Tracy K. Smith, Garden of Eden

da | Ott 10, 2019

Quattro poesie, nella traduzione inedita di Giovanni Parrini, da Wade in the Water di Tracy K. Smith.

Garden of Eden

Che nostalgia profonda
provo proprio in questo attimo particolare
per Garden of Eden
in via Montague
dove di rado andavo a fare spesa
dopo la terapia, solitamente
e il braccio mi doleva nella piega del gomito
per la borsa strapiena. Dolci lucidi!
melograni, diosperi, cotogne!
Una volta, una borsata di lenticchie Black Beluga
cadde e lasciò dietro di me una scia
mentre ero alla ricerca di un sorso di tea
che rifiutarono di portarmi.
Era Brooklyn, erano i miei trent’anni.
Tutti quelli che conoscevo
vivevano una stessa desolante lussuria
tutti colpevoli delle stesse cose:
innocenza e riservatezza. Trascinavo
a casa le borse di carta,
facendo il punto sul mio conto in banca e contando giornate.
Guardavo incerta
oppure, a occhi chiusi, lasciavo che mi colpisse dritto in faccia
il tramonto del solito sole
su una stagione che stava sorgendo in me.

*

Angeli

Erano in due che si catapultarono in mezzo alle sedie
una volta che fui nella mia camera al motel. Brizzolati
tuta di pelle da ciclista addosso
messaggeri di quanto era opportuno che vedessi.

Mi sfiniva un orribile dolore.
Contorsioni, un subbuglio nelle viscere.
Mentre dormivo si erano seduti là, al tavolo.
Li sentivo con un mazzo di carte da gioco.

Pensando al loro odore
ciò che mi torna in mente è la benzina, il rum.
E quando parlavano, sebbene non potessi,
non osassi guardare
con un’occhiata vidi che uno aveva denti corrosi fino alla radice.
Il che mi fa sperare che potrebbero proprio essere teppisti
giovani, asciutti, ruvidi

che saltano e piroettano con grazia sinistra,
e fanno tremare già solo con la voce le anime deboli.
– Tremate, allora, stupidi, e sparite!
– A quale Dio pensate che obbediamo?

Pensa al duro lavoro che dobbiamo costargli,
precisamente in scala con l’eternità.
E tuttavia arrivano, dicendoci
attraverso le età, di non temere.

Proprio quei due che una volta e mai più
per me da allora, sebbene ci siano
– ci sono? –
avvistamenti, brillii, accenni:

un fiero albero nel sole vivido,
con i rami che ondeggiano nel vento impetuoso. Pioggia
che si avventa sul tetto. Massi
accumuli di terra presi per cervi morti

leoni quatti. Un tubo arrugginito
cui una volta s’appoggiava una casa
che se ci passo, ogni volta lo scambio per un gufo.
Luminosa attrazione così fatale e prossima.

Mia mamma si sedeva, parlandogli pianissimo
nei suoi ultimi giorni
mentre tutte le stanze della casa
le riempiva la notte.

*

Regione collinare

Scende dalle colline, lui
da ruvide rocce, da arbusti, da querce ossute
da riarsi ginepri. Giù da nuvole panciute
e da ventri di falchi, dai Caracara a caccia di carcasse
dal chiaro, accecante, silenzio che l’avvolge.
Dal giaciglio di tavole smangiate, fuori dalla capanna
dove va a ritirarsi in solitudine, con le sue domande.
Scende, apparendo sulla strada, Dio
coi finestrini abbassati, così i rami
e i pampini pendenti possono schiaffeggiarlo
graffiarlo nella sua jeep. Viene giù
fino a un cervo caduto in una trappola per cinghiali
che scalcia e si solleva, insanguinato
accecato dalla zaffata della sua stessa morte
che Dio ‒ sia ringraziato – sospende. Lui rallenta
attraversa minuscoli rigagnoli del fiume
che ancora a maggio scorso levigava le pareti del canyon
cullandole. Va via. Cammina lungo le calcaree rive
cactus, piante di ricino
fra gli escrementi dell’ultima notte dei coyote. Laggiù
fra le colline, dà un’occhiata nell’ombra: albero sostiene albero.
Lo sguardo penetra profondità buie
non annoiandosi di decifrare
cosa ci si nasconde. Due libellule
compagne di volo. Fiorellini erompono in un tripudio di colori
ai suoi piedi. Se tenta ‒ se si concentra e lo vuole –
crede quasi a qualcosa di grande più di lui
che riordini l’aria. Guarda strizzando gli occhi la jeep abbacinante
nel chiarore del sole. Per un attimo, fissa i motivi
che alti rami distendono sul rovescio delle foglie.
Poi, Dio si arrampica di nuovo fino alla sua capanna
tornando onnipresenza.

*

Mortalmente

Il sacro pensa Tigre
poi osserva quella cosa
torcersi, girarsi, suddividersi,
uscire barcollando dal mare per ergersi sulle zampe
e lacerare il fianco
della fulminea gazzella.
Il sacro pensa Uomo
e testimonia le armate di alberi
e ogni nazione delle bestie
e il furioso ampio oceano
e lo squasso delle epoche di roccia.

 

Tracy K. Smith, nata a Fallmouth, in Massachussets, nel 1972 e cresciuta a Fairfield, in California, è una delle voci più commosse e autorevoli della letteratura americana contemporanea. Prima di Wade in the water, ha scritto tre libri di poesia, The Body’s Question (Graywolf Press, 2003), vincitore del premio Cave Canem; Duende (Graywolf Press, 2007), con cui ha vinto il Premio James Laughlin e Life on Mars (Graywokf Press, 2011), per il quale ha ricevuto il Premio Pulitzer; nel 2012 Smith è anche autrice del romanzo Ordinary Light (Alfred A. Knopf, 2015) finalista al National Book Award. Altri riconoscimenti includono l’attività di borsista presso il Centro di Scrittura Creativa “Wallace Stegner” della Stanford University, il Rona Jaffe Foundation Writers’ Award, il Whiting Writer’s Award e il riconoscimento quale socio della Academy of American Poets. Nel 2017, l’autrice è stata insignita del titolo di Cinquantaduesimo Poeta Laureato degli Stati Uniti. Tracy Smith è docente di discipline umanistiche presso il Roger S. Berlind, e direttore e professore del Centro di Scrittura Creativa dell’Università di Princeton – New Jersey – città dove vive con la sua famiglia. Una raccolta completa di tutte le sue opere uscirà presso l’editore Penguin Books, nel corso del 2019.

Immagine: Tracy K. Smith, ritratto di Rachel Eliza Griffiths.