Poesie, prose e traduzioni

da | Ott 16, 2015

È appena uscito il Meridiano Poesie, prose e traduzioni di Clemente Rebora (Mondadori 2015), a cura e con un saggio introduttivo di Adele Dei, e con la collaborazione di Paolo Maccari. Di seguito una scelta di poesie e prose liriche, e alcuni passi dell’introduzione di Adele Dei.

***

Da Frammenti lirici
(Ai primi dieci anni del secolo Ventesimo)

III

Dall’intensa nuvolaglia
giù – brunita la corazza,
con guizzi di lucido giallo,
con suono che scoppia e si scaglia –
piomba il turbine e scorrazza
sul vento proteso a cavallo
campi e ville, e dà battaglia;
ma quand’urta una città
si scàrdina in ogni maglia,
s’inombra come un’occhiaia,
e guizzi e suono e vento
tramuta in ansietà
d’affollate faccende in tormento:
e senza combattere ammazza.

*

VI

Sciorinati giorni dispersi,
cenci all’aria insaziabile:
prementi ore senza uscita,
fanghiglia d’acqua sorgiva:
torpor d’àttimi lascivi
fra lo spirito e il senso;
forsennato voler che a libertà
si lancia e ricade,
inseguita locusta tra sterpi;
e superbo disprezzo
e fatica e rimorso e vano intendere:
e rigirìo sul luogo come cane,
per invilire poi, fuggendo il lezzo,
la verità lontano in pigro scorno;
e ritorno, uguale ritorno
dell’indifferente vita,
mentr’echeggia la via
consueti fragori e nelle corti
s’amplian faccende in conosciute voci,
e bello intorno il mondo, par dileggio
all’inarrivabile gloria
al piacer che non so,
e immemore di me epico arméggio
verso conquiste ch’io non griderò.
Oh per l’umano divenir possente
certezza ineluttabile del vero,
ordisci, ordisci de’ tuoi fili il panno
che saldamente nel tessuto è storia
e nel disegno eternamente è Dio:
ma così, cieco e ignavo,
tra morte e morte vil ritmo fuggente,
anch’io t’avrò fatto; anch’io.

*

XI

O carro vuoto sul binario morto,
ecco per te la merce rude d’urti
e tonfi. Gravido ora pesi
sui telai tesi;
ma nei ràntoli gonfi
si crolla fumida e viene
annusando con fàscino orribile
la macchina ad aggiogarti.
Via dal tuo spazio assorto
all’aspro rullare d’acciaio
al trabalzante stridere dei freni,
incatenato nel gregge
per l’immutabile legge
del continuo aperto cammino:
e trascinato tramandi
e irrigidito rattieni
le chiuse forze inespresse
su ruote vicine e rotaie
incongiungibili e oppresse,
sotto il ciel che balzàno
nel labirinto dei giorni
nel bivio delle stagioni
contro la noia sguinzaglia l’eterno,
verso l’amore pertugia l’esteso,
e non muore e vorrebbe, e non vive e vorrebbe,
mentre la terra gli chiede il suo verbo
e appassionata nel volere acerbo
paga col sangue, sola, la sua fede.

*

XXII

Non è più su di un palmo
oggi il ciel dalla terra:
tumido, opaco, calmo,
l’anima in ombra di poca aria serra.

In un volgere lieve
l’infinito riposa:
la quotidiana e breve
vicenda è il suon concorde d’ogni cosa.

Allor, sorto da ignote
nicchie vapora piano
un senso sopra note
forme: e gioisce del suo ritmo umano.

*

XXVII

È di me parte un uomo da lavoro,
rude le membra e in giubba affumicata,
che tutto nel sonoro
bàttito volge della sua giornata;
è di me parte l’uom che pavoneggia
la vanità della superbia dotta,
e coi bravi gareggia
e pugna dentro alla civile lotta;
è di me parte l’uom che nell’azzardo
del presente s’incita e la gazzetta
ha per vangel, beffardo
a ciò che non appaga la sua fretta;
è di me parte l’uom che s’apparecchia
il gioir dei conforti
mondani, e non si specchia
che dove è la violenza dei più forti;
e altro ancora: e intendo
il divenir tremendo che non cura
l’opporsi, e si fa storia e natura;
ma dove nel libero indugio
arcanamente s’agita il mio volo,
odio l’usura del tempo
paurosamente solo.

