Pubblichiamo quattro poesie inedite di Luciano Cecchinel e un’intervista a lui rivolta, a cura di Maira Zamignan.
ARSURA E SETE
Tu sola al buio entro il tuo male.
– A me dispiace vedervi soffrire.
Tu sentivi, morendo, di tradire…
tutti traditi in te tradita
nei giochi, negli studi di fin ieri,
nei tuoi primi guadagni per la casa
che con te ricresceva.
Ci dicevano di non vivere
come in simbiosi il tuo morire
mentre tu sentivi la colpa
di vederci di giorno in giorno
in te morire.
Così come sete nell’arsura
in te la nostra vita che cresceva,
come arsura nella sete
in noi il rifiuto
della tua che finiva.
E boccheggianti
di arsura e sete
passare per fato e dovere
vicini e separati
tutto l’ultimo nostro tempo insieme.
– A me dispiace vedervi soffrire.
Tu sola al buio entro il tuo male.
È TUA LA VOCE CON CUI DICO PAROLE
C’è solo un modo ora per essere,
fasciarmi la mente di una certezza:
che tu, fuori, lontano,
figlia, mi vivi, vieni con i miei passi,
guardi con i miei occhi, che è tua
la voce con cui dico parole.
Che mentre io ignoro ogni mio atto
sei tu a filarmi l’esistere.
Poter stare in questa fede:
che io residuo sono il tuo essere
che mi sta vivendo,
che la tua morte non è.
GRAZIE MA ANCORA PIU’ PERDONO
Perché un figlio che muore
ti dà la grazia
di non aver paura di morire,
anzi, poiché sei morta tra le piaghe,
di non aver paura
di morire nel male.
La grazia dell’orgoglio dignitoso
che giorno dopo giorno
avevamo cercato di darti
senza sapere:
sarebbe stato
sale sulle tue piaghe.
La grazia di morirci
di trafitture, squarci e ustioni
quasi che tutto fosse,
come già tu eri stata,
un concordato confidente
dono del cielo.
Grazie allora figlia
ma ancor più perdono.
SENZA LA FIN JUSTA
Quela storièla
la fea cégner al fià
ma a la fin anca tirarlo.
Le pòrte sarade co la ciave:
gnest entro par chisà ’ndove,
da chisà che bus.
No se l’à sentist
far un a la òlta
i tanti scalin.
E no l’é stat nif de aghi
a sbuṡarghe in ultima
al gòs cain.
Ti là matisola in past a l’òrco
de quela storièla tante òlte sentista
ma co la fin justa.
Lora che tu te fea cèna
intant che vanti dormir
i te strendéa pian la man sote ’l ninziol.
Gnesuni dès qua a salvarte;
anca a cégnerte la man
no se pol farte corajo co quel’òrco cain.
– Volarìe indormenzarme e no svejarme pi.
Cusì tu ghe dis dès a to mama.
Ma ela no la sa na nina nana par questo.
E no la conta gnent gnanca la storia
de la Cuzazendre: par portarte
de scondon travestida a sta festa nova.
Ma pò la storia la diṡéa anca:
a chi che dis de ’ndar a la fèsta
i ghe dà la moleta do par la tèsta.
SENZA LA FINE GIUSTA
Quella storiella / faceva trattenere il fiato / ma alla fine anche tirarlo. // Le porte serrate a chiave: / venuto dentro per chissà dove, / da chissà quale apertura. / Non lo si è sentito / fare uno alla volta / i tanti scalini. // E non c’è stato nido d’aghi / a bucargli da ultimo / il gozzo maligno. // Tu là da sola in pasto all’orco / di quella storiella tante volte sentita / ma con il finale giusto. Allora quando ti facevi piccola / mentre prima di dormire / ti stringevano piano la mano sotto il lenzuolo. // Nessuno adesso qui a salvarti; / anche tenendoti la mano / non si può farti coraggio con quell’orco maligno. // – Vorrei addormentarmi e non svegliarmi più. / Così dici adesso alla mamma. / Ma lei non sa una ninna nanna per questo. // E non conta niente neanche la storia / della Cuzazendre: per portarti / di nascosto travestita a questa festa nuova. // Ma poi la storia diceva anche: a chi dice di andare alla festa / danno le molle giù per la testa.
