Sylvia Plath

da | Mag 23, 2013

Così ha scritto Frieda Hughes nel 2004: «I think my mother was extraordinary in her work, and valiant in her efforts to fight the depression that dogged her throughout her life. She used every emotional experience as if it were a scrap of material that could be pieced together to make a wonderful dress; she wasted nothing of what she felt, and when in control of those tumultuous feelings she was able to focus and direct her incredible poetic energy to great effect». Queste frasi sono tratte dall’introduzione alla «restored edition» di Ariel, raccolta ordinata nuovamente secondo l’ultimo manoscritto lasciato da Sylvia Plath prima di abbandonare definitivamente la vita, i figli e la poesia. E ancora ci avverte Frieda: «Her own words describe her best, her everchanging moods defining the way she viewed her world and the manner in which she pinned down her subjects with a marciless eye». Potremmo così sottrarci a qualunque formula di giudizio, se non fosse per la netta sensazione di trovarci di fronte ad una condizione irrimediabile: condizione propria tanto di chi legge, quanto di chi agisce, all’interno del macrotesto composto dalle vicende e dall’opera della Plath.

Giovanni Giudici, primo autorevole traduttore per “Lo Specchio” di Lady Lazarus e altre poesie (1976), evidenziava di questa poesia il carattere di «mediazione», forte della piena coscienza per cui il dettato della Plath non costituisce «un semplice e rozzo tentativo» di abolire ogni letterarietà di fronte all’esigenza del dire, quanto piuttosto un estremo tentativo di stabilire un «rapporto alienante tra modello istituzionale ed espressione». Forse vale la pena di seguire ancora per un tratto l’avviso di Frieda, figlia di Sylvia e di Ted Hughes, e riaprire alcuni passi del Diario della Plath: «Per me il presente è l’eternità e l’eternità è sempre in movimento, scorre si dissolve. Questo attimo è vita. E quando passa, muore. Ma non si può ricominciare a ogni nuovo attimo, ci si deve basare su quelli già morti. È un po’ come le sabbie mobili… senza scampo fin dall’inizio». Siamo appena tra le annotazioni del luglio del 1950 e già si allungano neri presentimenti, confermati fino alla fine, assieme al turbamento di una «scrittrice geniale» (come lei stessa “si scrive”), nella scelta definitiva di Londra, dopo le turbinose vicende coniugali conclusesi nel Devon. Rimane un nodo da sciogliere, ancora attraverso le parole della Plath: «Il dialogo tra la mia Scrittura e la mia Vita corre sempre il rischio di trasformarsi in uno scivoloso scarico di responsabilità, in una razionalizzazione evasiva: in altre parole: ho dato un senso al caos della mia vita dicendo che le avrei dato ordine, forma, bellezza scrivendone; ho dato un senso alla mia scrittura dicendo che sarebbe stata pubblicata, dandomi da vivere (e una vita prestigiosa)».

Ecco, questo ci sembra l’abbrivio più semplice per accostarsi alla lettura di Tutte le poesie di Sylvia Plath, pubblicate – dopo la tappa del “Meridiano” – nella collana degli “Oscar”, a cura di Anna Ravano e con un bel saggio di Seamus Heaney. Un saggio, quello di Heaney, che colloca inequivocabilmente, e in maniera auspicabile, la storia poetica di Sylvia Plath oltre i limiti della sua vicenda umana, allargando il concetto e il valore del fare poesia: «Ho parlato in precedenza della necessità del poeta di andare oltre l’io al fine di divenire una voce più che autobiografica. A livello di parola poetica, quando questo avviene, suono e senso si alzano come una marea dalla lingua per trascinare l’espressione individuale su una corrente più forte e profonda di quanto l’individuo potesse prevedere». Il punto di raccordo tra le parti, in definitiva, è dato dall’incontro tra esigenza di espressione e esigenza di parola, che Heaney ravvisa nell’opera poetica della Plath, e in particolare prendendo le mosse da un verso un po’ sgraziato che in immagine riproduce il ritmo dell’«indefaticable hoof-taps», il «battito di zoccoli incessante» (tratto da Words, poesia del 1 febbraio 1963), sintomo di una poesia elementare quanto incessante, che è tensione e reliquia, ma che sa fondere nella scansione temporale della pronuncia il senso assoluto del suo pronunciamento.

