Poesie (1992-2022)

da | Ott 2, 2025

Da poco uscito per Garzanti, con prefazione di Massimo Natale, il volume che raccoglie le poesie di Gian Mario Villalta, da “L’erba in tasca” (Schiewiller, 1992) a “Cosa sono gli anni” (Garzanti, 2022). Presentiamo una selezione.

 

(Da “L’erba in tasca”, 1992)

 

albe gremiscono ghermiscono

l’amaro dei sonni l’esca
per gli occhi, crescono alberi

fiorano sfiorano sempre gli stessi
limiti s’immillano riescono
sollecitando contatti brevissimi

in bufere di sete, in un fresco
a piedi nudi sui chiodi mi arrampico
altri inalberandosi al mio posto

altri buiamente affrondando
quasi dal nulla da un angolo
buio del cervello, alberi

come non meno non più che pensieri
siepi antiuomo chiodi albe
antiuomo più in là dello sguardo

come doveri assolti dissolti
nella loro alberità buia maestà

– incremento di
…………………………..
radicamento?

 

*

CON L’ERBA IN TASCA

Mi sono trovato a casa l’erba in tasca
la prima verde di un altro marzo
nello sterrato giù con il nemico
addosso, fiele sudore in bocca,
mi faccia il male che vuole
ma vale il solo «mi arrendo».
Erano questi gli uomini che sanno
appartenersi, pensavamo, ai nostri
occhi di pochi anni il grido in gola
serrando e non importa chi allenava
i muscoli del cuore già da allora
da fermo al doppio scatto di tagliola.
È un farmaco facile, un resto
di quattro passi fuori nel confondere
l’adesso – a casa, l’erba in tasca,
la fodera macchiata, ripensarci
la faccia in quell’erba e rimescoli
la dolcezza il selvatico
dentro il sangue. Quel nulla altro che pelle
da dare in cambio è un avere
avuto che è il più del perduto

 

***

(Da “Vose de vose / Voci di voci”, 1995)

I

filologie, favèle, passamàn e chi
te lo dise – che etimo
te lo conta, che ciave de che porta
de che panera de lengue, che sopa
de radìss, che grasp de vose, chi
dise a chi – che parola distrigada
da le man de le strighe? Stròlega
in memoriam, inpara a dir in do
e do sinque sesti de verbo mus.cio,
de palinsesti-geologie del verbo, strascrivi
la Scritura sgrifada ’n te la giass
par scavassa, da chi che l’à nodà
coi brass, col cuor, coi dent e co’ la mort
sto ort de tera…

(… / filologie, favelle, passamano e chi / te lo dice – che etimo / te lo racconta, che chiave di che porta / di che madia di lingue, che zolla-zuppa / di radici, che grappolo di voci, chi / dice a chi – che parola estorta / dalle mani delle streghe? Strologa / in memoriam, impara a dire in due / e due cinque sesti-cesti-gesti di verbomuschio, / di palinsesti-geologie del verbo, trascrivi / la Scrittura graffiata sul ghiaccio / a scorciatoia, da chi ha nuotato / con le braccia, col cuore, coi denti e con la morte / quest’orto di terra…)

 

***

(Da “Vanità della mente”, 2011)

Entrò dalla penombra
con un vitello in braccio,
grondanti, anche l’animale, e più pallidi
dei muri, che per un istante abbiamo pensato
fosse venuto su dalla vecchia strada interrotta
che scende, opalescente, sotto l’acqua.
Ma eravamo noi i clandestini, nella stalla,
entrati per cercare riparo
e poi assuefatti al tepore, alla luce gialla dei neon.
Nella cucina fredda, dopo, non potendo rifutare l’offerta
di un vino da poco, parlavamo troppo forte,
per non sentire le voci che sussurravano nella pioggia.

 

*

VITELLINO

Gli zoccoli giallini, quasi trasparenti. La lingua che fuoriusciva dalle labbra pallide, sigillate, era livida. Quando tutto era in ordine veniva fuori tirando le zampe, senza bisogno di corde. Era come vederlo arrivare dall’eternità, o dalla morte, prima di scuoterlo a testa in giù, mettergli
il sale in bocca e sentirlo piangere.

 

*

Si diceva che una festa era stare così,
con le braccia vicine, tutto il mangiare nei piatti,
il buio degli alberi, l’estate piena dei suoi rumori.
«Possiamo farlo ogni volta…»
Dalle parole sapore e parole dai sapori.
Le nuove serate insieme a tavola,
i progetti, le date… ci apparivamo migliori,
gli amici e noi, per prova
nel ricordo del dopo… una prossima volta
in questa prima accadeva, pensata, e pareva ripetersi
come non sarebbe più stata.

