Tempo riflesso

da | Lug 6, 2018

Alcune poesie da Tempo riflesso di Corrado Benigni (Interlinea, 2018), accompagnate da una nota critica di Enzo Rega.

Prospettiva

Sospendete per un attimo il giudizio, leggete
tra le righe di questo sonno. Troppa vita
è sepolta sotto falso nome.
L’avanzare muto di un albero,
l’acqua che si gela e torna acqua.
Scavate sotto lo spessore delle voci, lì
dove l’effetto è senza causa e il caso
disegna le traiettorie del destino.
Il tempo è un rarefarsi in forma di persone
e uno sconosciuto chiederà l’ora all’angolo della strada.
La parola intanto cerca di afferrare
la profondità della fuga,
come in una prospettiva.
Ma un miraggio sigilla la visione,
questa gravità che non trattiene. E ci tiene.

Meridiana

Si dovrà pur far ordine
in questo ordine che è il tempo,
ricongiungendo la trama alle parole
i semi alla radice,
regolare il respiro a qualcosa
che respiro non è, riallineare
la polvere a questa superficie.
Luce e meridiana,
non c’è precisione senza rotazione,
non c’è allarme prima della fine.
Il movimento fisso delle stelle
è la sola perfezione,
mentre una chiave oscilla nell’attesa.

Come una lente rovesciata

Come una lente rovesciata
il passato ci mette a fuoco.
La mano che ha preso, quella che ha lasciato,
i nomi incisi sulla corteccia.
Nel ricordo tutto lentamente si trasforma
diventando te, mentre il tempo agisce,
fabbro infaticabile.
Segui le tracce delle radici
che a ritroso ci risalgono,
voci chiedono di tornare alla vita
come in Omero le ombre.
Perché a nostra insaputa,
quello che è stato ci vede.

In nome di che?

In nome di che cosa scriviamo
e cerchiamo nella parola una scintilla?
In nome di che cosa i pianeti ruotano
intorno a orbite fisse
e un’attesa ci fa dire: più in là?
Non possiamo parlare in nome della verità,
ma possiamo dire il vero, custodire una voce,
mentre le radici diventano alberi
e gli alberi case per insetti.
Lasciatemi tempo, dicevo da bambino.
Ora dico: occhi e mani, quello che resta della luce
di una promessa,
mentre il futuro si restringe a perdita d’occhio.
Scrivo da qui e a qualcuno. Finalmente.
Il luogo non conta.

Particelle elementari

Ci sono attese ferme da millenni e mani tese verso uno spavento già accaduto, luci di costellazioni lontane che arrivano a noi soltanto ora. Una cecità rende tutto più visibile. Affida all’intermittenza della parola la perfezione umana della vista, seguire il movimento che non si vede ed esiste. Il buio che precede la luce, le particelle elementari della polvere dove qualcosa pare esserci. Intervalli e cadenze, tutto segue un ritmo, una sequenza invisibile. Sta a noi, mappe nel vento che nessuna mano trattiene, trovare l’assetto.

Condominio

Fuori dalla finestra, un uomo lavora, un altro cammina solo, ombre si allungano e chiedono pietà tra le facce mute dei passanti. Osservo da lontano. Al piano di sopra il televisore acceso fa compagnia all’anziano inquilino, mentre una mano chiude il portone alle spalle, la corsa dei bambini lungo le scale, il loro vociare sempre più vicino…È giorno. È notte. Interno, esterno. Dove finisce la mia vita? Dove continua la loro?

Superfici

Sono superfici quelle che vedo, superfici in alto e in basso, contrasti che hanno bisogno l’uno dell’altro: materia e parola, pietra e vento, innocenza, errore. Solo il buio definisce davvero la luce e il colore diventa cielo quando c’è una terra, come in un quadro di Rothko il rosso diventa più rosso se osservo la fascia inferiore più scura. Così ora io sono il volto di mio padre e in me i suoi anni prendono la forma di un albero, radici che tornano a farsi voce tra le parole.

Specchio concavo

Nelle forme più basse della vita
o dentro le mappe stellari dell’universo,
la sabbia che nel fuoco prende la forma del vetro
la radice che affonda in cerca d’acqua,
c’è un inizio che sempre si ripete.
Ovunque andiamo, siamo qui,
algoritmi di respiro e polvere –
il tempo ci riflette come in uno specchio concavo.

***

Nota critica di Enzo Rega

Un libro di poesia dallo spessore filosofico, una poesia che si fa filosofia restando poesia. La conciliazione riuscita di due ambiti che taluni considerano opposti. Una riflessione poetico-filosofica su un tema cruciale della letteratura e del pensiero, il tempo, come il libro precedente, Tribunale della mente, era una riflessione sulla verità e sulla colpa. Il titolo del libro già indica, rovesciando l’ordine delle parole, che di una riflessione sul tempo si tratta. E ci dice ancora che quella tra poesia e filosofia non è l’unica coincidentia oppositorum in questo libro ossimorico nel suo stesso svolgimento. In Tempo riflesso, infatti, troviamo spazializzato, reificato qualcosa d’impalpabile, come il tempo, che appare come tradotto in un’immagine. E “apparire” non è verbo casuale. Apparenze è il titolo dell’ultima delle tre sezioni, quella dedicata – sulla scorta di un esergo da Walter Benjamin – al rapporto tra l’immagine fotografica e il tempo, il tempo futuro in essa già contenuta: Immagine di immagini s’intitola un testo della raccolta. Ma già il primo testo della prima sezione, ossimoricamente intitolata Pietre vive, spazializza il tempo e le parti del libro ristanno insieme come le cose del mondo pur nel precipitare del tempo. Il primo testo non a caso si intitola Prospettiva e negli ultimi versi leggiamo: “La parola intanto cerca di afferrare la profondità della fuga, / come in una prospettiva. / Ma in un miraggio sigilla la visione, / questa gravità che non trattiene. / E ci tiene” (p. 7). Ebbene, questo inizio contiene il tutto, così come dice Benigni dell’inizio del tempo e di ogni suo istante, che riassume il passato e contiene i semi del futuro.