*

XXIX

Dai voli torvi di sogni la notte
scendendo nell’alba
rovescia la scialba
zavorra cieca:
e chi si desta, n’ha tórbidi gli occhi,
e chi si leva, le carni n’ha rotte,
e gesti e pensieri
nel cozzo de’ scabri doveri
si sbriciolan sciocchi.
Ma sopra, Dio feroce nello spazio
guizza di luce e si sdraia
sul nostro patire, e lascivo non sazio
fra donne d’eternità gaia
rinnova le estasi libere
del suo piacere; e inconscio ricrea
del mondo le specie e l’idea.
La faccenda così prosegue a vivere;
ma nel giorno, perverso è ciascuno:
ma la sera, dal senso brutale,
dal tedio astioso di male
non scampa nessuno.

*

LVI

E qui, senza riparo né scampo,
senza inganno né fuga,
io vivo con voglia nel tempo;
e del sangue di tutti è il mio polso.
Come canto in melodia,
come nota in armonia,
nell’amor della gente mi paleso:
e vil mi sembra quando con tormento
la voce si smarrisce appena mia.
Come vena profonda alle radici,
come pioggia feconda,
rinascer tento negli altri felici:
e torvo asseto quando la rinuncia
chiuso mi rende dove aperto fui.
Come mamma nella fame
tutto ai bimbi dona il pane,
così m’è grato confortare altrui
mentre rotolo dentro.

*

LXII

Lo spazio poroso e assetato
da cieli e da terre ribeve
istantaneo e insaziato,
e dissipa come riceve
nell’eco ronzante dal basso
la creatura di ventiquattr’ore;
ma qui ognuno nel chiasso
dagli altri si leva signore,
e nel fil del suo sguardo ha l’universo;
il rimanente gli è vano o perverso:
così dalla riva per l’acque in spiraglio
vibra un barbaglio di luna
al passante, che intorno vede ombra.
Stella in baglior di nebulose avvinta,
notte succhiata dal cuor dei tramonti,
goccia indistinta nel grido del mare,
rupe sommersa nel clivo dei monti,
pianta dispersa mentre inseni fonda,
forza agli ordigni nascosta e feconda,
anonima rozza che il carro trascini,
dite dite l’arcana maniera
dell’invisibile amore
a noi, che meschini
coniamo dei nostri suggelli
il lavoro di Dio
gridando: Io, io, io! –

*

Nihil fere sui.

Son l’aratro per solcare:
altri cosparga i semi,
altri èduchi gli steli,
altri vagheggi i fiori,
altri assapori i frutti.

Son la sponda per il mare:
altri assetti le navi,
altri spinga le prore,
altri diriga il viaggio,
altri tocchi le mete.

Il mio verso è un istrumento
che vibrò tropp’alto o basso
nel fermar la prima corda:
ed altre aspettano ancora.

Il mio canto è un sentimento
che dal giorno affaticato
le notturne ore stancò:
e domandava la vita.

Tu, lettor, nel breve suono
che fa chicco dell’immenso,
odi il senso del tuo mondo:
e consentire ti giovi.

***

Da Poesie e prose liriche 1913-1920

Voce di vedetta morta

C’è un corpo in poltiglia
con crespe di faccia, affiorante
sul lezzo dell’aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
affar di chi può, e del fango.
Però se ritorni
tu uomo, di guerra
a chi ignora non dire;
non dire la cosa, ove l’uomo
e la vita s’intendono ancora.
Ma afferra la donna
una notte, dopo un gorgo di baci,
se tornare potrai;
sóffiale che nulla del mondo
redimerà ciò ch’è perso
di noi, i putrefatti di qui;
stringile il cuore a strozzarla:
e se t’ama, lo capirai nella vita
più tardi, o giammai.

*

Coro a bocca chiusa

Afonia infusa d’occhio nemico che punta a due passi. La cosa cade recisa dal tempo: così tutto accade. Ma inseparabile male è dal vischio del corpo la sofferenza precisa. Non arde, e calcina le gambe: non fonde ma cola alle braccia e demenza alla faccia rimane – infusa d’occhio nemico che punta a due passi.

