusco passaggio dallo stato infantile alla coscienza, dal buio alla luce, dal chiuso all’aperto, segnato, come ogni nascita, dal pianto. Dopo questo ingresso nella vita adulta Guido dovrà imparare a sostenere anche la luce che spaventa e ferisce, che disvela crudelmente, bucando la nebbia che lo aveva protetto. Ma quello schiudersi di forze che appartiene all’infanzia non lo abbandona. Il giorno del decesso del padre, nel buio della sua stanza, Guido non riesce a ritrovare quella confidenza con se stesso e con il proprio corpo attraverso cui abbandonarsi al sonno; un nucleo di luce benigno e familiare lo guida ad affidarsi al movimento del suo respiro, a ritrovarsi per potersi perdere: «L’aiutava una striscia di luce che veniva dalla porta e che andava a disporsi contro le gambe dell’armadio e del tavolo. Lo specchio dell’armadio in basso ne rifrangeva un disco compatto e spento come una ‛moneta’»[33].

Con la scomparsa del padre si spegne anche parte del legame che teneva Guido avvinto alla sua origine. Liberandosi del suo cappotto il ragazzo sente infatti di rendere «le spoglie di Urbino»[34]. E non è un caso che, nel momento in cui sconfigge attraverso Venanzi ciò che sopravvive alla morte del genitore, il suo pensiero proietti un’immagine di distruzione della città, il Palazzo Ducale che crolla[35]. Insieme a quell’odiata figura di Urbino sta per cadere l’ultimo frammento della sua giovinezza, come presagisce, quasi in un riflesso di Guido, il suo compagno Ettore[36].

Tornando nella sua città Guido ha affrontato anche il rischio di «riportarsi via un ‘seme’ nascosto che non sarebbe mai seccato»[37]: ha purificato la sua nostalgia, l’ha liberata dai pericoli della regressione, del richiamo di un ordine chiuso. Di Urbino può restare ora un’icona luminosa, di un’origine che può essere «una parte della sua forza»[38]. La notte prima della sua, questa volta decisiva partenza per Roma, nel buio della sua stanza torna un cerchio di luce a catturare la sua attenzione.

Spense la luce del soffitto guardando il cerchio annullarsi e sparire come una materia che si dissolvesse, che cambiasse stato assorbita nel posto in cui era, appena riscaldandone il tono. Andò a spegnere la luce sul tavolo: al buio ebbe l’impressione che il cerchio vivesse ancora, come una forza benigna[39].

Per il protagonista il ritorno di questo cerchio ha il significato di un’eredità: ciò che resta di Urbino e della sua infanzia, ciò che rimane di quel suo particolare modo di percepire le cose, all’interno di una catena di interpretazioni e di segni. Ora potrà equilibrare questa sua tendenza visionaria con la coscienza delle cose, rendendola una risorsa fondamentale del suo pensiero, un’infinita riserva a cui attingere. E insieme a lui quella parte di Paolo Volponi che attraverso la scrittura di questo romanzo ha vissuto e rivissuto in Guido, accogliendo e trasformando il frutto della sua prima stagione poetica.



[1] P. Volponi, L’Appennino contadino, v. 700 in Id., Poesie 1946-1994, a cura di E. Zinato, Einaudi, Torino 2001, p. 143.

[2] Per la cronologia e altre questioni relative all’ideazione, alla stesura e alla pubblicazione de La strada per Roma vedi Commenti e apparati in P. Volponi, Romanzi e prose, vol. I, a cura di E. Zinato, Einaudi, Torino 2002, pp. 821-822, e la nota d’autore introduttiva a La strada per Roma, Einaudi, Torino 1991.

[3] Cfr. il pometto Muore la giovinezza in P. Volponi, Poesie, cit. p. 144-146, in part. vv. 73-94, e La strada per Roma, cit., pp. 369-370.

[4] P. Volponi, La strada per Roma, cit., p. 196.

[5] Così Paolo Volponi a proposito della sua traduzione della Lisistrata di Aristofane in A lezione da Paolo Volponi, «Poesia», n. 2, 1988, p. 8.

[6] Per la metafora del seme nell’opera di Volponi vedi E. Zinato, Introduzione a P. Volponi, Poesie, cit., p. XVI.

[7] P. Volponi, L’uomo è cacciatore, in Id., Poesie, cit. p. 14, v. 139.

[8] Vedi Il lanciatore di giavellotto, Einaudi, Torino 1981, p. 59.

[9] La strada per Roma, cit., p. 14.

[10] Citazioni e riferimenti da p. 6 e da p. 242 del romanzo; vedi inoltre p. 338. Cfr. anche Il lanciatore di giavellotto, cit., p. 87.

[11] Ivi, p. 91.

[12] Ivi, p. 161.

[13] Ivi, p. 277.

[14] Ivi, p. 258.

[15] Vedi ad esempio il ritorno ad Urbino, p. 382.

[16] Ivi, p. 196.

[17] Per le considerazioni di Guido riguardo a questo tema vedi pp. 330, 338, 396, 417. A questo proposito Enrico Capodaglio ha notato come, «una volta partito Guido da Urbino, nella terza parte, le metafore si diradino»; vedi La qualità storica della luce. La strada per Roma di Paolo Volponi, in E. Capodaglio, Il volto chiaro. Storie critiche del ’900 italiano, Marsilio, Venezia 2003, p. 161.

[18] P. Volponi, Cantonate di Urbino, Besa, Lecce 1998, p. 31.

[19] P. Volponi, Le mura di Urbino, in Id., Poesie, cit., p. 105.

[20] P. Volponi, Cantonate di Urbino, cit., p. 11.

[21] Vedi a p. 60 la descrizione della ragazza in cui affiorano elementi architettonici: «nell’ordine sicuro degli occhi, delle ‘arcate’, dei seni, dei capelli, delle ‘mura’, di lei»; e a p. 11 il paragone con l’angelo del Duomo.

[22] Ivi, p. 121.

[23] Ivi, p. 123.

[24] Per un analogo ricorso al dialetto come lingua dell’inesprimibile e del represso vedi Il lanciatore di giavellotto, cit., p. 58.

[25] P. Volponi, La strada per Roma, cit., p. 126.

[26] Per il rapporto di Guido con il femminile e con l’esperienza dell’eros vedi in part. p. 25.

[27] Ivi, p. 10 e p. 11.

[28] Ivi, p. 327 e p. 333. Per un’analoga apparizione di Letizia vedi anche p. 195.

[29] Ivi, p. 128.

[30] Ivi, p. 16.

[31] Ivi, p. 144.

[32] Per l’incidenza e il significato della luce nel romanzo vedi E. Capodaglio, La qualità storica della luce, cit., in part. pp. 155-158.

[33] P. Volponi, La strada per Roma, cit., p. 157.

[34] Ivi, p. 170.

[35] Anche Roma gli è apparsa «inclinata come se davvero stesse per cadere», la prima notte trascorsa in città, nel momento di maggiore crisi; vedi p. 298.

[36] Ivi, p. 409.

[37] Ivi, p. 386.

[38] Ivi, p. 369.

[39] Ivi, p. 417.