Ricordi dal «mondo meraviglioso». Per una rilettura dell'”Ernesto” di Saba

da | Giu 6, 2013

Roma, 1953. Un grande poeta italiano, quasi alla fine dei suoi giorni, decide di scrivere un romanzo, il suo unico romanzo. Il filo della memoria si sgomitola fino ad arrivare al bandolo di Trieste, 1898: ovvero a un adolescente e alla sua particolare, scandalosa iniziazione erotica, vissuta però con la prodigiosa innocenza che di solito accompagna i gesti dei poeti. Come il romanzo, questo ragazzo si chiama Ernesto, e il grande poeta che nel protagonista vuole tramandare il ricordo di se stesso e di quel  «mondo meraviglioso» è Umberto Saba. La sostanza del libro si può riassumere in poche righe: Ernesto, un ragazzino di buona famiglia si lascia facilmente sedurre da un adulto, umile manovale nella ditta in cui lavorano entrambi, e i rapporti fra i due, di natura unicamente sessuale, vengono descritti dall’autore con abbondanza di dettagli e franchezza di linguaggio, ma anche con «tranquilla innocenza» (p.14); dopo alcuni incontri, e dopo aver vissuto la propria prima volta anche in ambito eterosessuale, grazie a una gentilissima prostituta, Ernesto si stancherà dell’uomo; il testo, incompleto, si arresta sull’amicizia di Ernesto con un violinista adolescente di poco più giovane di lui, Ilio, che lo affascina dal punto di vista estetico non meno che da quello intellettuale.

Poco importa, per l’autore, che ha sempre sventolato con orgoglio il vessillo della «letteratura onesta», il fatto che tali ricordi possano destare la moralistica riprovazione di certo pubblico di lettori: prevale in lui quasi la sensazione di non aver detto tutto ciò che aveva da dire, e dunque l’obbligo morale e non certo moralistico di dirlo, prima che si esaurisca per sempre il tempo assegnato su questa terra. E in effetti, il primo e ultimo romanzo di Saba nasce in condizioni biografiche abbastanza precarie: concepito durante il forzato soggiorno in una clinica romana, il testo si sviluppa ordinatamente in quattro episodi dotati di una loro complessiva compiutezza, tanto che al termine l’autore vi appone un breve scritto dal titolo Quasi una conclusione. D’altro canto, come già denuncia la limitazione esplicitata in quel «Quasi», Saba riteneva di poter ampliare la propria retrospettiva su Ernesto, e si provò a continuarne le vicende con un Quinto episodio (in cui avviene l’incontro con Ilio) che risulta tuttavia chiaramente sospeso sul piano narrativo. Anche sul versante della leggibilità e della divulgazione, il libro viene avvertito dall’autore con un forte sentimento di preclusione: se nel testo il narratore si rivolge direttamente all’«inverosimile lettore» del romanzo (p. 33), lo stesso viene definito «impubblicabile» nelle lettere inviate ad amici e familiari durante la stesura, con la precisazione che «la non pubblicabilità del racconto» – così era il testo «che potrebbe fermarsi al primo episodio» inizialmente concepito da Saba – «non sta tanto nei fatti narrati quanto nel linguaggio che parlano i personaggi»[1].

Di fatto, il romanzo verrà stampato solo nel 1975, a diversi lustri dalla morte dell’autore, risultando ancora oggi un’opera poco letta e studiata[2]; le dichiarazioni di Saba che ho riportato risalgono invece al 1953, e riflettono una preoccupazione tutto sommato plausibile ad un’altezza cronologica che ancora non aveva registrato l’edizione in volume – e il successo – di romanzi centrati sulla coesistenza di lingua e dialetto come Ragazzi di vita di Pasolini o Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda. Lo stesso Saba appare altrove del tutto persuaso del fatto che il romanzo non potrà avere altri lettori che pochi amici e parenti[3], e non solo per una questione di linguaggio:

«Il libro – che si riporta a fatti remotissimi: agli ultimi anni del Milleottocento – è insieme lieto e spietato: spietato per aver superato, scrivendone quello che ne ho scritto, tutte le possibili inibizioni. (Sapevo da quando ne ho scritta la prima riga in clinica, che non era per la pubblicazione)»[4].

