Saba

da | Lug 18, 2017

Saba di Stefano Carrai, da poco uscito per l’editore Salerno, è una monografia sull’opera in versi e in prosa di Umberto Saba. Dal terzo capitolo, La fase della maturità, tra classicismo e psicoanalisi, publichiamo un estratto sulla serie Preludio e fughe.

Ut musica poesis: Preludio e fughe

Alla fine degli anni Venti, mentre raccoglieva i primi frutti del successo, Saba si scopriva sempre di piú attratto da nuovi esperimenti: il punto piú avanzato di questa propensione fu Preludio e fughe.
L’aspirazione a una poesia che mutuasse dalla musica una forma insieme precisa e melodica aveva preso corpo già nel 1923 con Preludio e canzonette. Ma il titolo stesso diceva che si trattava di poesia cantabile, ammiccante alla melica settecentesca, piuttosto che di vera e propria ambizione di fare, per cosí dire, della musica in versi. In Storia e cronistoria del Canzoniere il poeta indicò invece chiaramente il sottile rapporto fra la nuova serie musicale – nel progetto ancora dodici poesie inquadrate da un preludio e da un congedo – e la sua aspirazione tardoadolescenziale a fare il violinista. «Quando Saba era molto giovane, s’era messo in testa di studiare il violino; di diventare, benché non avesse affatto orecchio… concertista. Fu un errore, nato sia dal narcisismo dell’adolescenza, sia da un confuso bisogno di esprimersi ». Si ricordi ancora una volta, del resto, che sulla copertina del Canzoniere 1945 c’è l’immagine di un violino appoggiato sul davanzale di una finestra, come a dire il sogno dell’adolescenza – la carriera violinistica appunto – abbandonato in un luogo d’elezione del solipsismo poetico.
Saba racconta cosí l’occasione che mise in moto l’ispirazione:

Ora accadde che un giorno – udendo una sua nipotina eseguire al piano alcuni esercizi, Saba ebbe egli pure la sua “strana idea”: quella – come gli diceva piú tardi, ridendo, Italo Svevo – di « suonare il violino sul piano ». […] Per attuare la sua “strana idea”, Saba – che faceva allora il libraio antiquario – si comperò, a rate, un pianino. Prese anche delle lezioni, ma limitatamente alla sola chiave di violino. Si proponeva, in una parola, di eseguire al piano i pezzi – gli studi – che, da ragazzo, non era riuscito a eseguire sul violino; fra questi la famosa Fuga di Bach. […] Per Saba quella di « suonare il violino sul piano » si trasformò – altre circostanze aiutando – nel libro che adesso s’intitola Preludio e fughe.

L’acquisto del pianino Gaveau e le lezioni che il poeta prese allora dalla pianista Alice Cantoni erano funzionali – stando a quanto Saba diceva – all’ambizione di provare sulla tastiera i brani che aveva eseguito malamente da ragazzo sulle corde del violino. L’autoesegesi rende chiaro che la suite nacque per una forma di osmosi con la musica ancora piú accentuata di quella che pochi anni prima aveva animato i montaliani Accordi, ossia dal tentativo di suonare Bach non sul violino né sul piano ma in parole. Scrivendo a Giuseppe Carlo Paratico il 17 novembre del ’27 il poeta affermava infatti:

Da alcuni mesi mi sono messo, a quarantaquattro anni, a suonare il pianoforte. Sono cose semplicissime, piccoli studi elementari (oh assai, assai belli!) qualche corale, e cose simili. Ne ho ricavato qualche conforto alla desolazione della mia vita, e per soprammercato, queste poesie musicali.

L’esperimento nasceva da una sorta di regressione all’adolescenza, ma era anche in linea con il neoclassicismo e con il ritorno a Bach caratteristico di molta musica degli anni Venti, che non sarà stato ignoto al poeta. A tale riguardo non è da sottovalutare nemmeno la dedica della serie alla moglie di Benco, Delia Zuccoli, scrittrice anch’essa e anch’essa, al pari del marito, musicofila, amica di compositori come Antonio Smareglia e Giovan Francesco Malipiero. Ad ogni modo, l’importanza e il fascino di Preludio e fughe stanno soprattutto nel sovrapporsi di istanze psicanalitiche all’aspirazione di far musica in parole. Ancora in Storia e cronistoria il poeta spiegava che la tipologia delle voci che si rincorrono l’una con l’altra, secondo il genere musicale della fuga, esprimevano aspetti diversi della personalità come in gara fra di loro: distinte graficamente da tondo e corsivo, «una voce lieta ed una malinconica, una, di fronte alla vita, “ottimista” e l’altra “pessimista”, si scambiano, per cosí dire, le parti, penetrano una nell’altra». Si trattava insomma di ricomporre nella musica verbale un io diviso.