 

*

GIORNI DI SCUOLA

Saremo sempre insieme, sì, in un posto grande,
la grava del Meduna, con il ponte di ferro, o nei Magredi
in mezzo ai sassi con l’acqua da saltare
perduti dentro l’età.
Ci saremo tutti, e ciascuno
nel presente per sempre passato.
Anche chi non ci crede verrà
come ciascuno lo ha pensato.
Con me Maurizio, promosso nel sorriso,
sempre con i calzoni troppo corti,
e Mondino lamenti, Paola sogni
svegliati dal campanello dell’ultima ora.
Walter andrà via, via continuamente.
Anche il bidello sordomuto
e il gramo degli accendini da mille lire sui treni:
insieme tutti – e saremo per sempre
quello che gli altri hanno avuto
e hanno perduto di lui
con il suo tempo: per Roberto
l’inverno più buio e una finestra chiusa
da starci in piedi accanto; sempre vento
nei colori
per Francesca, e per me scrivo un cielo di grandi nuvole
con l’odore della stagione che cambia.

 

*

FAR  VERSI

Par n’altra volta far finta
che ancora l’esiste,
un’ultima volta resiste
’sto parlar lastra-de-giass
che crica sot i pié,
che sot i pié el mola,
far finta de isolar
come su n’isoleta
de giass in meso al mar.

Far finta che fa mal
co’l giass el se deléga
e dopo co’l se ’ngreva
co’ tut el silensio dei prà
neri de vent, i olmi neri ch’i trema
drìo i fossi de sentinela.

Far finta che sia finìo
sintìr el temp da l’odor
sentir el cuor stranìo
co’ l’è un cunicét
molà da sol par tera
su i sassi del cortivo.

Far finta che le paure
de le creature cative
che partorisse la tera
no le resta vive, che scuro

né ancora sentirse la forsa
che buta i olmi e le cassie
crésserne drento i ossi.

Far finta che la to caverna
de not, al piano de sora,
la tien le bestie de fora
co’ te sta lì in sentòn,
femena e mascio de on,
vissini insieme a scaldarve
davanti a la tivision.

Far finta che no l’ocore
o che ocore par finta
sintìrse but e radise
rùdhin e fil del falzhìn,
erba bianca che cresse galiva
sot un libro xolà via da un treno
par finta, par finta, par viver
sintìrse pérder qualcossa,
far finta de ’verlo vùo.

Far versi: come ogni antico
animal che l’è su la tera,
par l’amor, par la mort, par la guera.

(Un’altra volta far finta / per ancora una volta che esista, / per un’ultima volta resista / questa lingua lastra-di-ghiaccio / che scricchiola sotto i piedi, / che sotto i piedi si sfa: / far finta di pattinare / come su un’isoletta / di ghiaccio in mezzo al mare. // Far finta che fa male / se il ghiaccio si assottiglia / e dopo, quando si incrina, / con tutto il silenzio dei prati / neri di vento, gli olmi neri che tremano / di guardia lungo i fossi. // Far finta che sia finito / sentire il tempo all’odore / sentire il cuore stranito / com’è il coniglio appena nato, / liberato per terra, solo, / sui sassi dell’acciotolato. // Far finta che la paura / delle cattive creature / che partorisce la terra / non sopravviva, che buio / non ce ne sia più, né sangue, / né ancora sentire la forza / che olmi e robinie germoglia / crescere dentro le ossa. // Far finta che la tua caverna / di notte, al secondo piano, / tenga le bestie lontano, / mentre stai dentro accucciato, / femmina e maschio di uomo, / vicini insieme a scaldarvi / davanti al televisore. // Far finta che non occorre / o che occorre per finta / sentirsi germoglio e radice / ruggine e lama di falce, / erba bianca che cresce uniforme / sotto un libro volato dal treno / per finta / per finta, per vivere / sentirsi perdere qualche cosa, / far finta di averlo avuto. // Far versi: come ogni antico / animale che sta sulla terra, / per l’amore, la morte, la guerra.)

 

*

GENERAZIONI

La pressione dell’erba nuova aggruma il verde
a un centimetro dal suolo, in sospensione.
Così le parole di chi si innamora
formano un nuovo colore
sul parlare comune, delimitano appezzamenti del sentire,
contendono alle frasi il nutrimento.
Così si forma la lingua famigliare,
così cresce e diventa quotidiana
la lingua propria del sentimento
di quegli unici corpi, di quei muri,
quella scansione condivisa del tempo.
La lingua che i figli falciano e disseccano
crescendo, disperdono di nuovo per distrazione,
per la pressione del desiderio, per amore.

 

***

(Da “Telepatia”, 2016)

I.
Oggi, che mi guardi poco
da stamattina e io sono troppo docile,
anche adesso, quando a voce bassa
tento il freddo, attento a non offendere
il vetro che protegge le domande,
siamo tornati al Trilande domenicale
perché fa bene camminare all’aperto.
Poi l’ossigeno, le foglie, le altre volte
che siamo stati qui. Un po’ di sole,
che scioglie il gelo in superficie e nelle frasi
inevitabile un più acuto allarme: più scivoloso
si fa lo strato di ghiaccio sotto il sorriso.
Ma via, dove vuoi correre? Torniamo
a mettere un piede davanti all’altro
indecisi, dove abbandona il sentiero
le bandierine e l’incertezza, di nuovo, abbonda.
Poi farà buio. Resterà,
di questo giorno opaco come oro,
il silenzio inoltrato
in un ottobre storto, che sfinisce
ogni cedere – mi ritorce più crudo
il mio cinismo, e non mi crede.