In ogni varco di tenebra inganna la notte dentro un arco di spanna. Se fosser quattr’assi di bara! Stramaglia è di cuori, per la vita distruttori. Mùtila fossa – che se comunichi ai morti, senti in un glùtine scivolarti: aspetta; e se nei becchini risperi, pòsano i bicchieri e dànno mano al badile.
L’occhio non scorge la nuca – ma il becchino sì, la sua buca.
E sulla gran fòssa squarciata, tumefatto rotolamento colmato. Con normale altalena, barelle per chi fortuna trasporta.
Ma verdelìvido cerchio alle dita degli occhi – svelle chi pena, e non sa dove tocchi. Né in giro lo sa, com[unque la] malia dei colpi conosca gli sbocchi e li fa.
Dall’urlo al silenzio. Nonsenso metodico. Vagliata follia, schedata di ràntoli – in solitudine sola gemitabonda agonia.
Tragedia lontana, da lungi: vicenda. Giornata.
Nulla di nuovo: situazione invariata.
Eppure due labbra una bocca baciata lasciava; e il fiore còlto era un fiore.
Assenti figlioli di giorni presenti a divorare il padre; tempo di nozze a sposare se stessi; oh giovinezza a ritornare vecchi!
Colpevoli fummo per non sapere. Così scontiamo perché il mondo esiste: ma non era preteso nascendo – piccoli giri di una sola volta, e qui immane su noi ruota del sempre.
Amor che dà una pàlpebra al sole – e c’era un frutto per la nostra gola; e lusinga di mare c’era a salire una sponda…
Croce di terre su acque sfatte c’è: e cieca sprofonda se tu la vuoi salire.
Se fosse un crocicchio, la croce – e un uomo desse la strada! Verso una casa la strada. Una soglia di casa…
Busserai? Così pronta accorre la morte! Ma sono docili i morti: sanno la cosa. Non correranno più.
Busserai? Torva la vita cacciò. Sono implacabili i vivi: non sanno la cosa. Cacceranno ancora, scacceranno sempre.
Ma busseremo noi se avanzerà anche sola una mano busseremo: atroci bussare, accorati bussare.
E forse qualcuno aprirà: chi aveva schiusa l’attesa.
Forse una donna, se spalancato avesse il suo cuore.

*

Fonte nella macerie

Gluglù, c’era una volta, e sempre c’è, l’acqua a sgorgare – e la fontana più.
Dicitura dell’àmen sul paese che fu.
Finestre e soglie, al fossile ritrovo delle strade – ma insegne a dettar legge son rimaste; e a dritta, a mancina, scritte di botteghe spàcciano la rovina.
Al cielo spalancata ora la chiesa – breve inferno di santi; giù dalla croce, crocefisso Gesù.
Obelisco del caos, il campanile muto: rincorse il suo clangor nell’aria la campana, e l’ha perduto.
Risorto il cimitero – incombe – in libertà di scheletri le tombe.
Gluglù, c’era una volta, e sempre c’è, nel forato silenzio l’acqua che va giù: cammino ancora a chi non sa il destino – dal curvo spillo, spruzzi dàn spruzzi, cerchietti ricciuti, gócciole in gingillo, sorsate d’eco, perché? – e viene e va – perché? – e sì e no – per dove è spreco non s’attinge più.

1916

***

Da Canti anonimi

Dall’imagine tesa

Dall’imagine tesa
vigilo l’istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell’ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno.
Ma deve venire,
verrà, se resisto
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto.
Verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.

1920

***

da Canti dell’infermità

Tutto è al limite, imminente:
per lo schianto, basta un niente;
da un gran vuoto
tutto esorbita nel moto,
anime, famiglie, consorzi;
tutto è un farsi avanti
a spinte e a sforzi:
son contati gli istanti;
fuori la cosa cresce, e riesce;
dentro qualcosa s’infrange,
e si ride e si piange.
Un che sa, ed è dei capi
(Nicodemo forse?)
scorta luce ove è Gesù,
all’oscuro s’inoltra,
e in segreto, a tu per tu,
chiede qualcosa di sicuro.
Tutto è all’orlo,
basta una goccia:
e se trabocca…
Oh, sia la goccia del Tuo Sangue!

