Pornogrammia

da | Ago 7, 2015

Sette poesie e una prosa da Pornogrammia, Edizioni Galleria Mazzoli, Modena 2015.

***

li adorano, gli strappi nelle vostre vite, sentieri
compiuti da uomini distratti dai dolori, la cima
di una perfezione umana e i travestimenti
adottati con immaginazione sfatta, nel mattino
portato in ogni ora dalla sabbia
nelle città adorate come non ci fossero
ora ragioni per rassomigliarsi, cullati dallo schermo

*

hanno lasciato
fermo ogni minuto
destinato, è singolare
questa precisione, se tutto
fosse così, essi si sono
scordati
di registrare anche questa pulsazione, il vento,
fogliame di dio.

*

E a volte
sei trottola proprio,
che vortica come la voglia striata di luce di latte
volendo solo, dalle tue zinne,
cavare l’essere io uomo e il fiato e il cazzo
cucito alla mano,
alla nostra porzione di dire:

I morti soli ho però
e i morti
se tornano, come incredibili fantasmi
tu lo vedi,
la luce è corta.

*

Come l’amianto corrode nel fiato
correndo sparirono i muri d’amore

Essere lo stige e la strada
che spinse già dove
non avemmo parole l’inverno

Una sola immagine
che ci desiderasse.

*

sei morta di primo mattino all’inizio
eri morta, composta come i morti e dura
e mi facevi schifo
ero solo e dentro brillava sangue deterso che io
non so più dove abitare come adagiarmi
nel corpo
nelle sere interminabili nella sfiorita
cura del possibile io resto
mentre vivo.

*

L’incapacità del cielo a staccarsi
dai sogni finiti nei canti, staccare
fotogrammi e lumina sbiaditi che hanno
un costo e i risvegli opposti, in questa posizione
a stento
come se al di là della parete, in un deserto domestico
non si perdessero i nomi
et la vita distrutta
si scancellasse lo stesso
alle sue spalle
a ripetere esercizi dell’aria
e nei versi disfatti e illi fogli
irrecuperati
sicut manus aggrovigliate nei tempi
e sui loci recitando la parte del vuoto
per nuovi e incrostati
pezzi e su fiori
anche infedeli
e dispersi, scollati a vero et infiniti.

*

come la paura di fare del male
alla lingua che si leva nei rapporti e appena
io scrivo,
io avverto l’altro
di rompere qualcosa… io
mai
i pezzi, le fratture, i tempi
della lingua da nessuna parte
una cosa è un pezzo esistente
che possa solo scrivere
come vivesse più forte la parola compresa…
forse sarà scritto
e presente sul mio volto che sempre…
oppure bloccarsi nel momento
che si può avere tempo…
forse
non sarà più una lingua
a potersi cambiare.

*

Taùto

In una bara, il taùto. Legno. Foderata. Il buio pestato dal buio. L’aria? Peso. L’aria che pesa, ferma. Implacabile il buio, una fodera con cura applicata, con un punzone. Marrone bruciato. Scura. Implacabile anche la luce che invade, rende la tenebra totale scrofa azionante la cecità. Spesso, sempre: l’aria che è presente, pesa. Spingere un carrello da supermercato, lo spessore dell’alluminio spesso ferro metallo, lindo, sgargiante anche. Condursi, nella spinta del carrello, nei corridoi da supermercato, colmarsi col carrello, fare peso con gli oggett i delle merci, con i loro colori complessi, complicati con raziocinio, con l’astuzia del programma. Spira un’aria ferma, specializzata, quando la spinta si arresta, quando continua, alla cassa, al garage sott erraneo. Le luci bianche, fari, distanze regolarissime, il carrello abbandonato. Svuotato da una forza implacabile, cavata da altre forze montate nei consumabili scenari di lumi e di vuoti. Fare pressione sul tasto di accensione, che prima risultava nell’opposizione pacata allo spegnimento assoluto, questo comprato aggeggio del frullatore laccato, nuovo domestico, nella bara emett e un rumore morto anapestico. Irregolare in se stesso una litania di frazioni fittissime congeneri per pause dissimulate. Respirare in una centrifuga limitata, entro bordi bruciati e precisi, da un punto ombelicale, dall’ombelico coperto da pietre, elementi dei millenni, dei milioni di tempi dedicati al gioco della rivelazione. Gli strati di aria. Il taùto. Morti che si aff acciano da cassett ini di plastica, degli omini pitturati senza uniformi nelle sembianze dei calciatori, uruguagi scozzesi ungheresi olandesi minuti microscopici, cellett e, per cellule, del verde del militare, del rosso del comunista, giallo lurido, un grigiore, che si aggrappano a corde che trapassano l’aria, la luce smorta, fetida, inappellabile come l’aria che circola senza avarizia, vincendo ogni proprio conato, a depositarsi entro altra, consimile, aria. Il taùto, le parole rimesse agli usi dell’interno, dove ogni parola è una lingua breve, provvisoria, fungente. Le parole per pagare alla cassa, le parole tenute in serbo durante l’accensione
il funzionamento, parole competono, è vano, con l’aria e con le luci, molteplici arie si odono rullare accanto a ogni operazione, poche esangui le operazioni tra il vivo e il morire. Necessarie, implacabili, sommesse. Un tonfo, un ruggito, un rantolo, urli e urla, la diff erenza nella parola di esempio, senza universale, senza applicazione insensata. Nel taùto si delineano corsie per miriadi di ripetizioni. Proiett are sulla fodera interna, perché la rompa senza scucirla, la trapassi quindi, proiett are immagini gelose, refratt arie. Intingendo nella mente pezzi di una benevola durata della morte.

Immagine: Uliano Lucas, Manifesto pubblicitario in Piazza della Scala, Milano, 1991.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).