Un quaderno per sette poeti

da | Giu 4, 2015

Nella Premessa al XII° Quaderno di poesia italiana contemporanea sfornato dalla  efficiente officina di giovani talenti attiva ormai da 24 anni , Franco Buffoni avanza una curiosa, ma non improbabile ipotesi. E se il grande poeta italiano del XXI° secolo scaturisse da quel popolo di immigrati che ormai da generazioni abita la vetusta casa della lingua italiana?  Italo Calvino all’inizio degli anni Sessanta, di fronte agli eccessi consumistici di una modernità satolla ed euforica, suggeriva la “sfida al labirinto” come unica strategia da opporre alla deprecabile “resa” a una situazione già allora ingovernabile. Ma siamo assai lontani da quel clima e da quelle epoche. Di fronte alle migliaia di “esordienti” sollecitati a scrivere almeno una poesia da un incauto bando promosso dal Salone del Libro appena concluso, la partita sembrerebbe persa, la sfida patetica e la resa inevitabile. E’ come se, abbandonati a noi stessi, non ci restasse che il brivido asfittico di brevi incursioni nella “caccia” alla parola, per dirla con l’ultimo, apocalittico Caproni. Ma una nuova antologia di sette poeti chiamati a presentarsi con una silloge che sfiora la mole di un vero e proprio libro e che un poeta più grande, almeno di età, o un critico che abbia già dimostrato altrove il suo valore, introduce con impegno e talvolta con passione, è più che una scommessa. E’ una manifestazione di ottimismo. Eppure, anche tra i promotori di un’impresa tutt’altro che banale come questa, il tarlo sotterraneo della sfiducia rosicchia l’asse su cui si regge l’edificio. E, in coda al libro, ci imbattiamo in una curiosa invettiva di Gian Ruggero Manzoni contro la nostra “giovane poesia nazionale” accusata di  scarsa originalità, epigonismo dilagante, asfittico vissuto e fastidiosa tendenza al lamento autistico. E’ pur vero che da questi ciclici malanni Manzoni salva il “suo” poeta,  il più giovane del gruppo, Samir Galal Mohamed, in qualche modo protetto dalla sua “voce meticcia”, collocata, non più ai margini, ma sul confine tra una cultura e l’altra. Io direi piuttosto sospesa tra un certo suo modo innocente di coniugare una primaria vocazione al dissenso e una più scontata voltura generazionale di temi a noi ben noti. Quando Samir dice “noi”, pronunciando il pronome tipico della poesia civile cui siamo abituati nell’uso della nostra tradizione,  nei suoi versi riecheggiano  sconosciuti passati e indocili profezie siglate da altre stirpi, religioni, imperi mancati. “Noi siamo il Creatore. Siamo/ i nostri figli, obbligati, i soli […] Trafugati// da chissà quale isola del vuoto”. Quanto ai malumori del suo prefatore nei confronti dei nostri poeti nazionali, vorrei ricordare che  Luciano Anceschi, più di mezzo secolo fa, introducendo i poeti della linea lombarda affermava candidamente che dopo i suoi “lirici nuovi” del ’42, poeti nuovi non sarebbe stato davvero facile trovarne in Italia. Al massimo: “nuovi poeti”. Dunque, tra i sette nuovi poeti di questo Quaderno – nell’ordine Maddalena Bergamin, Maria Borio, Lorenzo Carlucci, Diego Conticello, Marco Corsi, Alessandro De Santis e il già citato Samir – non mi pare che fra di loro intercorra qualcosa che giustifichi un movimento identitario, una poetica comune, un’esperienza di vita che ne possa omologare le sensibilità, per così dire, linguistiche ed espressive. Tutt’altro.

