Quaderno di quattro anni

da | Giu 21, 2015

È da poco uscito negli Oscar Mondadori il Quaderno di quattro anni di Eugenio Montale (edizione commentata), a cura di Alberto Bertoni e Guido Mattia Gallerani, con uno scritto di Cesare Garboli e un saggio di Giorgio Orelli (Mondadori, 2015). Proponiamo alcuni passi dall’Introduzione di Alberto Bertoni e dal commento di Guido Mattia Gallerani alla poesia Il consumo non può per necessità….

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Al di fuori della miriade di riferimenti panreligiosi che è propria del Quaderno di quattro anni, uno dei tratti simbolici più forti (in quanto ambivalenti) che lo attraversa, ripercuotendosi dagli scenari liquidi e marini degli Ossi di seppia, è quello dell’acqua, fattore primo della vita stessa, con la sua potenza simbolica di elemento insieme materno, battesimale, narcisistico.

Ancora una volta è probabile che l’impulso venga da Svevo, in una pagina della Coscienza che s’intreccia con la composizione nel 1916, da parte di Ungaretti, di un altro caposaldo della poesia occidentale, I fiumi. Il paragrafo sveviano si colloca nel vivo del finto idillio che prelude allo scoppio della guerra, in data «15 Maggio 1915»: «Per raccogliermi meglio passai il pomeriggio del secondo giorno solitario alle rive dell’Isonzo. Non c’è miglior raccoglimento che stare a guardare l’acqua corrente. Si sta fermi e l’acqua corrente fornisce lo svago che occorre perché non è uguale a sé stessa nel colore e nel disegno neppure per un attimo». Montale riproduce il frammento nell’Educazione intellettuale, appunto il rito iniziatico che apre il Quaderno per saldarlo agli Ossi. Lo si ricorderà, anche per il capovolgimento di segno – in chiave tutta anti-idillica – implicito nella citazione eraclitea: «E il ragazzo col ciuffo non sapeva / se buttarsi nel mare a grandi bracciate / come se fosse vero che non ci si bagna / due volte nella stessa acqua».

Dentro il Quaderno, questa scena primaria produce almeno altri due sviluppi degni di attenzione. Il primo, in Sotto la pergola, coinvolge quello stesso mare che non era più «tetto di nulla, / neppure di se stesso», definendolo «ancora / un vuoto, un supervuoto e già ne abbiamo / fin troppo, un vuoto duro come un sasso», per la conferma della metamorfosi di ogni elemento vitale in sostanza minerale, inerte, non storica.

L’altro effetto coinvolge invece il rito narcisistico che è alla base del genere lirico. Se infatti si rilegge Riflessi nell’acqua (rifrangendola magari in qualcuno dei molti specchi che agiscono nel Quaderno, spesso in modo nuovo rispetto alla «spera» risucchiante e terribile degli Orecchini, nella Bufera) vi si rileva il disfacimento della figura dell’io narciso (dall’Introduzione di Alberto Bertoni):

Il consumo non può per necessità
obliterare la nostra pelle.
Sopprimendo la quale… ma qui il monologante
si specchiò nel ruscello. Vi si vedeva
una sua emanazione ma disarticolata
e sbilenca che poi sparve addirittura.
Un nulla se n’è andato ch’era anche parte
di me, disse: la fine può procedere
a passo di lumaca. E pensò ad altro.

Con uno degli espedienti tipici con cui Montale riproduce il bavardage intellettuale del suo mondo, il discorso diretto non segnalato apre il testo, ma proprio sul punto d’inneggiare contro il consumismo viene interrotto da un disturbo esterno: l’acqua di un ruscello fa da specchio a chi parla e ne interrompe il flusso di parole. Il cambiamento è improvviso (segnalato soltanto da puntini di sospensione e dalla congiunzione avversativa) e la seconda parte del componimento è la descrizione a costruzione narrativa (da notare i verbi al passato remoto e imperfetto) di questa narcisistica visione.

L’accostamento del primo discorso diretto e della descrizione appare quanto mai stridente anche dal punto di vista tematico: la disquisizione iniziale sugli effetti del consumo, che coprirebbero la nostra umana identità («pelle», v. 2), nulla avrebbe a che vedere con l’immagine riflessa del «monologante», un’altra figura, in negativo, del sapiente; uno dei personaggi più presenti nel Quaderno. Eppure, la fuga veloce del riflesso umano sull’acqua che scorre incessantemente consente una sottile riflessione, riportata in una terza e ultima parte (di nuovo in discorso diretto sorretto da un «disse» che regge al v. 8 quanto gli precede e segue al verso precedente e successivo).

Quella pelle umana da cui si riflette la nostra forma sull’acqua, trasportata via assieme a tutta la nostra immagine, è un’altra espressione della precarietà e dell’inconsistenza dell’identità e dell’esistenza dell’uomo montaliano. D’altro canto, la sua profondità è svuotata e sostituita dalla sua parte più superficiale: una pelle per l’appunto, una membrana che disegna una silhouette riflessa oltretutto malamente, «disarticolata» e «sbilenca», di cui nemmeno è concessa una visione chiara e distinta. Uno stato d’anonimato percorre così interamente il testo, che mai scioglie l’enigma di una situazione indefinibile. Assistiamo al disfacimento in diretta della figura stessa dell’io e dello stesso rito o complesso di Narciso che si pone alla base del genere lirico (dal commento al testo di Guido Mattia Gallerani).

L’integrità della bellezza di chi si specchia è distorta e fatta labile, poi sparisce senza ricongiungersi al soggetto che dovrebbe adorarla, diventare tutt’uno: il mito di Narciso viene capovolto, l’oggetto dello slancio amoroso si svela come miraggio o come inutile Morgana, l’impeto suicida dell’adolescente innamorato di se stesso diventa rapidamente noia, calcolo, rinuncia, vita da consumare «a passo di lumaca». È un’immagine decomposta, da quadro cubista. Così, la lumaca che aveva lasciato una traccia madreperlacea nella calotta del pensiero di chi dettava le proprie ultime volontà, in apertura del Piccolo testamento, ora scandisce il ritmo della fine: ma la nevrosi da consumo (oggi addirittura esplosa, rispetto al 1977 del Quaderno di quattro anni) rende l’esperienza del tempo spendibile ma non più redimibile, né – come ancora in Proust – ritrovabile, dentro il suo paesaggio di rovine (dall’Introduzione di Alberto Bertoni).

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).