Sulla soglia della dimenticanza – Poeti rumeni contemporanei /2

da | Apr 6, 2016

Poesie e prose da Sulla soglia della dimenticanza (Edizioni Kolibris, 2015). Le traduzioni delle poesie sono di Chiara De Luca, le traduzioni delle prose sono di Matteo Veronesi.

Sulla soglia della dimenticanza

Per mia nonna Anghelina

I

Stavamo nell’entrata principale
com’era d’uso nei giorni importanti
(in genere segnati dal prete del paese
con acqua santa stillata da basilico essicato
ora invece registrati dal lento giro dei cardini):
Ritorna, mi hai detto, Lo farò, ti ho risposto.

Tu stipasti nelle casse la mia dote e ce ne andammo
a piedi alla stazione prima che albeggiasse.

La luna imbiancava l’incrocio di sentieri
spalancati come palmi aperti.

*

On the side of forgetting

for my grandmother Anghelina

I

We stood in the main doorway
According to the custom of important days
(Usually marked by the village priest
With holy water dripping from dry basil
But now recorded in the slow turn of hinges):
Come back, you said, I will, I said.

You stored the coffers with my dowry
And we walked to the station before dawn.

The moon whitened the crossing of dirt roads
Spread like open palms.

***

II

Dopo aver appreso la nuova lingua
e aver abbandonato la vecchia,
mi esercitavo a pronunciare le parole nuove
sentendomi nuova nella loro novità.

Quando le foglie si voltarono nelle tempeste sedevo
immaginando di essere una bimba in riva al mare
che soffiava nel flauto di una spiga di grano.

Un giorno ti vidi nell’incrocio dei raggi del sole [pomeridiano,
accendevi una candela sotto una vetrata –
cuore pulsante sotto le costole di una città
che non vedrai mai.

L’orchestra della chiesa provava per i Vespri
e qualcosa da dentro me, come il fiato emesso
dalla gola del flauto, fuoriuscì:
Là non importavo a nessuno.

*

II

After I learned the new language
And abandoned the old one,
I practised pronouncing new words
And felt new in their newness.

When leaves turned their backs in storms
I sat imagining that I was a child by the sea
Whistling through a flute made of cornstalk.

Once I saw you in the crisscross of afternoon sunlight,
Lighting a candle under stained glass –
A heart beating under the ribs of a city
You will never see.

The church orchestra practised for Evensong
And something in me, like the breath released
From the throat of the flute, escaped:
I mattered to no one there.

***

III

Stamattina mi ha svegliata il canto
degli uccelli nei cespugli gialli di ginestre,
le mani delle colline sono ‘ nel mare,
Tory Island è una barca senza vele.
Tu mi sussurri da biancospini e noccioli,
La terra si ricorderà di te.

La tua croce di legno mi appare
attraverso la pioggia che dilava il cimitero.
Voglio girare attorno alla tua tomba
per tre volte, accendere incenso e una candela
dentro al rugginoso secchio senza fondo
piantato nella terra accanto alla tua testa.

*

III

This morning I awoke to the sound
Of birds inside the yellow of gorse bushes,
The hands of hills are in the sea,
Tory Island is a boat without sails.
You whisper to me from hawthorns and hazels,
The earth will remember you.

Your wooden cross appears to me
Through the rain washing the cemetery.
I want to walk around your grave
Three times, light incense and a candle
Inside the rusted bottomless bucket
Lodged in the earth next to your head.

***

Terreno fertile

Stavo potando le piante di pomodoro quando vennero a [cercare
armi nel nostro giardino;
scavarono la terra sotto polli, peperoni,
meloncini, aneti, rafani.

Piansi per le melanzane affettate
mescolate con la sporcizia,
per la terra scavata di fresco e le semerie.

Le loro vanghe scoprirono bottiglie
con tappi di metallo arrugginito – olio di girasole da [cucina
che mio padre teneva per i “giorni bui”, comprato in [giorni altrettanto bui.
I loro occhi brillavano – ciascuno si prese una bottiglia o [due –
promessa per i loro pasti in famiglia.

E quando l’olio si versò sul terreno, lucido sopra i [pomodori schiacciati
mi chiesero delle presunte armi che custodivamo.
“Olio,” dissi: “Mangi e vivi.
Questo basta a rendere pericoloso un uomo.”

*

Fertile ground

I was pruning tomato plants when they came to search
For weapons in our garden;
They dug the earth under the chickens, bell peppers,
Tiny melons, dill, and horseradishes.

I cried over sliced eggplants
Made one with the dirt,
Over fresh-dug earth and morning glories.