Anche perché la selezione effettuata dal Comitato di lettura dei Quaderni allinea questi poeti nello stesso scaffale, ma già a monte situa alcuni di loro in una collocazione asimmetrica e così sbilanciata da eliminare la possibilità di un confronto. Questo vale per Lorenzo Carlucci e  Alessandro De Santis, nati per curiosa coincidenza entrambi il 13 agosto del 1976 ed entrambi considerati dal curatore, poeti dalla fisionomia così ben definita che sarà la loro presenza a dar lustro al Quaderno e non viceversa. E non c’è dubbio che Carlucci, mentre il suo casuale coetaneo De Santis, noto anche come narratore, staziona in una quieta polifonia che “avviluppa” la nitida visività del paesaggio metropolitano, senza sconvolgerne mai le fondamenta, procedendo fra “mura amiche” e poeti amabili come Sbarbaro e Caproni, Carlucci dicevo, anche a una prima lettura, intimidisce l’ambiente circostante dei suoi lettori e lo tacita. E le sue Prose per Ba’al non possono non essere notate, destando ammirazione e insieme una qual certa apprensione. Già la sua formazione, fermentata fra varie parti del mondo, in un corto circuito scoccato fra logica matematica, filosofia, informatica, critica d’arte e poesia, è a dir poco un indiscutibile hapax della contemporaneità più spinta. Per di più il suo prefatore, Stefano Dal Bianco, che io ricordavo pacato e riflessivo in tutto ciò che almeno ho avuto la buona sorte di leggere, in questo caso rinuncia a ogni moderazione e perde la testa per il suo poeta. O meglio  per le sue prose intarsiate di endecasillabi e novenari, per le sue fonti “insicure”, i suoi orizzonti nomadi, “disancorati”  e la sua poetica di sperimentatore dell’estremo. E ci getta  una quantità di fili che stranamente non si ammassano, ma vorticano in una folle cogestione: dalla teurgia dei demoni malvagi alla postura dell’astratto, dal maledettismo al canto,  da  Zanzotto a Penna. E così via. A me vien da dire che Carlucci è tutt’altro che  un poeta illeggibile, come i suoi rinnegati vecchi cugini dell’avanguardia, ma che non si può, anzi non si deve rileggere, perché tutto ciò che manda a dire arriva subito a destinazione. In fronte, in cuore o nel corpo offeso, siamo ne immediatamente colpiti nell’istante dell’ascolto, interiore o estraniato, parlato o cantato, conta poco. E’ un action thinking, proprio sul modello dell’action painting, ma più astratto che espressione, un tutto pieno che ci risucchia e ci svuota. Un “mondo pensile” come dice benissimo Dal Bianco. E meschina è la figura che fa, chi magari ci respira male, chi chiude gli occhi per sognare invano una impossibile presa a terra. In ogni caso con Carlucci siamo al di là di ogni plurilinguismo e ovviamente di ogni pluristilismo, come capitò del resto  a Calvino, trovandosi alle prese con l’ austerità, per così dire, terminale del signor Palomar. Ma è proprio il caso di dire che nei nostri orizzonti imperiali mai nulla sorge e mai nulla tramonta e con rinnovata simpatia ci intratteniamo con il riscoperto barocco  di Diego Conticello che persiste con i suoi avi a interrogare “le radici del senso”, a inscatolare in prospettiva la sua “sicilitudine”, rispettandone i predecessori, certamente Consolo, ma più di ogni altro forse , l’ostinata cucina stregonesca con cui Iolanda Insana spezia ormai da decenni tranche di grecità, dialetto e deformante vocazione alla metamorfosi ovidiana.