[…]

Nella forma metrica rigorosa […] Saba ha riversato il dialogo fra l’elemento apollineo e quello dionisiaco della sua personalità, che già all’altezza di Autobiografia gli erano apparsi come il duplice retaggio ricevuto dalla madre e dal padre, e ha bipartito precisamente le strofette secondo il principio costitutivo proprio di un’invenzione musicale a due voci (con l’eccezione della quinta strofa dove il cambio di voce slitta di due parole). Si legga la brillante descrizione di Debenedetti:

Quanto piú queste voci dell’anima si divincolano da ogni immagine impegnativa che le fissi, e si esaltano nel rabesco segnato dalla loro aerea vicenda, nella invisibile e flessuosa linea magicamente tracciata dal loro presentarsi e turbarsi, apparire e scomparire – tanto piú una grazia di immagini lievi ed evanescenti si affolla intorno a loro, le accompagna per un tratto e poi improvvisa s’invola, per cedere luogo al passaggio d’altre immagini.

La compresenza dell’ascendente paterno e di quello materno finalmente risolti in canto è peraltro esplicitata in un passaggio del Preludio, scritto dopo le Fughe quale loro chiave interpretativa («Come i parenti m’han dato due vite, / e di fonderle in una io fui capace»). Alla rispondenza delle rime distico dopo distico è affidato il compito di rendere l’idea del rincorrersi delle voci. Sul piano connotativo, la seconda voce vuole essere espressione della «calda vita», secondo la formula già impiegata nel Borgo di Cuor morituro e che caratterizzerà la ricezione del Saba di questo periodo, tant’è che Quarantotti Gambini la promuoverà a titolo di un suo romanzo in cui Saba agisce quale personaggio. L’elemento patetico, sempre insito nella poetica sabiana, affiora ripetutamente, tradendo a volte reminiscenze probabilmente melodrammatiche, come nella clausola «l’Eco risponde!», tradizionale ma qui singolarmente vicina a quella presente nella scena iniziale di Orfeo ed Euridice di Gluck («Ma sola al mio dolor, / perché conobbe amor, / l’Eco risponde»). Analogo principio regola lo svolgimento delle altre fughe, a parte la sesta, che è invece a tre voci, sebbene Saba stesso in Storia e cronistoria suggerisca che si possono semplificare e ridurre anch’esse, in fondo, a due dal momento che quella dell’Eco e quella dell’Ombra – scriveva – «sono in realtà una sola».
Si ricordi, in proposito, che nella lettera ad Alfredo Segre del 4 gennaio 1946 il poeta parlerà dell’attribuzione di queste voci:

Ti ringrazio anche di aver letta a quei tuoi amici il canto a tre voci. Credo facilmente che hai letto bene. Chi sa che un giorno io, dopo di averla vagliata, non sfrutti questa tua capacità. La prima voce di quel canto è veramente la tua. La seconda potrei essere io. Per la terza bisognerebbe trovare una fanciulla, dalla voce ancora acerba.

Quando Saba diceva che la prima voce è proprio quella di Segre si riferiva evidentemente alla possibilità di eseguire oralmente la poesia; tant’è che aggiunge subito che la seconda potrebbe farla egli stesso, mentre per la terza bisognerebbe trovare una adolescente. Quest’ultima astratta assegnazione concorda con quanto aveva scritto a Paratico nella stessa lettera sopra ricordata, dove dichiarava apertamente che la terza voce era ispirata a quella della figlia Linuccia allora diciassettenne:

Io mi ero proposto di dipingervi un angelo, ma poi, dopo fatta, mi sono accorto che v’è in essa qualcosa di mia figlia «mangiata viva» come dice lei «dagli adolescenti». Ma solo qualche sguardo e qualche atteggiamento: tutto il resto è libera fantasia.

La precisazione va letta a fronte del brano di Storia e cronistoria in cui Saba raccontava l’occasione che aveva ispirato la poesia, parlando come al solito di sé in terza persona:

Un giorno – alcuni anni prima del tempo delle Fughe – egli vide una fanciulla molto giovane ancora, molto – come a quell’età usa – amante di se stessa, e solo di se stessa. Sedeva davanti ad uno specchio (lo stesso che il lettore ritroverà nella poesia del Piccolo Berto che a lui s’intitola); le stavano accanto, uno alla sua destra ed uno alla sua sinistra, due amici. Il primo era un giovane fatto, il secondo poco piú che adolescente. Parlavano, senza farle direttamente la corte, d’amore. Ed uno di essi, il primo, vantava dell’amore le facili delizie; l’altro i (per lui) deliziosi tormenti. La fanciulla ascoltava l’uno e l’altro; sembrava però lieta di non dover ancora nulla a nessuno. Sembrava assente, intesa solo a vagheggiarsi allo specchio; senonché, pian piano, porgeva sempre piú orecchio a quello che i due giovani dicevano in presenza di lei, e, benché a lei non si rivolgessero, per lei. Due ragazzi che fanno la corte ad una fanciulla e cercano di sopraffarsi a vicenda, non è uno spettacolo raro a vedersi. La fanciulla molto ancora “narcisa”; i due ragazzi, a giudicarli dai discorsi che tenevano, nati sotto due costellazioni diverse: il piú
adulto – direbbe Jung – sotto quella dell’ “estraversione”, il minore sotto quella dell’ “introversione” degli istinti. Ecco, nelle loro remote origini, nelle origini – diremo cosí – terrene, la prima, la seconda e la terza voce.