13 gennaio 1956

*

Pensieri

Ogni vero poeta (e pochissimi sono) – e a lui si aggiunga ogni artista, o semplicemente artefice, ché veramente al Divino Creatore dovremmo riservare la qualifica di Artista – è unitotale, sia pur ristretta di numero l’opera sua; egli ha in proprio il suo non comunicabile genio personale innestato nell’elemento unanime e perenne della cultura e della civiltà del suo tempo; per cui, questo elemento universale – e quanto più è purificato d’ogni ingombro contingente – lo fa diventare un classico.

13 ottobre 1956

***

Sul filo della spada

di Adele Dei

Poche figure sono state mitizzate come quella di Clemente Rebora, la cui storia è stata innumerevoli volte raccontata solo in funzione del suo approdo alla fede e al sacerdozio, rimontata per momenti e tappe esemplari, facendo correre il rischio, come avvertiva Luciano Anceschi già nel lontano 1964, di avvolgerlo «tra le nebbie soavi e rapite di apologie e di agiografie». La vita del religioso, fervida e spiritualmente ricchissima, ha finito sempre più spesso negli ultimi anni per sommergere e soverchiare qualunque altra considerazione o valutazione, per riassorbire, appiattendola in una visione univoca, finalizzata e magari edulcorata, anche la sua esistenza precedente, quei quarant’anni e più, passati perpetuamente nel dramma e nei contrasti, sempre sull’orlo di un precipizio, come in cammino «lungo una spada». Recuperare quella complessità e quelle contraddizioni, cercare di ricomporre e reinterpretare quel percorso poetico sulla base soprattutto dei testi – appoggiandosi in primo luogo sul suo fluviale epistolario, che è fra i più belli del Novecento – può riservare ancora qualche sorpresa a chi cerca il Rebora scrittore, e contribuire addirittura a rendere più profonda la comprensione di quella svolta epocale che ha reindirizzato integralmente la sua vita, spazzando via qualunque altro valore, qualunque altra ispirazione.

[…]

I Frammenti lirici, pubblicati nel 1913 con alcune perplessità e «senza apprezzamento» da Prezzolini per la Libreria della Voce, sono un libro irto e difficile, a prima vista quasi respingente, che non permette letture frettolose o distratte, ma pretende un’attenzione protratta, una partecipazione profonda e quasi etica. Si capisce quindi come Prezzolini ricordasse quanto coraggio ci fosse voluto per accoglierli. Una poesia che in certo modo si autocastiga, negandosi al canto disteso, che non vuole essere accattivante, ma che punta ambiziosamente e senza compromessi alle idee, alla verità e che, per trovare ed esprimere queste idee, questa verità, ricerca e si crea strumenti espressivi inusuali, compositi, perfino talvolta quasi stridenti. Lo stesso Rebora definiva nelle lettere i suoi Frammenti «orribili come poesia», dei «non-versi» scritti «forse anche per odio alla poesia»: una decisa presa di posizione contro una concezione edonistica, semplificata e appagante di poesia da parte di un autore che di tutto si preoccupava fuorché di compiacere i lettori. Eppure una raccolta unica, una voce inconfondibile, che non assomiglia a nessun’altra e che solo con il tempo ha rivelato appieno la propria centralità, la propria persistente rilevanza. I Frammenti lirici sono testi compatti e impervi, dove ogni parola pare inchiodata alle altre, piegata quasi a forza per esprimere in tensione il massimo del senso. Un continuo processo di deformazione verbale che, unito al risentimento etico, ha fatto giustamente definire questo Rebora come espressionista. Chi apre il libro e si trova davanti a un muro di pagine fitte e dense, ne ricava una impressione di continuità (i frammenti, diceva Gianfranco Contini, «si riferiscono a un solo poema che non sarà scritto»), e perfino di uniformità, come se tutti e settantadue fossero costruiti con gli stessi materiali, con la stessa tecnica. «La verità di essi non è nel singolo ma nel tutto», notava del resto l’autore, che chiedeva di pubblicarli facendoli sfilare uno dietro l’altro «senza interstizi».

