Stelvio Di Spigno, Minimo umano

da | Ott 22, 2020

Cinque poesie in anteprima da Minimo umano di Stelvio Di Spigno, collana di “Testo a Fronte”, Marcos y Marcos, 2020, seguite da una nota di lettura di Antonio Merola.

 

Nel movimento, infatti, non si può pervenire al minimo assoluto, come è un centro fisso, perché il minimo necessariamente coincide col massimo.

Il centro del mondo coincide con la circonferenza. Ma il mondo non ha circonferenza.

NICCOLÒ CUSANO

 

 

Variante lombarda
Lago di Garda, giugno 2005

Ci sono questi laghi calmi e oblunghi
che non dicono niente a nessuno,
e stanno zitti e ti rapinano il cuore,
attraverso i tuorli oculari e gli archi molli
delle sopracciglia, come lame di sole
su persiane abbassate, da un battello
e in dormiveglia, o come il peccato,
all’ombra della morte.

Riflettono soltanto la mancanza
che il pensiero ha di se stesso,
come una debolezza o sfinimento,
e nessuna collina viene avanti,
è tutto un silenzio di naviganti
che hanno perduto la via dell’Equatore.

Da qui non ci si alza, non si vola.
C’è una stagnazione dell’essenza e della vita.
Uomini come schegge, dal volto offuscato,
si rubano a vicenda il senso del domani,
sanno partire e non sanno tornare,
tra foreste vorticose e radici superate.

E guardano il panorama, questi fratelli
dal cognome diverso e disunito, le piccole ali
dei cormorani, che un giorno li spinsero
al singhiozzo, ora sono spente, senza mistero.

L’orizzonte è fatto per sognare
una vita senza errori, lungo il profilo
disadattato del mondo,
è un miracolo di cose dette
sempre per pochi,
se nemmeno quest’oasi di acque
sonnolente riempie
la notte mentale di speranza.

Riposeranno a lungo, uomini e laghi,
oppure lotteranno a distanza,
nessun nome verrà estorto o estratto
in quiete e sorte di verdissimo lichene,
e solo a nuoto saprà la verità
chi dorme il sonno della felicità,
sapendo impedito da folate e piovaschi
l’ormeggio discordante dalla riva.

 

 

Stilnovo
per A. I.

«Perché ti cerco nell’ora lucente,
labile fonte di amore e dedizione
che sei ovunque, in lapilli e parole,
ma non in me. Esci dal timido recinto
delle occasioni evanescenti. Diventa elemento,
viscere da amare, psiche inconsapevole
dei giorni deragliati sulla luna.
Una punta di universo caduta qui,
per noi e nessun altro. Ti aspetto,
da sempre, come una certezza. Perché
vivere è un traforo che bisogna
attraversare. Vieni, respira, non farmi
più dormire. Ho una casa
aperta alla dolcezza dei tuoi assoli:
se ancora ne hai – fiamme, catene,
burroni e pietre vaghe
non potranno fermarti. Da troppo,
inseguo il tuo confine boreale.
Da un tempo non più vero vorrei
toccare la tue labbra affascinate.
Sciogliti. Sali in questa tormenta,
nessuno ti seguirà. Saremo soli.
Nel mondo chiuso delle occhiate incostanti
vedremo nascere il perché dell’esistenza.
Nessuno, ti dico, ci disturberà».

 

 

Corpo

Obbediente vestito quotidiano
P. LARKIN

Muscoli furiosi in superfice,
metallo mio lucente, corpo,
sei stato giovane,
un coltello minaccioso:
adesso impara il disamore,
la posa declinante, la frattura,
non sarai più l’immagine di Dio
che da sempre racchiudi a protezione.

Aumenterai di peso, imbiancherai,
mi farai vergognare di te,
non darai più gioco
alle numinose amanti
che ti hanno dato istanti in cui scordare
quella tua destinata tachipnea,
e guarderai i ragazzi con invidia.

Ma forse anche tu tornerai nuovo
quando l’anima si staccherà da te
e andrà lì dove tutto si crea,
tu che non vuoi morire,
col tuo vestito a festa
carico di rammendi,
brillerai per le strade.

 

 

Tautologie

L’autunno torna, per tutti, a domicilio,
una stagione per sette case e dieci ombrelli,
senza cambiamento, senza volto,
replica a martello odori e geografie
che salvarono montagne di esseri incagliati,
come le stanze dove mia madre e gli antenati
furono in linea col tempo e la speranza,

e poi, fuochi di braciere, atmosfere
di Natale, vizio del fumo, piante da spostare,
ruggine dai muri, che mio nonno
curava, proverbi delle donne, che nessuno
ascoltava, parsimonia e coraggio partoriti
per il corpo e la mente, e tutto,
tutto svanito. Niente che sia rimasto
a lenire la fistola del distacco.

