«Questo splendore d’ingranaggi e ordigni»: 10 poesie di Dario Villa

da | Ott 22, 2025

In anteprima da «Opera in versi», a cura di Alessandro Giammei, Crocetti, 2025. Selezione a cura di Dario Bertini.

 

Il terzo giorno ho inventato sapori
ossuti come un disegno di Schiele.
Aprendo il frigorifero ho compreso
le architetture deserte del vuoto.

Stranito dalla fame, percorrendo
stradine dove gli uomini erano altri,
ho letto epigrafi straniere a iosa
scritte sotto la foto di un prodotto.

Tra i pinnacoli in cima alla città
di un duomo tardo gotico, ravvolto
in un kaftano sbiadito, ho intravisto
l’omino di Chagall, col suo violino.

Forse era meglio scendere. Incontrare
una lattina di tonno in un punto
della navata laterale, in fondo,
mi era parso possibile. Che errore.

 

*

è la notte dei tempi
passa l’ornitorinco
con il suo libro di sabbah il suo labbro
di fibbia il suo stinco di santo

lo so lo so che il senso del mio amore
sa di papavero e nell’Edificio
la moda impone più metalli o carte
che vegetali o paperi

so che le torte azzurre
non soddisfano più che i necrofagi
e i numeri irrazionali
s’insinuano dentro i sarcofaghi

so di non essere in fondo
che un essere autobiografico
del resto l’alba è lontana
frulla tuttora il frigorifero

benché semivuoto
mi sporgo sulla bottiglia
travedo le mie mani a coppa
raspare le epigrafi esterne

lo so che potrei sventolare
una stupenda bandiera avvolgente
che si dice sottragga alla riva demente
i camerlenghi del giorno

 

*

Come uno spettro,
salirò quelle viscide
scale. Verrò da te per i gradini
ombrosi, i piani di pietra sconnessi
e lisi, poi farò cricchiare i cardini
della tua porta, a mezzo
assonnata dirai è solo il vento, è un sogno.

Penetrerò nel tuo sogno, leggero,
insidioso, girando
sempre più a fondo il pungolo d’orrore,
ti mostrerò le talpe
dagli occhi spenti che nel centro buio
dell’io scavano i luridi
gli incolmabili buchi senza sbocco,
certo, anche in te, giù, mentre riposi:
e per quel fragile
mistero entrerò lì con tutto il dolce
e l’angoscia e l’amaro del mio amore.

Uscirò dal silenzio
in un doppio silenzio lungo viali
lunari, o attenderò,
tra doppi fondi di valigia, grigio
all’alba, i gradi amari di un risveglio
che non dissiperebbe – ombra ispessita
i perché che ti chiedi
della vita, del vento,
della mia assenza così strana, o è un sogno.

 

*

Per te, mio nulla, scriverò
poesie vuote
come una canna, un cunìco
di nichel, un argenteo Tubo.

Li sfogli il vento, tomi-centifoglie,
criptografie rese al vortice. Un refolo
giocava tra le piume picee
dei piccioni assonnati sul campanario.

Portavo a spasso
qualcosa come uno squasso, un buco,
emicrania da cosmo, da eone.
Dimenticavo la cosa

– la dico: fu
dapprima la sera (la gente
girava ancora), fu notte fonda, fu allora
che mi protesi, attesi, mi voltai, fu l’alba.

 

 

*

Guardo la gatta che
mi guarda e (penso) pensa.
Ma cosa, a cosa mai
potrà pensare un animale, argento?

Avrà notato, sì, che nuoto in nulla,
nel puro vuoto: che scuoto, in molteplici
modi, le zampe davanti e non uso
granché le posteriori.

Ma ignora certo il resto:
che morirò; che, quando penso, tremo
per vuoto di pensiero, per le ombre
che vedo a notte confuse cadere.

Non sa che si consumano
le dita tra le pagine dell’ansia…
come sfogli il mio intimo animale…
Forse è felice se le sfioro il pelo.