[…]

I Frammenti lirici, così in apparenza legati alla storia, a partire dalla famosa dedica iniziale «ai primi dieci anni del secolo ventesimo», sono invece sempre stati, fino dalla loro uscita, un libro anacronistico e fuori tempo («tutti ugualmente inattuali», li definiva già l’autore). Alcuni amici e lettori contemporanei, da Alfredo Panzini a Pietro Pancrazi allo stesso editore Prezzolini, dichiaravano del resto esplicitamente di non capirli, di non riuscire a coglierne alcun senso, alimentando così il cliché di un Rebora contorto e incomprensibile. Ma proprio a questa intempestività, a questo sostanziale disadattamento, i Frammenti devono forse la loro resistenza e la loro esemplarità. Sono stati più volte ritrovati e riscoperti, hanno agito a lungo sotterraneamente, nutrendo molta poesia novecentesca. La funzione del Rebora «maestro in ombra» sancita da Pier Paolo Pasolini che pure è stata talvolta strumentalmente amplificata – è emersa con maggiore evidenza negli ultimi decenni del secolo, quando la sua poesia sembrava quasi additare alle spalle una strada diversa, un’alternativa non percorsa, forse un’occasione mancata. La sua parola composita e rotta, scriveva Giorgio Caproni, arriva ad insinuarsi per sempre nel lettore, appunto per la sua «superba impurità, come una colpa o un rimorso».

[…]

Se tutta la poesia di Rebora fino dai Frammenti lirici nasce sotto il segno della dissonanza e del conflitto, dopo l’esperienza traumatica del 1915 la guerra, che non può essere dimenticata, si radica nel suo profondo e nel suo linguaggio, diventa davvero, come avrebbe voluto per il suo libro mancato, un motivo lirico perenne, una metafora ineludibile e terminale. Il trauma, disancorato dalla contingenza storica e personale, continua a riproporsi con quel lessico e con quelle immagini, torna presente nei momenti difficili o contrastati, fino alla terribile battaglia finale della malattia negli ultimi anni, quando il corpo ancora vivo sembra decomporsi.

[…]

La definitiva conversione al cattolicesimo e la decisione di partire per Stresa come novizio rosminiano sono una svolta epocale, una mutatio vitae che esige un taglio netto e senza ripensamenti. È il momento della totale liquidazione del passato, che si concretizza nell’autunno del 1930 nell’appartamento di via Tadino con la distruzione spietata e quasi esaltata di tutte le carte; un autodafé che intende incenerire gli errori dell’intera esistenza precedente per propiziare un secondo inizio, un’altra nascita. L’ultimo intervento di Rebora prima della partenza, La letteratura italiana alla luce della Fede, subordina l’arte e l’educazione alla verità rivelata dal cristianesimo.

[…]

Il grande Rebora pare tornare soprattutto in corrispondenza di contesti e temi drammatici, di crisi e appunto di conflitti, quando il linguaggio si inarca e si agglutina ancora in procedimenti analogici, ossimorici e sinestetici, quando le invocazioni, le ripetizioni, le riprese sono condotte e travolte da una spinta quasi visionaria. In occasione delle plaquette uscite negli anni Cinquanta a cura di Vanni Scheiwiller, pur disuguali nei risultati (il Curriculum vitae e i Canti dell’infermità del 1956, l’ultima pubblicazione organizzata o almeno coscientemente approvata dall’autore), Rebora seleziona drasticamente i testi già composti. Ma soprattutto, approfittando anche del forzato diradarsi dei suoi impegni, si rimette a scrivere poesie nuove, su piccoli fogli, con una grafia sempre più incerta e tremante, stimolato dall’affettuosa sollecitudine di Enzo Gritti e degli altri confratelli che lo assistono. Quando non potrà più farlo detterà i suoi versi bisbigliando. La poesia sembra tornata al centro delle sue giornate.

[…]

La vertigine ascensionale si alterna e si combina con il terrore dello sprofondamento, di un abisso spalancato che sembra pronto ad inghiottire. Il Rebora mistico pare a tratti sperimentare anche il buio e l’oscurità, il silenzio di Dio; invoca una sorta di autodistruzione, di autoannullamento. La parola si innalza, supera l’invocazione e l’esclamazione, tende al grido. Una voce nuova e sorprendente, eppure del tutto riconoscibile, che sembra ripercorrere i temi e le forme degli antichi testi, cambiati però di segno, sradicati dal contesto originario e posti al servizio di un’urgenza totalizzante, di una ricerca integrale che non riesce ancora a pacificarsi.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).