NOTE:
Quela storièla: Al Barbazucón (Lo zio zuccone), fiaba popoalre veneta.
la storia de la Cuzazendre: variante locale della celebre Cenerentola.
le molle: del focolare.
L’ETERNO SCANDALO DEL DOLORE INNOCENTE
Intervista a cura di Maira Zamignan
1. La nuova raccolta, di cui ci ha gentilmente anticipato alcuni testi inediti, è dedicata a sua figlia Silvia, scomparsa prematuramente. Se nei suoi lavori precedenti la voce poetica si misurava con il paesaggio e con la memoria collettiva, quale direzione assume ora la sua scrittura, in un dialogo che sembra farsi più intimo e raccolto?
Agganciandomi direttamente alle ultime parole della domanda devo dire che la direzione è stata univoca quanto obbligata giacché la perdita innaturale ha determinato un’immedicabile cesura esistenziale che è divenuta il pensiero dominante e tale da annichilire tutti gli altri. E non potevo certo ridurre la figlia, malata e poi, purtroppo, perduta, a soggetto letterario. Ne conseguì pertanto l’impossibilità allo scrivere. Se certo per un lungo periodo ho ricordato con impietosa allucinata nettezza tutti gli aspetti della tragedia, ho avvertito la necessità di annotare episodi e discorsi solo da quando mi sono accorto che ne perdevo memoria. Inizialmente non lo facevo perché intendessi scriverne in poesia ma appunto perché ogni aspetto che andava perduto era un allontanarsi dalla figlia, di concerto col reperimento e alla conservazione di oggetti, in particolare di giochi, libri, audiocassette e, unica, una videocassetta registrata da dei suoi amici (facemmo di tutto per averla ma poi la guardammo una volta sola). È un fatto che le ripetute sottrazioni mi davano, come sarebbe emerso da più testi della raccolta, con quello di allontanamento anche un senso di tradimento della figlia perduta. Solo dopo parecchi anni ebbe luogo la ripresa delle icastiche annotazioni su una tragedia tremendamente centellinata. E appunto attorno a dieci anni dopo – Silvia era mancata il 16 aprile del 2001, giorno di Pasquetta – ebbe inizio il tentativo poetico, quasi che un dolore così grande implicasse infine un dovere di rappresentazione e memoria. Certo per me è stato ed è a tutt’oggi arduo riprendere contatto con quanto ho prodotto in balìa di quel pensiero dominante: se, pur sforzandomi, sono riuscito per periodi a lavorarci su, appena lo lasciavo per un po’ da parte, mi prendeva paura e fin repulsione a rileggerlo, rimandando generalmente ad altri tempi.
2. Dostoevskij, che visse la perdita di più figli e che lei evoca nell’antologia “Per i giovani figli perduti”, nei Fratelli Karamazov scrive che la mente umana è “misera, terrena, euclidea” e che, sebbene tutto nella vita sembri scorrere e riequilibrarsi, ciò che resta irriducibile è la sofferenza dei bambini, degli innocenti. In questo orizzonte, pensa che la poesia possa, nel tempo, offrire un luogo in cui trasformare l’esperienza del dolore e restituire una forma espressiva capace di condivisione? Può la parola poetica offrire un luogo in cui trasformare l’esperienza del dolore e dar voce a ciò che, altrimenti, resterebbe indicibile. E, in qualche modo, la stesura dell’antologia ha avuto un ruolo in questa direzione?