Usciamo dunque dalla stretta referenzialità di una cronologia breve quanto tormentata e respiriamo quell’assoluto annidato tra le parole, confinato a livello di una grazia tenera e tremenda, fino al punto di piegare ogni eccesso lirico verso la forma del detto ironico, malioso, ammaliante, funereo. Sbalzi profetici, algoritmi terrifying (orripilanti e splendidi), come nella celeberrima Lady Lazarus: «The sour breath / Will vanish in a day». D’altra parte, Heaney centra l’attenzione sui tre termini di «catarsi», «difesa» e «preparazione», quasi a significare che la scrittura costituisca un esercizio di riabilitazione alla vita e di abilitazione alla morte, di perlustrazione del qui e del dopo sulla base di un prima ancestrale, immobile, mitico, inamovibile fin dalle prove riunite in The Colossus (1960 e 1962).

Cosa ha indurito e reso viva questa scrittura, dunque, permettendo l’accrescimento del valore? L’esercizio e l’apprendimento. Il primo deriva dallo studio, l’altro dalla materia dell’esistere. Bisogna dunque vedere in che modo “diviene” la lingua: l’“Oscar” propone, a ragion veduta, la lettura delle poesie di Sylvia Plath seguendo il tracciato cronologico, anche per la difficoltà oggetiva di stabilire un criterio accertabile corrispondente alla volontà ordinatrice della poetessa. La nota sulle Vicissitudini editoriale delle opere, infatti, ci informa sul destino travagliato della mole di testi di seguito tradotta: destino che la mente presto accorda ad altri nomi, dalla Dickinson ad Antonia Pozzi, ma che si impone certamente per una vitalità smodata, per quella capacità biunivoca di stringere inseparabilmente la vicenda al narrato.

Quanto alla traduzione, forse alcune riserve si impongono. Basta cogliere tre versi da Tale of a tub per scagionare qualunque scelta o mancanza: «can our dreams / ever blur the intransigent lines which draw / the shape that shuts us in?». L’immaginazione è potere della scrittura, per la forza innescata dal contrasto fra la “gratuità” del dato in sé, inteso o manifesto, e il “fuoco” interiore e indomabile rimasto meno visibile: «a duet of shade and light», un «duetto d’ombra e luce». Il cammino che di seguito si svolge da solo, sembra non necessitare di alcun imbrigliamento, né della posa di una raccolta, assecondando i propri motivi conduttori, che hanno tutti i toni dell’oscurità: «On my black pilgrmage» si legge in Recantation. Un avviso comunque si fa sempre più certo, quello della scarnificazione e dell’assottigliamento: si passa da un forte accerchiamento didascalico, ravvisabile in liriche come la potente – e magistrale – Poems, potatoes del ’59, in cui i versi «whether // More or other, they still dissatisfy», «continuano a lasciare insoddisfatti», per arrivare nel giro di pochissimi anni alla secchezza risolutoria, carne ed ossa, tutta verità e disillusione, di un passaggio repentino e brusco in Death & Co. (1962): «I do not stir. / The frost make a flore, / The dew make a star, / The dead bell, / The dead bell. // Somebody’s done for». La poesia stessa è spacciata, non qualcuno, ma il soggetto al suo interno, ora e sempre: cede persino ogni tentativo di percepirla come mestiere, come addomesticamento. Non si sedimenta niente nella coscienza che poi non trapeli come un turbamento dalla pagina, né il mondo, né gli affetti: non c’è nessuna pietà e nessuna pietas, se almeno si riesce a leggere insieme, e secondo una diagnosi articolata, quella volontà di annullamento che intesse i circuiti di una sequenza terribile e delirante composta – per noi, a posteriori – da Daddy, The disquieting Muses e Lady Lazarus.

L’esorcismo potrebbe sembrare una via d’uscita e una probabile raccordo, ma ancora nessuna figura ci soccorre nella mole di testi redatti, neanche in quelle sortite en plein air in cui la Plath con dietro il suo “cavalletto watercolour” non riesce a trasfigurare il grumo pastoso del suo essere e allarga a tal punto l’io sulle cose da toccarne l’essenza più spaventevole, benché lieve: «Hedging meadows of benign / Arcadian green / The blood-berried hawthorn hides its spines with white», «Tutt’intorno ai prati di un mite / verde d’Arcadia / il biancospino dalle bacche sanguigne cela nel bianco le sue punte» (Watercolor of Grantchester Meadows).

Altrettanti compendi servirebbero per ciascuna delle poesie, ma l’“Oscar”, pur nella mancanza di un approfondimento critico-analitico, si presta ad una lettura assieme orizzontale e verticale, che prende le mosse dal saggio introduttivo di Heaney di cui ho parlato e da lì cerca di recuperare oltre la biografia i motivi di un’esistenza in versi, con un’appendice su quei Juvenilia che chiudono il cerchio sull’inizio e completano un’immagine, un volto di poeta, quel volto racchiuso nell’epigrafe-compendio del primo verso che apre all’estremo commiato di Edge: «The woman is perfected. / Her dead // Body wears the smile of accomplishment».

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).