A parte l’inversione nell’ordine (qui la voce della ragazza risulta non la terza bensí la prima) dovuta a logiche contingenti, è chiaro che il primo impulso a scrivere la poesia era venuto dal riaffiorare del ricordo di una scena di corteggiamento nei confronti di Linuccia da parte di due giovani: il rinvio alla fanciulla davanti allo specchio nel Piccolo Berto è, al riguardo, inequivocabile. Tuttavia è evidente anche che la figlia del poeta ha prestato alla terza voce non piú che il suo accento, o la sua tonalità, perché di fatto anche il «canto a tre voci» viene a ricomporre nella polifonia una personalità che intende essere soprattutto quella del suo autore. «L’accenno a Jung è l’unico che si trovi nell’opera di Saba – cosí Lavagetto ha commentato la pagina di Storia e cronistoria – e verrebbe il sospetto che, ancora una volta, la chiave sia stata nascosta nel luogo piú evidente, sotto gli occhi di tutti», cioè che un io scisso sia ricomponibile solo in virtú di un’alchimia che è quella della poesia.
Bisogna anche dire che Saba reinterpretava in chiave polifonica una dialogicità che alla tradizione poetica italiana non era ignota. Un lettore d’eccezione come Solmi, proprio a proposito del «canto a tre voci», ha richiamato il precedente della Tragedia umile di Vittorio Betteloni in cui il corso di una vita è scandito dall’intrecciarsi delle voci della Fanciulla, della Vita, di uno Spirito, del Terrore e della Morte. Ma del tutto inedita era la rifunzionalizzazione dello schema dialogico a ricomporre – come dicevo – un dissidio interiore, in cui il poeta metteva a frutto la sua costitutiva predisposizione ad accogliere istanze psicanalitiche.
Interessante, a questo proposito, anche che un testo di tale intimità con se stesso ospitasse, piú di altri, echi dell’avversione al fascismo allora imperante. In Storia e cronistoria il poeta avrebbe rivelato che i versi «Là uccisor non v’è, né ucciso, / e non torbida demenza» celavano un velato accenno al delitto Matteotti, decrittandoli cosí: «Nel pensiero di Saba, l’ucciso era Matteotti, l’uccisore Dumini, e torbida demenza il fascismo». Analoga allusione alla situazione politica era nel primo congedo. Inizialmente il poeta aggiunse infatti alla serie un finale di quattro versi:

Dalla marea che un popolo ha sommerso,
e me con esso, ancora
levo la testa? Ancora
ascolto? Ancora non è tutto perso?

Era una chiusa che virava allusivamente verso il condizionamento esercitato dal fascismo sulle coscienze e sulla sensibilità degl’italiani. Lo conferma quanto l’autore stesso dichiarerà in Storia e cronistoria in merito al tentativo, implicito in Preludio e fughe, di rifugiarsi in se stessi per sfuggire alla tetraggine di una realtà dominata dal regime: è probabile che, senza il fascismo, Saba non avrebbe scritte queste poesie e che esso ne fu – almeno quanto il violino – una delle cause piú efficienti. Non potendo in nessun modo reagire a quello che egli presentiva un funesto errore, e soffrendo moltissimo, e dell’errore in sé e della sua impotenza, egli si rifugiò piú che mai in se stesso, tappandosi – anche materialmente – le orecchie, per non udire le voci degli altoparlanti, e ascoltando invece, con piú concentrata attenzione, altre “voci” che si combattevano nel suo cuore «dal nascere in due scisso». L’allusività politica del congedo sconsigliava di pubblicarlo durante il ventennio fascista. Perciò al momento di far uscire la suite per le edizioni di «Solaria», nel 1928, Saba lo omise. Poi, all’atto di ristamparla nel ’33 entro il volumetto intitolato Tre composizioni, ne scrisse un altro, piú prudente e al tempo stesso assai eloquente circa l’interpretazione delle due voci in gara fra loro:

O mio cuore dal nascere in due scisso,
quante pene durai per uno farne!
Quante rose a nascondere un abisso!

All’atto di riorganizzare il Canzoniere in vista dell’edizione del 1945, egli recuperò infine il congedo originario senza però eliminare quello già apparso a stampa: cosí i congedi divennero due, e tanti rimasero in ogni successiva riedizione.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).