Agganciandomi alla premessa della domanda, sono a dire che per quanto riguarda la sofferenza dei bambini Dostoevskij sembra voler dare una risposta radente attraverso il discorso di Ivan Karamazov nel colloquio con Alesa che prelude al celebre brano del “grande inquisitore”: niente può riscattare la sofferenza di un bambino, come per chi la causa non può darsi perdono, neppure se esso viene dalla stessa madre. Basta questo aspetto, che si configura quasi come bestemmia dello stesso Grande Fattore, a incrinare ogni asserzione di provvidenza divina quanto di una possibile armonia dell’universo. È l’eterno scandalo del dolore innocente che l’Ivan di Dostoevskij non tollera, quello per cui vorrebbe «rispettosamente» restituire a Dio il biglietto d’ingresso a questa vita. Da qui una nuova connotazione dell’ineffabile: se prima era stata l’immersione nella suggestività di paesaggi e situazioni a farsi come per un arcano sortilegio cespite di contemplazione e di attivazione di un senso idillico pervadente al punto da interdire il dire, ora era al contrario l’immane tragedia familiare a determinare, col centellinato calvario di una figlia, il senso di impossibilità di trasporre il “provato” in parole. Come dire dall’indicibile per sublimità all’indicibile per terribilità. Per la composizione di miei versi sull’argomento, composizione che avevo sentito inizialmente blasfema, avevo appunto avuto come base le laconiche annotazioni che avevo allineato per ricordare particolari circostanze: un po’ le stazioni del calvario della figlia e nostro. Era stato come estrarre e mettere assieme dei cunei infitti che si facevano immantinente degli indici di impotenza. Nel processo la rabbia contro il destino diveniva rabbia contro me stesso, in una specie di raddoppiato masochismo. Per quanto attiene al potenziale medicamentoso della parola poetica rispetto a quello che viene comunemente definito il dolore più grande, certo essa non può mai essere risolutiva ma penso che l’essermi sottomesso pur tra varie ambasce, rifiuti e riprese all’esiziale tirocinio mi abbia avviato a poco a poco a un processo di assunzione di un destino… mi viene ora in mente che in un testo della raccolta in questione mi è uscita l’espressione «per la sua e la mia fine / nuova assegnata casa». E sono state anche la gestazione e la revisione dell’antologia a farmi entrare, quasi progressiva assuefazione, in quella temperie dalle punte masochistiche. Nel contempo esse mi avevano fatto capacitare di come l’universo di questa lacerazione viscerale possa far sentire simili a uomini di millenni or sono, scoprendo come essi abbiano cercato a loro modo di farvi fronte. Inevitabilmente il tutto si commisurava alle rappresentazioni del mondo, anche ultraterreno, delle varie epoche. Se oggi ciò ha soprattutto corso nell’alveo della religione cristiana, la commisurazione aveva prima campo in quello della filosofia, in particolare di quella stoica. In relazione all’ultima parte della domanda devo dire che se l’operazione antologica ha giovato alla realizzazione della raccolta sulla figlia perduta, ciò è comunque avvenuto al di fuori di una mia consapevolezza. Certo ho lavorato prima all’antologia ma la sua compilazione non ha mai direttamente interferito con la composizione dei testi poetici. Un impegno escludeva l’altro e i periodi rimanevano quindi affatto distinti.
3. Il ricordare si configura come un atto pieno, quasi corporeo, che impegna profondamente chi lo compie. Suppongo ci sia stato un cambiamento nello sfondo paesaggistico rispetto alle sue precedenti raccolte: dal topos del locus amoenus alla contrapposizione con un ambiente magari ostile, violento, capace di entrare prepotentemente anche nei ricordi con sua figlia. Vi è stato un divieto di accesso, legato alla memoria? Quanto e come è cambiato il suo modo di dialogare con il paesaggio?