Elsa Morante, fra i primi ed esclusivi lettori del romanzo, fornirà pochi anni dopo un riscontro quasi speculare rispetto alle considerazioni di Saba, nell’ambito di un’inchiesta Sull’erotismo in letteratura promossa da «Nuovi Argomenti» nel 1961. Per la Morante, l’autore di Ernesto

«nella sua narrazione, non tralascia alcun particolare, per quanto difficilee segreto, purché gli sembri necessario; non castiga nessuna parola. Però, le stesse cose che altri, nel dirle, potrebbe rendere oscene, o ridicole, o sordide, si rivelano invece, dette da lui, nella loro chiarezza reale, naturali e senza offesa».[5]

E tuttavia, ricordando che per Ragazzi di vita, uscito nel 1955, Pasolini subì un processo per oscenità, possiamo facilmente immaginare quale sarebbe stato il destino di un libro come Ernesto se pubblicato in quei dintorni cronologici, e comprendere come l’autore abbia infine preferito trascorrere in pace gli ultimi anni della sua vita. In ogni caso, la limitazione del pubblico, sia reale che fittizio, pare aver giovato alla qualità dell’opera sabiana, producendo una liberazione sul piano di quella sincerità espressiva che per il narratore di Ernesto equivale alla creatività artistica e alla stessa conquista dello «stile»:

«quel giungere al cuore delle cose, al centro arroventato della vita, superando insistenze e inibizioni, senza perifrasi e giri inutili di parole; si trattasse di cose considerate basse e volgari (magari proibite) o di altre considerate «sublimi», e situandole tutte -come fa la Natura- sullo stesso piano»[6].

In uno stile concepito per «giungere al cuore delle cose», lingua e dialetto[7] si propongono come strumenti differenziati ma tutto sommato non troppo gerarchizzati (fatte salve le distinzioni sociali che ne connotano l’uso), tesi entrambi a rendere gli aspetti variegati, ma soprattutto veritieri, di una medesima realtà. A questa stessa funzione euristica risponde nel romanzo anche l’uso del tedesco, assai minore per qualità e quantità: è infatti praticamente limitato alla  parlata non troppo  forbita del signor Wilder, datore di lavoro di Ernesto, ebreo ungherese ma grande estimatore della Germania[8] (p. 13). Questi chiama continuamente (e non senza affetto) il ragazzo «verfluchte Kerl»,[9] ma la traduzione che ne dà il narratore, di «fottuto monello» (pp. 26 e 79) esprime un senso supplementare rispetto alle intenzioni del personaggio: un senso che proviene dall’accezione più letterale di «fottuto» («verfluchte», del resto si poteva anche rendere con  «maledetto», «dannato» e simili)  e che finisce per confermare per altra via – dal momento che il romanzo parla soprattutto di un’iniziazione erotica – qual’è l’effettiva condizione del protagonista.

Un altro nodo dialettico fondamentale nell’Ernesto, così come di tutta l’opera poetica di Saba, è sicuramente rappresentato dal rapporto fra innovazione e tradizione. Se infatti i contenuti particolarmente espliciti e la forma linguistica del romanzo depongono a favore di una prova decisamente innovativa, è anche vero che nel romanzo permangono elementi di non recente tradizione, come l’impostazione della vicenda secondo gli schemi del bildungsroman, affidata alle cure di un narratore onnisciente e narrata in terza persona, oltreché la totale assenza di «punte espressionistiche» già notata da Antonio Daniele[10]. Tutto ciò non stupisce nell’opera di un autore fortemente legato al mondo della cultura prenovecentesca, come non stupisce la ricchezza di espliciti riferimenti di ampia gamma culturale, dal Faust di Goethe (p.110) agli elogi rivolti all’onestà del popolare editore Salani, (p.85) ben coerenti del resto con la fattispecie sabiana dell’intellettuale-libraio. D’uso costante è poi la citazione letteraria, spesso immersa con naturalezza nella soluzione di lingua e dialetto che ne fa risaltare il dato spontaneo, riesce nello stesso tempo a sottolineare l’assoluta ‘diversità’ di Ernesto, e a rimarcare ciò  che lo distanzia irrimediabilmente da un mondo popolare da cui egli non rifugge ed a cui pure non si sente estraneo[11]. Così avviene nella menzione, da parte di Ernesto, di un componimento del Poema paradisiaco, che l’«uomo», ovvero l’umile manovale che il ragazzo ha coinvolto nella sua prima esperienza erotica, certamente non conosce:

«Ghe xe un grande poeta (el se ciama d’Annunzio) che vivi ancora e che gaveva anca   lui una baia. Adesso el devi esser vecio; ma el ghe ga scrito lo stesso una poesia. El la ga intitolada Alla mia nutrice. Un mio cugin me ga prestado il libro dove che la xe stampada. La xe assai bela; o almeno a mi la me ga piasso assai, la go quasi imparada a memoria. Ci fu un breve silenzio. L’uomo non sapeva cosa rispondere. Pareva – era – intimorito» (p.46).[12]

Sul terreno misto preparato da lingua e dialetto, poi, sorgono equivoci ben significativi, che non sono solo le spie di un’«integrazione linguistica» perseguita dall’autore, in questo caso sottile «indagatore di lapsus» (come vuole lo stesso Daniele[13]): così, sia quando  Ernesto dice all’«uomo»: «El me par Alì Babà» e questi risponde, fraintendendo «No son […] una baba», ovvero una donnetta, «e lei el dovessi saverlo» (pp. 82-3), sia nell’incontro di sfuggita con la giovane donna appariscente che a Ernesto, fresco lettore di Virgilio, fa dire non abbastanza sottovoce: «Xe la guerra di Troia», suscitando il risentimento della donna che evidentemente ha compreso più che altro l’ultima parola e nel senso meno nobile (p. 131), ci troviamo di fronte a riferimenti culturali che vengono travisati (certamente per ignoranza, ma anche perché fuori posto nel contesto dialettale) e quindi equivocamente avvertiti come altrettante offese dai rispettivi destinatari popolani. Sempre nell’ambito della contestuale adozione di lingua e dialetto, si potrà ancora notare come l’italiano di Ernesto sia modernissimo, piano e colloquiale, deputato all’analisi fulminea di sensazioni, impressioni, speranze e aspettative, praticamente privo di figure retoriche, le quali invece compaiono non di rado nell’espressione in dialetto, considerato evidentemente come l’idioma dove è di casa il modo di dire.

Un cenno particolare, infine, merita il narratore di Ernesto: onnisciente, come s’è detto, nè si poteva immaginare una figura differente nel progetto di un romanzo così fortemente animato da finalità euristiche[14], ma che dispiega il proprio eloquio a partire da una visuale cronologica contemporanea a quella della stesura (esplicita nel testo: «oggi- agosto 1953», p. 89) e quindi sfalsata di oltre mezzo secolo rispetto alle vicende narrate, le cui coordinate spazio-temporali sono anch’esse indicate con precisione: «siamo nel 1898 a Trieste» (p. 33). A rimarcare ulteriormente questa sfasatura pensa lo stesso narratore, con una serie di notazioni che evidenziano soprattutto il sostanziale cambiamento di mentalità avvenuto nel frattempo. Così ad esempio negli incisi: «era – come si direbbe oggi – un patriota e non un nazionalista» (p. 76); «i mercanti, i fez  rossi, i buoni gelati, quali, se Ernesto fosse vivo, ed amasse  ancora i gelati, non ritroverebbe oggi in nessun posto» (p. 85), oppure:

«- Sei ancora fissato al violino, – gli rispose la signora Celestina, con l’aria di una buona donna che dicesse oggi al figlio «sportivo»: «Hai perduta la testa dietro il pallone», alludendo al gioco del calcio, quando minacci di sviarlo dallo studio o dal lavoro» (p. 118).