Their shovels uncovered bottles
With rusted metal caps – sunflower cooking oil
My father kept for ‘dark days’, purchased in days equally [dark.
Their eyes lit – everyone got a bottle or two –
A promise for their families’ meals.

And when the oil spilled on the ground, shiny over [crushed tomatoes
They asked me about weapons we might have kept.
‘Oil,’ I said: ‘You eat and live.
This alone makes one dangerous.’

***

da Dopo vent’anni: Riflessioni su Esilio e Lingua

[…]

La poesia nasce dalla vita. L’esperienza estetica, per quanto immaginaria e fittizia, si aggrappa al cuore della vita vissuta. Il mio processo creativo è direttamente influenzato dalla mia esperienza con la mia lingua materna. Gli effetti della repressione linguistica si manifestano nella mia creatività: non scrivo in rumeno e non cerco la mediazione della traduzione della mia opera scritta in inglese, perché non c’è nulla che io voglia ridire alla mia lingua nella mia lingua. Ho subìto molti interrogatori da bambina, interrogatori che snaturavano la lingua con la loro brutalità. Tutto ciò che dicevamo in casa era registrato su nastro dalla Securitate così fedelmente che io, anzi noi come famiglia, abbiamo creato versioni di noi stessi tali da non offendere gli oppressori, perché temevamo per le nostre vite. Non parlavamo di quanto ci mancasse mio padre e delle cose terribili che vedevamo e sentivamo intorno a noi o delle centinaia e centinaia di interrogatori che mia madre subiva, della paura che lei potesse non tornare più a casa, o che la Securitate potesse farci del male o ucciderci. Diventammo tutti molto silenziosi, facendo in modo che le nostre conversazioni ruotassero tutte intorno ad argomenti domestici: Hai tagliato la legna? Puoi portare un po’ d’acqua? Diamo aria ai tappeti? Abbiamo addirittura tentato di mentire riguardo all’ora in cui ci saremmo svegliati la mattina e avremmo preso l’autobus, per non dare alle guardie, che stavano fuori dalla finestra, il tempo di prepararsi a seguirci. Non è questa una lingua con cui crescere. Molto si potrebbe dire al riguardo: è necessario compiere uno studio linguistico dell’oppressione se si vuole comprendere la relazione esistente tra l’oppressione politica e lo sviluppo del senso d’identità individuale attraverso la narrazione di se stessi.

Chi ero io a quindici, sedici, diciannove anni? Ero una ragazza silenziosa, una menzogna vivente, un essere umano terrorizzato, oppure una bambina brillante che era riuscita a sopravvivere? Forse i rapporti della Securitate sulla mia famiglia, accurati com’erano, potrebbero dare una percezione di quanto fossimo controllati. La lingua è il frutto di una cultura, rappresenta, nel modo più profondo, ciò che le persone sentono e come vivono le loro vite. La lingua degli oppressori e la lingua degli oppressi sono prodotti di attività su larga scala, non casi isolati di abuso. La Securitate sviluppò un linguaggio specifico per trattare i diversi tipi di sorveglianza a cui sottoponeva le persone. Il numero delle persone sorvegliate e monitorate, e il numero delle persone che svolsero quell’attività di sorveglianza e di monitoraggio sono così vasti che a malapena si trova, in tutto il paese, qualcuno “innocente”.

Per questa ragione, sono giunta a odiare la lingua in cui sono nata. Non è un giudizio, è un’emozione durata vent’anni; sono assolutamente certa di non essere sola in quest’esperienza. Ma questo fenomeno è anche un segno molto forte di sopravvivenza: come l’acqua, se le parole sono bloccate da una diga, vagheranno per prorompere altrove ‒ in un’altra lingua. In inglese, per un certo tempo, mi sentii la lingua annodata, ma, dopo avere imparato di più, potevo parlare in tutta franchezza di ciò che era capitato a noi e a me. Quando questo cominciò ad accadere, ecco che fui padrona di me stessa: iniziai ad avere e a esprimere opinioni, a scrivere poesia senza temere le conseguenze. Divenni libera e gridai il mio “Salut au monde” con la stessa intensità con cui Walt Whitman dichiarò nella sua poesia che ognuno di noi, uomo o donna, è invincibile su questa terra, grazie ai suoi diritti. Così mi gettai nella lingua inglese – e nella vita – con rabbia: danzai per le strade nel cuore della notte senza temere l’oscurità, appesi le mie poesie agli alberi nel campus dell’università ad Ann Arbor quando ero studentessa, trovai i documenti su mio padre nella biblioteca dell’università e fui fiera che gli altri sapessero che i miei genitori non avevano chinato il capo, non si erano venduti a una dittatura, e che eravamo sopravvissuti a tutto, serbando integri i nostri cuori e le nostre menti. Infine, fui io a bandire la lingua rumena dalla mia poesia. Essa non aveva spazio in questa luce, nel dire la verità, nello sforzo prepotente di vivere come un essere umano felice all’altro capo del mondo. Dopo non sono tornata in Romania (ad eccezione di una visita durata una settimana nel 1995, per dire addio a mia nonna che stava morendo di cancro) perché, quando mio padre aveva messo la propria vita e le nostre in pericolo per abbattere il regime di Ceausescu, neppure un’anima si era unita a lui. La gente era corsa a vederlo, lo aveva guardato e poi si era nascosta, terrorizzata, dove poteva.