In realtà il senso di un ambiente ostile e talvolta violento – il territorio del mio comune, Revine-Lago è totalmente censito come montano – l’avevo maturato praticando con molti miei coetanei l’attività agricola e silvo-pastorale, questo anche per sanare un senso di colpa, dato che la mia vita si divaricava dalla loro per il fatto stesso che io continuavo gli studi e loro no. Così passai ben presto da una rappresentazione contemplativa ai limiti dell’idillico del paesaggio ad una realisticamente ruvida e quasi scostante. E venni per esperienza a capire che il contadino o il montanaro è sempre concentrato su aspetti pragmatico-settoriali mentre il turista o l’artista, tendenzialmente contemplativo, è passibile di una rappresentazione totale di tendenza oleografica. È quindi più facile avvicinare un’autentica verità del paesaggio per chi sta sulla soglia e si colloca quindi un po’ dentro e un po’ fuori dal mondo che col paesaggio ha maggiormente a che fare. Ed è questo appunto il caso di chi ha vissuto quel mondo simultaneamente a forme di esistenza diverse oppure divaricandosi progressivamente da esso. Solo in una commistione che incrina ma non disinnesca del tutto la contemplazione, si può arrivare a sentire la fatica e la sofferenza, con le rinunce che esse comportano, come – quasi contrappasso fatale – condizioni stesse della bellezza, scongiurando ogni scivolamento oleografico. Ed è evidente che a questo punto il senso del locus amoenus non può che risultare ben ridimensionato. Questo senso era semmai rimasto vivo nel paesaggio lacustre soprattutto per la gioventù: la mia zona è infatti assai suggestiva per la presenza di due piccoli laghi che avevano ad ogni modo poco a che fare con la quotidianità degli abitanti. Al di là dell’integrazione dei proventi dell’agricoltura con l’occasionale attività della pesca da parte di alcune famiglie, essi erano visti come lì a pregiudicare la maggior parte della terra coltivabile della valle. Solo per i giovani essi erano in generale locus amoenus, soprattutto d’estate per i passatempi balneari ma occasionalmente anche d’inverno, per quelli sul ghiaccio, quando diversamente dai tempi attuali l’acqua era spesso presa nella morsa del gelo. E come per me giovane, anche per la figlia morta prematuramente, i laghi rappresentavano tutto ciò. Lei poi, provetta nuotatrice, era usa attraversare il più grande dei due ogni giorno. Zanzotto le dedicò una poesia appunto perché casualmente la vide effettuare questa sua quotidiana impresa. Ma ecco a questo punto la mia “maledizione paesaggistica”: quello che era rimasto e sarebbe potuto essere sentito locus amoenus, essendo intriso anche di molti dei ricordi della vita di mia figlia, si è fatto cespite con la sua malattia e la sua morte, di stati d’animo dolorosi ai limiti della recriminazione.
4. Giorgio Agamben ha indicato nel dialetto, sulla scia di una folgorante espressione di Andrea Zanzotto, una forma di logos erchomenos, una parola che “viene”, che scaturisce da una sorgività originaria, intimamente connessa alla voce e all’esperienza affettiva e interiore. Nella nuova raccolta, alcune poesie dedicate a sua figlia sono scritte proprio in dialetto: si tratta di una scelta che sembra restituire alla lingua una verità più intima, più prossima all’emozione. Che ruolo ha il dialetto, in questo contesto, nella trasmissione del dolore e nella ricerca di una voce poetica capace di autenticità?
Al di là della valenza metafisica con oltranze mistiche dell’espressione citata, io ho teso a mettere l’accento sull’ancestralità quasi mitica del dialetto. Ancora Zanzotto ben ha scritto a tale proposito che «il dialetto mette in trasparenza il suo enigmatico riconnettersi all’ambiente, alle stesse laringi umane». E in tema è stato per me sorprendente scoprire che la parola agrost che definisce in dialetto il veratro, pianta tossica che tende a infestare i pascoli, deriva dal latino agrostis; e così è stato per il termine làip che designa il truogolo con la sua movimentata derivazione dal latino alveus. Ma devo dire in linea col concetto del “riconnettersi all’ambiente” che la parlata indigena è stata per me, in regime di piena immersione, un fatto naturale, prerazionale: era certo innanzi tutto la lingua dell’intimità e questo è ben misurabile, come lei ben intuisce, nei testi dedicati a mia figlia, con la ripresa delle fiabe locali che le raccontavo per farla addormentare, ma l’aspetto affettivo confidenziale di questi aspetti della parlata locale ineriva generalmente con quella di una cultura in cui erano ancora presenti aspetti di quotidianità scabra e sfinente, sì che le parole elise e troncate suonavano come gli spigoli dei tronchi e delle pietre, i suoni stessi della natura e della fatica. E termini come frazhar (rovistare) o zhisar (grillare, sfrigolare) si imponevano, oltre il loro cammino etimologico, per una potenzialità onomatopeica insostituibile. Certo poi lungo lo sdilinquirsi di tutto un mondo silvo-pastorale per l’imporsi di nuovi modelli economici e culturali, l’uso del dialetto è diventato per me, in chiave più antropologicamente consapevole, l’indicatore linguistico di una condizione di subalternità. Usato in chiave di resistenza e anche di sfida, si è fatto sempre più aspro e, a tratti, virulento.