 

*

… poi, se ci penso, sono
già esistito in passato,
ho già bevuto,
ho già bevuto il liquore
sottile delle stagioni,
con te o con altri mi sono
già inebriato di quest’ora,
di un vino d’ombre, di un atto mancato…

 

*

a nameless hardness
(no date)

per due o tre bioccoli di pube biondo
avrei dato la vita erano tempi
allegri gli anni di piombo non c’erano
molti indirizzi nel mio repertorio
e non c’erano nomi cancellati
la solita giornata appesa al chiodo
dei desideri senza oggetto aveva
traversato il decennio e sviluppato
un tremito sicuro la speranza
di vederne la fine era ingiallita
nel muro come una stagione cronica
mancava sempre un giorno all’altro mondo
poi come bruma è nata la tua nuca
si è stampato il tuo passo sul vetrone
dei frigidi piaceri cerebrali
tutt’a un tratto eri lì nell’aria cruda
avevi sciolto tra le gambe nude
i nodi dell’inverno
mandandomi in frantumi un arabesco
e adesso? è neve o pioggia
ma questo è solo l’antefatto il resto
non è ancora accaduto o è storia vecchia
per due o tre bioccoli di pube biondo
mi sono perso in fondo alla tua nube
tu hai messo cento giorni in un diario
hai fatto le valigie mi hai lasciato
l’aurora di un biglietto colorato
sulla porta (“non sono la sibilla
non c’è sole”)
e qualche bell’effetto personale
una scatola vuota una foto sfocata
e la cosa migliore
una calza di seta un po’ smagliata
dov’era la caviglia e un suono nero
o un profumo di terra appena smossa
nel punto in cui la sera prima aveva
palpitato lo stelo della coscia

 

*

è più simile a me
l’ombra che resta in piedi quando cado
di quanto non sia io
tanto più umano

così staccato da me
con la mano tuffata tra due rive di sete
dove non scorre che un’idea del tempo
scaturita da un altro e bevuta da tutti

oggi la casa ha l’ordine delle finestre
l’inclinazione del tetto
la teoria delle stanze
la porta interiorizzata
la domanda del letto e gli orologi famosi

la vita ha ritmi sinuosi
come i languori di una donna
tatuata dal solco in questo o in altro
senso che si rovescia
dove piove l’onda

dove naufraga pieno
di spinose speranze
il pesce elaborato dall’abisso
dove se non c’è acqua se nient’altro preme
profondità superficie

la politica esula dall’interesse dei morti
peccato sarei stato un buon fantasma

un tantalo intontito sull’orlo della vasca

 

*

redattore dell’aria, ho molte volte
volato tra volumi d’etere, tremanti nevi,
ho stampato refusi folgoranti
nel cielo plumbeo delle tipografie,
volutamente confondendo le
valutazioni della mente, visto
si stampi, fatalmente
ho curato volumi di pagine senza una riga,
secondo le volute del mio enciclopedismo:
non è bastato: la censura ha espunto
certi spazi bianchi, certe
trasparenti allusioni (un tal candore,
tanta clarté fin nei margini
infastidiva le mosche); i miei colleghi
sono tutti morti, escono
dall’aldilà del tempo, levano la testa
da palinsesti penosi e non hanno più mani
per emendare l’opera della storia,
vivono d’eco e d’interpretazioni;
ho chiesto asilo poetico in regioni astrali,
perseguitato da cavilli a dondolo,
minacciato d’archivio e di lavori
forzati su carta traslucida a vita
per editare a dispense in cento secoli
il bianconero del reale, ho riempito di errori
le mie memorie, d’aporie i sistemi
che mi frullavano per il cappello,
ho sottratto mattoni ai cantieri del metodo,
non c’è casa al cui senso mi senta tranquillo;
forse mi è capitato di descrivere
l’assordante violenza del vuoto,
il lavorio da topo dell’alienazione,
il punto in cui le parole non tengono,
la nitida imprecisione dei sogni…
ma il fine non l’ho capito, non ho trovato la frase,
non ho risolto teoremi minimi,
non dispongo di chiose per certi capitoli,
non so glossare la morte

 

*

l’angelo è quasi orgoglioso
dell’opera quasi compiuta,
è quasi assemblata la gloria,
questo splendore d’ingranaggi e ordigni

– ha lucidato l’ossatura,
ha incastrato con cura
i pezzi più complicati,
ma adesso mancano i particolari:

fruga tra vecchi scarti
(un dorio, un ario, un villanoviano,
un macaco, un egizio antico,
un tolteco, un silfo) – l’angelo suda

ha la tunica fradicia e s’asciuga con l’ala,
bofonchia: “non si lascia modellare…
questo bipede è peggio d’una nuvola!”,
chiede lumi a un rabbino già smontato…

“encefalo… zucchetto… tutto okay…
ma l’altra mano dov’è,
dove sono le corde vocali?
dio non senti la mia voce?

potessi darmi una mano…
… ma in che accozzo di membra avrò cacciato
il cazzo l’anima la pelle il mastice
la scintilla vitale? mica posso

farlo pelato… al diavolo!”,
decide l’angelo,
“altro golem mancato…”: prende e butta
via tutto, giù, nel mondo o agli inferi