Passando oltre, ha ragione Fabio Pusterla, quando per Maddalena Bergamin rinvia a illustri rimandi montaliani. E, l’altra donna della schiera, Maria Borio, addirittura si autodenuncia in un titolo che è tutto un programma: Improvviso ritorno al tu. Si tratta infatti di due poete colte e la seconda è anche una raffinata studiosa di Sereni e altro. Eppure io nutro la percezione, un po’ sotterranea, che in nessuna delle due manchi la coscienza della sofferenza e della fierezza che induceva Pasolini a considerarsi un manierista e non per questo un meno grande poeta, un sublime artefice di commossi e stravolti tableaux vivants. Penso alle celebri crocifissioni degli adorati Pontormo o Rosso Fiorentino che ricostruiva con lo sguardo raddoppiato dall’occhio della macchina fisso sulle croci della Ricotta. Ho insomma l’impressione che i versi nervosi di Bergamin, le piccole esplosioni di nomi insorti e lasciati cadere con finta sbadataggine, ma raccattati e salvati un attimo prima che tocchino terra in frantumi (“La madre è eguale alla figlia/ sul fondo lo sfondo urbano, che strano/ la madre è eguale alla figlia! ”) ci parlino di qualcosa che ancora non conosciamo bene. E che  dovremo pazientare fino a che questa insidiosa viaggiatrice del nostro presente stato di postumi, raggiunga nel macroscopico dire di tutta la raccolta, la parola giusta che darà il là infine a una estraniata immedesimazione. A forza di guardarsi vivere, senza precedentemente volersi necessariamente capire, ci contagia, ci stuzzica, ci fa tornar voglia a muoverci nel mondo, con l’energia dei neo-nati nel cuore della crisi. Un suo titolo, per esempio, quanto mai astratto, Lo sbalzo, la linea, ci torna assai utile. E’ come se lo spazio letterario messo a nostra disposizione sia rappresentato da una linea, da cui i sensi, i sentimenti e i significati versificati, a tratti si sporgono verso di noi, come in uno sbalzo appunto, avventurandosi ora sopra, ora sotto, quella linea immaginaria e imperdibile. Maria Borio, per esempio, vi si tiene ben attaccata, con la fatica della dignità e della fedeltà, a quel filo in cui le pare tutto il mondo converga. Non il suo, lirico e individuale, ma il mondo creato all’insaputa di lei che, nonostante ogni presumibile ostilità, le ispiri  però la voglia di quella stupenda armonia, omericamente rappresentata in una bellissima epigrafe, coincidente con la sana connessione dei tronchi di una zattera. Finché quegli assi tengono, lei ci sarà, e resterà, secondo l’insegnamento del suo maestro Sereni,  nei paraggi della poesia. Così, questa apparentemente fragile e pacata creatura raccoglie prove, istante dopo istante, con la forza di chi intuisce che nel mondo latente che ci è stato messo a disposizione, cresce anche il seme di una pietas non prevista nel suo codice, per così dire, terrestre. “Siamo cose leggere/ che sillabano e vivono. / Ma voglio afferrare ogni parola/ come i rami di un albero/ che ancora vive a metà/ e l’altra metà è morta/ ed è a un balzo/ tra me e la finestra”.

Chiuderò questa rassegna che mi pare troppo breve e troppo lunga con il poeta meno decifrabile del Quaderno e non certo tra i meno affascinanti. Mi riferisco a Marco Corsi, che ci intrappola subito nel retino di un titolo che sembrerebbe referenziale, corporale, comunitario e invece non lo è affatto: Da un uomo a un altro uomo. In Corsi, esiste nei cambiamenti a vista delle sue tematiche, nelle deviazioni controllate ma incontrollabili dei suoi titoli, delle sue eleganti riscritture (vedi, da Joyce, la strenua, misurata commozione delle stremate prosette di qualcosa che sembra la neve) esiste dunque e resiste un gioco tenero e perverso intavolato con un interlocutore, più presunto che reale, forse. Ma chi lo sa veramente? Intuiamo un non volere essere trovato mai dove veramente duole la ferita inferta dalla vita non ancora vissuta e, per la pena del contrappasso, un volere a tutti i costi essere snidato negli anfratti dei  propri accattivanti nascondigli. Molto ci aiuta a capire la ritmica necessaria a questo continuo depistaggio l’ottimo saggio di Niccolò Scaffai che ne affianca il cammino, pazientemente, sin dal suo primo esordio, L’inverno del geco, aderendo al tema centrale della relazione fra il soggetto e gli altri che riempiono nel loro formicolìo di creature, un’astratta concezione dell’Altro che a Corsi non appartiene affatto. E scoprendone la transizione e la transitorietà, senza alcuna violenza o sovrapposizione interpretativa, arriva a enuclearne il registro non solo ironico, ma apertamente comico della sua intonazione di fondo. E Corsi è, fra i sette poeti, diciamolo, l’unico che si permetta la sottile cattiveria di una simile beffarda messa in scena. “Da un uomo a un altro uomo” forse segna con paleontologica diffrazione il passaggio che il tempo ci impone, istante dopo istante della nostra esistenza, da uno stato all’altro, riconducendoci al nostro destino di non essere mai soltanto e veramente noi stessi.

Si può leggere una piccola antologia del XII Quaderno italiano di poesia contemporanea Marcos y Marcos qui

Immagine: Susan Hiller, Night Waves, 2009.