5. Andrea Zanzotto ha dedicato a sua figlia Silvia due poesie: “Gentile e forte creatura della Vallata” e “Silvia, Silvia là sul confine”, che troviamo in “Conglomerati” e in “Per i giovani figli perduti”. Le rivolgo una domanda forse frequente ma sempre preziosa, che qui trova nuova risonanza anche alla luce della vostra amicizia: come era Zanzotto nella quotidianità? Quali tratti della sua presenza, del suo modo di essere, riflettevano quell’intelligenza poetica che ha lasciato un’impronta così profonda nella nostra letteratura?
In primo luogo colpivano di lui – inderogabile per un grande poeta – l’acutissima sensibilità, poi il grande amore per la natura, cespite della sua ispirazione, e altresì la grande tolleranza, collegata certamente anche a un grande senso della fallacia umana, che gli veniva forse più che dall’esperienza diretta dalla grande conoscenza della storia. È da dire al proposito che riusciva, sia per disposizione di indole sia per altezza di visione d’assieme, a distinguere le persone dalle idee cosicché non andava mai in regime di acredine con chi aveva idee opposte alle sue, come se infine anche i peggiori artefici di processi politico-economici nefasti fossero autori ma anche vittime del loro male, in quanto anche perpetrato da altri nonché, intrinsecamente, dall’umana natura. Ricordo che conformemente egli era solito dire che è molto difficile, nelle varie circonvoluzioni della storia, essere sempre coerenti era un vero e proprio dramma per lui, consultato continuamente e pressantemente non solo su argomenti di lunga gittata (come è di solito per i grandi pensatori come lui era) ma, proprio come per i politici, sui problemi impietosamente coinvolgenti e stringenti dell’attualità. Certa spiccia sua rappresentazione di ipocondriaco aveva preceduto la mia conoscenza con lui e lessi poi qualche articolo in cui degli amici letterati gli davano un po’ giocosamente del malato immaginario. In realtà egli fu per tutta la vita alle prese con gravi forme di allergia, chissà poi se anche determinate da combinazioni psicofisiche, ben comprensibili in uno che era versato con la sua intelligenza e la sua cultura superlative sugli inesauribili interrogativi dell’esistere. Era indubbiamente, anche in relazione a questi suoi condizionamenti, meteoropatico: in realtà temeva molto più il freddo che il caldo e molti dei controlli medici cui si sottoponeva dipendevano da reali malesseri che periodicamente lo colpivano. Le amicizie sono fatte anche di consuetudini che diventano in qualche modo ritualità: incontri, scambi culturali, nel caso soprattutto nell’altrui direzione, e poi confidenze e battute: egli aveva, al proposito, un senso bonario della battuta. Si sa, il motto di spirito è psicoanaliticamente considerato complemento necessario a certi stati depressivi. Negli ultimi anni, a fronte di certi suoi problemi di memoria, divenne quasi programmatico rivisitare aspetti culturali ed episodi e aneddoti del passato: ma se questo in un primo tempo si presentava come perseguito soprattutto a verifica di memoria, si fece nel tempo un inesausto passatempo e, non da ultimo uno dei modi, quasi un sortilegio, per stabilizzare l’umore. Nel rapporto con lui risultava ad ogni sempre stupefacente, e nello stesso tempo inibitorio, avvertire lo stacco fra la sua affabile veneta dialettalità – “proverbiale”, al proposito la puntuale citazione, da metereopatico, di proverbi metereologici – e lo spessore intellettuale che ad ogni minimo affondo su qualsiasi argomento in lui si rivelava.