Metto anch’io la mia faccia autunnale.
Il sorriso – deve sempre precedere.
Il sangue può aspettare, l’occhio arriva prima.
Ma l’anima che ho dentro, che mi nutre
a conati di asma, chi la solleverà?
Mi manca tutto, e poco più di niente.
Gli esseri umani sono la mia croce.

Vigilia delle stelle, verità inaudita e selvaggia,
nucleo delle svolte e dei pensieri contrari,
forse tu solo sai, tu solo riconosci, dove
e quando la parabola del cielo
e della lingua si ferma in noi, in che punto
e perché mai. E quale vita, se nasce,
può dire di se stessa che è mirata
a qualcosa, a un’esistenza, o a te.

 

 

Ragioni

Il vento decolla tra le stelle
alle sei di mattina a Ventotene,
e la lama siderale
taglia tutto il paesaggio.
Un uomo si affaccia sul piazzale.
Poteva essere lui, al mio posto, a nascere.

C’è colore di ardesia.
L’orologio infinito
fa un solo tic al giorno,
ora che so perché
questa vita non è stata
pura ripetizione: nessun numero,

ma un compito, sulla faccia
della terra: sopravvivere, andare
oltre, fermare con la voce il digiuno,
il tempo con un registratore,
e questa piccola campana,
improvvisa, che suona

ogni volta che sbaglio, e io sto fermo,
al centro di un mercato, a guardare
la mia forma irripetibile

in pieno sole,
navigando nell’utero del mare,
chiamando il nome
del Creatore, scritto da lui stesso
sulla felce vibrante del mondo,
come si chiama la propria eco.

 

 

“Sono stato di tutto e non mi pento”
di Antonio Merola

«Letteratura come vita»: è questa l’equazione giusta per entrare nella poesia di Stelvio Di Spigno (Napoli, 1975). Teorizzata da Carlo Bo (1938) a proposito della poesia ermetica, ho sempre sostenuto che l’equazione «letteratura come vita» funzionasse meglio per gli scrittori e i poeti americani, piuttosto che per quelli italiani. Certo, non mancano anche in Italia esempi forti da Dante a Dino Campana, che con Henri Murger di Scènes de la vie de bhoème. Si potrebbe obiettare, del resto, che ogni scrittura contenga in sé un poco di vita dell’autore, persino tra gli scrittori postmoderni. Ma a differenza che in Italia, in America l’equazione funziona in maniera sistematica, diventa una poetica esplicita, come per esempio in Jack London, F. Scott Fitzgerald, Zelda Sayre o gli autori della Beat Generation. In queste esperienze, letteratura e vita sono una cosa sola.

Allora che cosa ha a che fare con la poesia di Stelvio Di Spigno? A livello formale, i lettori avranno modo di leggere una delle voci attuali del panorama italiano che aderisce con forza alla tradizione. In particolare, alla poesia di Giacomo Leopardi, di cui Di Spigno fu dottore e ricercatore universitario e alla metrica dell’endecasillabo. Leggere Di Spigno è quindi una buona occasione per confrontarsi con una poesia formalmente italiana.

Eppure, c’è in Di Spigno anche un respiro più ampio. I luoghi protagonisti della sua poesia sono la «Napoli di Poggioreale» e il litorale laziale di Anzio, dove attualmente il poeta insegna in una scuola. Quindi: due luoghi periferici. Di questi, Di Spigno predilige la periferia nella periferia, il suburbano, la macchia. L’occhio poetico di Di Spigno è emico, perché di questi luoghi nei luoghi Di Spigno è stato una parte, alla maniera di Charles Bukowski. Perciò, il bassofondo ci è raccontato dal basso e da dentro.

C’è un altro aspetto, però, da affrontare in questo sguardo: l’occhio del sopravvissuto e l’occhio puritano. «Era facile morire, più che viverci/ nella Napoli di Poggioreale […] E sono in piedi, addirittura, tra tanti/ che volevano spuntarla». Sebbene sia emica, la poetica di Di Spigno è anche postuma. Vale a dire che se da una parte Di Spigno ci racconta con assoluta fedeltà di un mondo non visto ma a cui ha preso parte, dall’altra Di Spigno è in aperto dialogo con Dio, senza intermediazioni. Il divino è chiamato a essere coautore di questa raccolta, che oltre un resoconto è anche una domanda diretta: sono già salvo o sono ancora da salvare? È una risposta che Di Spigno aspetta a nome di se stesso e di tutti i personaggi delle sue poesie. O meglio: per tutti i personaggi delle sue poesie, meno che per se stesso. «Sono stato di tutto e non mi pento./ Se potessi volerei dai miei morti».

 

Immagine: Laure Prouvost, Sculpture Talk, october 2020.