[…]

***

da Una “identità d’archivio”

[…]

Sto leggendo strane cose su di me nei documenti segreti relativi a mia madre. Si scopre che avevo anch’io un dossier, ero seguita e monitorata passo passo. Una delle pagine contenute nel mio dossier dice che “certe organizzazioni internazionali ed emittenti radio sollecitano la scarcerazione di Ion Bugan” e che le sole persone che potevano fornire informazioni su mio padre a questi estranei eravamo mia madre e io. Così sto leggendo di cosa mangiavo nel 1985, di quando baciai un ragazzo nel parco nel 1987 e di quando i suoi genitori andarono da mia madre sul lavoro, facendo un putiferio, perché la mia frequentazione del figlio rischiava di metterlo nei guai. C’è la lettera in cui gli rimprovero il disturbo che i suoi genitori hanno dato a mia madre. Ero un’adolescente risoluta, certo non una che si lasciava intimidire facilmente: come ero riuscita a mettere su quella grinta? Ma la figura di “Carmen” che, in ultima istanza, emerge da questi documenti è quella di “una donna con problemi”, di una persona che cerca di ricavarsi una qualche forma di indipendenza personale fuori dal caos creato dalla Securitate, come risulta da una serie di diverbi con chiunque e per qualunque cosa.

Questi scritti della Securitate sono rigorosi, dettagliati, e anche, sostanzialmente, menzogneri.

La verità è che eravamo persone normali, rimaste coinvolte nel destino della protesta di mio padre ed eravamo isolati, impauriti, affamati e sostanzialmente molto stanchi. Non è vero che costituissimo un pericolo per il popolo rumeno. Ci comportavamo come la polizia segreta c’intimava di fare: mia madre fu costretta a divorziare da mio padre per “dissociarsi” dalla sua politica di opposizione, e io feci domanda per diventare membro della lega dei giovani comunisti, solo per essere pubblicamente umiliata, perché giudicata “inadatta” a farne parte. Il linguaggio dei documenti, comprese le note e le istruzioni per un ulteriore monitoraggio della nostra famiglia, i paragrafi evidenziati, e quelli cancellati con inchiostro nero, costituiscono il linguaggio dell’oppressore. I dettagli che l’oppressore scelse di riportare, i particolari vuoti che scelse di lasciare nelle nostre conversazioni, il preciso significato che voleva attribuire a ciò che stavamo dicendo, allo scopo di trovare dei motivi per continuare a intimidirci e sorvegliarci, si associano a un linguaggio specialistico, di cui si deve rendere giustamente conto.

E poi c’è la lingua degli oppressi – la nostra – che oscilla tra il dimostrare solidarietà (nelle conversazioni che intercorrevano tra noi quando eravamo fuori dalla portata dei microfoni) e la condanna della dissidenza di mio padre (a casa) e dell’atto eroico che aveva commesso a nostre spese. A me, leggere questi documenti e comprenderli richiede un supremo sforzo d’immaginazione: in un documento, lungo appena tre pagine, si dice che il dialogo trascritto è “basato sull’ascolto di dieci audio cassette”. Ciò significa che qualcuno trascrisse il nostro dialogo in modo approssimativo, fingendo di riportare le nostre parole. Non sorprende che, in questi documenti, io mi rivolga ai miei genitori con il “tu” informale e che i miei genitori usino il linguaggio tecnico della polizia segreta: parole come filaj (seguire molto da vicino), che loro certamente non conoscevano! Ciò significa che il linguaggio dei documenti è un mix della nostra e della loro lingua, perciò la mia attuale battaglia è salvare le nostre parole da quei documenti con l’aiuto della memoria. Perfino il nostro modo di parlare era stato macchiato, essendo noi stati ridotti al rango di oggetti.

[…]

Immagine: Lee Ufan, House of Air.

Mircea Cărtărescu, il poema dell’acquaio – Poeti rumeni contemporanei /1

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).