6. La sua raccolta “Da sponda a sponda” è divenuta anche un’opera musicale grazie al gruppo Le Ombre di Rosso: come è nata questa collaborazione che attua una sintesi tra parola poetica e sonorità folk-blues aprendo a nuove modalità di fruizione del testo? E che significato ha assunto per lei questa esperienza?
Il rapporto di collaborazione è nato in modo un po’ estemporaneo. Paolo Steffan, un laureando che aveva fatto la tesi specialistica sui miei scritti aveva vinto attraverso di essa un premio di critica letteraria che gliene garantiva la pubblicazione in libro e in vista di quest’ultima mi aveva chiesto alcune poesie a corredo del testo già prodotto. Io gliene diedi alcune dell’ultima raccolta americana. Non ricordo adesso come ma egli le aveva passate ad un compagno di liceo, Fabio Fantuzzi, appassionato di musica nordamericana: di seguito questi con i compagni di un suo gruppo li aveva messi in musica. Un giorno in cui mi trovavo a Ca’ Foscari, convocato a intervenire nell’ultima sua lezione dal professor Pietro Gibellini, lo studente della tesi mi aveva presentato il compagno, informandomi che si era preso un po’ impropriamente questa libertà. Più avanti, ad un evento letterario mi vennero presentati i componenti del gruppo, tutti laureati e alcuni diplomati al conservatorio e tutti purtroppo senza lavoro. Acconsentii senz’altro alla loro richiesta di musicare qualche altro testo per eseguirlo nei loro concerti. I testi di matrice americana si presentavano naturalmente funzionali all’operazione. La musica folk e segnatamente country erano la vera e propria colonna sonora del Midwest, dove era nata mia madre e risiedevano i miei parenti più stretti, che mi avevano poi sostentato nel tempo di quella musica attraverso la spedizione di LP e audiocassette. Non era pertanto casuale che dei riferimenti comparissero in vari passaggi dei miei scritti ed alcuni testi erano stati poi composti adattando la metrica a quella dei blues. Con l’operazione delle Ombre di Rosso aveva così luogo un secondo e più proprio, quanto più diretto, connubio di contenuti e stili. E devo dire che nella maggior parte delle interpretazioni mi sono pienamente riconosciuto. Un’esperienza precedente era stata percorsa dall’attore Sandro Buzzatti con il supporto dei musicisti Francesca Gallo e Andrea Facchin, che avevano drammatizzato Lungo la traccia, la mia prima raccolta italoamericana. In tema mi vien qui di riferire una immediata e colorita rastremazione verso il basso della country music a cura di D. Henry Thoreau nel suo celebre libro “La vita nei boschi”. Evidentemente già nell’Ottocento questo tipo di musica, assai sincretico dato il melting pot statunitense ma dal più ricorrente denominatore irlandese, era abbastanza comune. «A sera il lontano muggito di qualche vacca, all’orizzonte, oltre i boschi, risuona dolce e melodioso e, sul momento, io l’avrei preso per la voce di certi menestrelli che di tanto in tanto venivano a farmi la serenata, in giro per valli e colline; ma tosto ne ero non spiacevolmente disilluso, quando quella musica si prolungava in quella comune e naturale della vacca. Dicendo che il canto di quei giovani era simile alla musica di quelle vacche non voglio fare dell’ironia, ma dire quanto lo apprezzassi in quanto ambedue erano, alla fine, una sola articolazione della natura».
NB: Non è stato sempre possibile rispettare la grafia dell’originale.