Ma torniamo allo spazio/tempo, nel quale kantianamente, lo spazio è senso esterno e il tempo è senso interno: noi non possiamo conoscere, dice Kant, se non spazializzando e temporalizzando, e ciò avviene contemporaneamente nella percezione. Ma questi versi ci dicono ancora qualcosa dell’intero libro. Il compito delle parole, come quello delle immagini fotografiche, e di quella fotografia interiore che è la memoria, di tenerci pur all’interno di quella gravità che non ci trattiene. Esse – parole, immagini – sono il tempo riflesso, o come anche viene detto, il “tempo rappreso”. Sono le pietre vive, e la pietra, il sasso, sono ciò che nel tempo permane pur levigati dal tempo, come gli alberi che del tempo sono l’immagine verticalizzata.

Pietre vive. Un ossimoro eracliteo e parmenideo. La pietra è l’essere parmenideo che Heidegger, che ricordiamo ha scritto Essere e tempo, ha conciliato con il divenire di Eraclito, nel quale, ed è Eraclito stesso a dirlo, tutto si tiene perché gli opposti sono legati tra loro. In questa prima poesia leggiamo ancora: “Scavate sotto lo spessore delle voci, lì / dove l’effetto è senza causa e il caso disegna le traiettorie del destino. / Il tempo è un rarefarsi in forma di persone /: e uno sconosciuto chiederà l’ora all’angolo della strada”. Altrove invece leggiamo che il tempo si condensa, si riflette nelle persone: il tempo mentre ci scrive, ci cancella.

E se qui è la dimensione del Chaos a profilarsi, altrove è il Nomos – ambedue i termini greci danno il titolo a dei testi qui raccolti. È anche ciò che suggerisce il termine “destino” che dissona con il caso in quanto qualcosa di implicitamente prescritto. Il Nomos sembra allora il Logos di Eraclito come legge del divenire, come se il caso avesse pure qualcosa che sottotraccia lo orienti. Nella visione di Benigni sembra quasi di scorgere l’azione di un Karma sia individuale, perché noi diventiamo sulla spinta di ciò che siamo stati – Pavese nel suo diario scriveva che gli errori che abbiamo fatto servono solo a sapere gli errori che rifaremo – sia sovraindividuale, trascendente rispetto all’individuo – e l’autore in un testo ritrova nel suo volto quello del padre: ma questo Karma universale riguarda il rapporto di tutte le cose tra loro. Sembra di trovarsi di fronte a una concezione cosmologica orientale – che in Occidente si declina nel pensiero di Schopenhauer o di Nietzsche, ma anche di Giordano Bruno e Spinoza – per cui l’onda del tempo si rapprende in apparenze momentanee che solo la parola e l’immagine possono restituirci al di là del loro essere state. È come se tutto fosse un pulviscolo cosmico, anche il nostro esserci – e pulviscolo è qui termine frequentissimo che ci richiama anche le vite pulviscolari di un Maurizio Cucchi (in Benigni “pulviscolari presenze”), così come il volto del figlio in cui rivive quello del padre ci ricorda un’analoga immagine presente nella poesia di Luigi Fontanella, e l’immagine che ferma l’istante – il fermo-immagine – ci ricorda l’analoga presenza di riferimenti pittorici in Umberto Piersanti il quale ricerca nella campagna marchigiana l’angolo incantato che sospende il tempo, come il Rifugio di cui parla Benigni.

Ma oltre che la fotografia anche la pittura è presente qui con il richiamo per esempio a Lorenzo Lotto: ma sia nei quadri sia nelle immagini fotografiche lo sguardo scivola ai margini o si sofferma sui dettagli, come quello della lucerna del quadro di Lotto che spunta dallo scorcio in ombra. Il dettaglio, come il punctum di cui parla Roland Barthes nel suo La camera chiara dedicato appunto alla fotografia – ciò che in italiano chiamiamo “camera lucida” – , un apparecchio che ha preceduto la fotografia e che consisteva in un prisma nel quale si vedeva l’immagine reale e s’inquadrava il foglio sul quale riprodurla con un disegno – per Barthes ciò è l’incontro tra l’esteriorità e un’interiorità profonda e indecifrabile. La lucerna di Lotto richiama in fondo quel fuoco eracliteo che anche per Benigni rappresenta lo scorrere del tempo che crea e distrugge, “la luce cicatrizza il tempo”.

Ma la poesia di Benigni non si sostanzia soltanto di riflessioni teoriche. Qua e là elenchi ci richiamano le cose concrete del nostro mondo, quando non sono rievocazioni di ricordi personali nelle poche volte in cui il poeta si concede il passaggio alla prima persona in una poesia dalla scrittura tersa che passa dal verso alla prosa per tornare al verso – così si articolano rispettivamente le tre sezioni. Così come in una passeggiata su sentieri di montagna, estratto dal tempo con l’unica data che qui compare, 25 luglio 2015: “La lingua di ghiaccio che credevo di non riuscire mai ad attraversare e il prato sul quale si allunga già l’ombra, il suono della mia voce svanita tra pendii e dirupi, che torna come un’eco lì, dove non sono già più” (p. 51). Ma contemporaneamente, ossimoricamente è anche – per dirla con Milo De Angelis, presenza importante nella formazione di Benigni – “dove eravamo già stati”.

Immagine: Mario Cresci

 

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).