L’asincronia della narrazione rispetto ai fatti narrati non fa altro che rafforzare ulteriormente gli intenti espressi già a partire dall’exergo del romanzo, tesi a illustrare gli aspetti di un mondo, insieme storico e psicologico, che non c’è più:

«Mi piacerebbe, adesso che sono vecchio, dipingere, con tranquilla innocenza, il mondo meraviglioso;»

tale intenzione viene presa a prestito dalle primissime righe di una prosa sabiana autobiografica ma di tutt’altro tenore, il «ricordo» del 1947 Il Bianco Immacolato Signore (ovvero d’Annunzio)[15], che, assai significativamente, contengono e preannunciano un tratto comune allo «stile» del personaggio Ernesto: proprio quella «tranquilla innocenza» con cui il ragazzo chiede all’uomo, senza troppi giri di parole, ciò che non si può dire né fare, o si può dire e fare solo di nascosto, per il resto del mondo.

 


[1] Così nella lettera del 30 maggio 1953 a Lina Saba, riportata in appendice a U. Saba, Ernesto, Torino, Einaudi 1978, p. 141; da qui in poi si citerà costantemente da questa edizione.

[2]Malgrado autorevoli pareri ne abbiano rilevato l’indubbio valore letterario: così ad esempio Pier Vincenzo Mengaldo, che nella sua antologia Poeti italiani del Novecento (Milano, Mondadori 1981, p. 185) parla di «notevolissimo romanzo».

[3]Si veda la lettera del 25 luglio, in cui Saba raccomanda a Linuccia di non far leggere «il secondo capitolo del quarto episodio» se non a «Carlo» [Levi] o «se mai, a Bettina» e di non lasciarlo in giro, ed anzi di tenerlo sotto chiave, «e le chiavi in vostre mani» (Saba, Ernesto, p. 147).

[4]Si cita dalla lettera del 25 agosto 1953 a Pier Antonio Quarantotti Gambini, riportata da Sergio Miniussi in Saba, Ernesto, p. 154.

[5]Cfr. Otto domande sull’erotismo in letteratura, in «Nuovi Argomenti» nn.51-52, luglio-ottobre 1961.

[6]Saba,Ernesto, p. 15.

[7]Per una disamina dei rapporti fra lingua e dialetto nel romanzo sabiano si vedano A. Daniele, Lingua e dialetto nell’«Ernesto» di Saba, «Studi novecenteschi» n.16, 1977, e E. Favretti, Lingua dialetto e altro nell’«Ernesto», in La prosa di Umberto Saba. Dai racconti giovanili a «Ernesto», Roma, Bonacci 1982.

[8]Una notazione prolessica del romanzo, a p. 79, rimarca gli esiti paradossali dello smisurato amore di Wilder per la Germania, destinato a «finire, già decrepito, in un’infornata di ebrei ungheresi, sollecitata prima, messa in atto poi, dalla sua tanto amata Germania, che vedeva in lui, allora più che ottantenne, un pericoloso nemico del III Reich millenario…».

[9]Alle pp. 26, 31, 77, 79, 90.

[10]A. Daniele, op.cit., p. 99.

[11]Si veda, ad esempio, il passo di p.69: «Già alcuni operai uscivano dagli stabilimenti, in doppia fila, con la gamella del pranzo in mano. «Tutti compagni, tutti socialisti», pensò Ernesto, che avrebbe voluto essere uno di loro».

[12]La predilezione di Ernesto per il componimento dannunziano viene ribadita in una lettera del 28 giugno 1953 a Nora Baldi: «Gli piaceva molto una poesia che d’Annunzio scrisse a circa 30 anni (ALLA NUTRICE; ma lo considerava un vecchio e si meravigliava (nel 1898) che scrivesse ancora» (U.Saba, Lettere a un’amica. Settantaquattro lettere a Nora Baldi, Torino, Einaudi 1966, p. 49).

[13]A. Daniele, op.cit.,pp. 107-108.

[14] Si veda ad esempio p.22: «L’uomo diceva la verità».

[15] Per il rapporto fra Saba e la figura di d’Annunzio mi permetto di rimandare ad A. Zollino, Il personaggio d’Annunzio nella letteratura italiana, in D’Annunzio come personaggio nell’immaginario italiano ed europeo (1938-2008). Una mappa. Atti del convegno internazionale di Liège (19-20 febbraio 2008) a c. di L. Curreri, _Brussels, Peter Lang 2008, pp.53-4.