II.
Al posto di sosta: coda
alla cassa, cessi occupati, il lunedì che già affolla
le teste scarmigliate, le facce fiacche dell’ultima gita
prima dello scontento
annunciato dal meteo
e dalle imprese di rating
che ci dettano il tempo libero, le visite di controllo, gli spaventi.

Siamo italiani sloveni österreicher
qualche tedesco, siamo europei, ovvero uguali
più di ieri i capelli, le auto, gli abiti,
più di ieri dispersi nel pulviscolo
di vite che vogliono piacersi, quando troppi
sono i microfoni e ovunque voci imitano
uno che chiama il tuo nome.

(Da dove chiamano? Ascoltiamo
marcire le pietre,
i bambini che apprendono la vita degli animali
nelle nursery dei centri commerciali,
e il sangue che macchia il colletto
non è mai il tuo, dove sei, tu, che cosa credi?
E l’Europa – voci, ancora voci – dissangua
nella guerra di banche).

III.
Che ha un cattivo odore
la vita, non lo diresti,
fino a quando non senti
la puzza di niente
che tutto sovrasta, anche i corpi che accalcano
attaccaticci il bancone,
a fine domenica.

(Viene dalle sue vene, dalle vene d’Europa
il fetore: le vedi, le valvole, i ventricoli che
riversano liquame nel puteus della fantafinanza –
ma altra opera è il cuore, e diversa).

IV.
Poi siamo usciti, era già buio, nel parcheggio
più buia la montagna, un’ombra immensa
che obbligava a guardare il cielo.
Dal brusio dei richiami e delle auto in partenza si formava
una colonna di silenzio, si innalzava
verso quel cielo e ancora più in alto, oltre, verso lo spazio
che tutti inonda
di un nulla dolcissimo, una distanza che accomuna – come non lo so dire – i letti
dove stanotte dormiremo, l’esattezza dei sogni, l’inguaribile
contagio delle lingue, il respiro che moltiplica
il destino ovunque nelle immagini
della selva, del cristallo e del sonno.

 

*

E fingere ancora che mi riguardi,
che guardi ancora proprio me
tutto ’sto verde, bianco, giallo che pare smalto
tremante nell’arietta di aprile, perché?

Tanto, che non mantiene mai niente,
lo so, anzi che non promette più
veramente, ma insinua, allude,
prende in giro, fischia un motivo
ben noto: «Zefiro torna…» – io vivo
oggi di poco, e perché resto fisso
in me stesso come un piolo.

Dice la Primavera (immagino):
«Poi che dura in te la mia stessa natura
sarai erba, gemma, odore, raggio
che risveglia il colore. Inutile
chiamarti fuori, inutile dire che è bella
la terra arata, la forma perfetta che lievita
tra case abbandonate, vera land art,
inutile spostare il peso
da quella parte, quando è nel sangue
nelle cellule, lo spasmo, è nelle sinapsi».

 

*

Immagino, guardo, ragiono – credimi, sono stanco i pensieri
quando viene la sera, da mesi, e per questo non esco più.
I pazienti pensieri, efficienti, fin dal risveglio, lavorano
al rammendo di me, a inseguirmi in altri dove e altri quando,
per riportarmi dentro la data di oggi, i visi dovuti, le voci
dove ho il compito di ripetere
l’io che devo e che gli altri si aspettano,
dove divento quell’altro,
sconosciuto, sfibrato nell’utile sforzo
di trattenere me stesso in sé tutto il giorno.
Capisci perché non esco, da mesi, la sera, e anche se uscissi – capisci – con questi discorsi sfiniti
che pesano nella testa, dove vuoi che vada, dove vuoi che resti?

 

*

Dico che ti penso.
Penso che sia il pensiero
di te, che io invento
nella mia mente,
che sono io, cioè, a trovarti
in me stesso e a portarti in un luogo
e in un tempo, perderti di nuovo.

Ma sei tu che mi pensi, forse,
perché sei tu che vieni
e il pensiero che ti porta è già te:
quell’io che ti pensa, può essere che sei tu
che lo crei?

So che esisto fuori di me.

Le prove? Lasciamo perdere.
Ma so che persiste
l’irrevocabile.
Forse l’oscuro di ciò che chiamiamo
essere è appartenere
agli altri, a molto altro (anche luoghi, date, vuoti
di noi stessi) e non sapere dove
stiamo ancora insieme, dove siamo altri, o gli stessi.

 

*

Il pensiero di te, che ha origine
in me stesso, viene da altrove,
suppongo, e lontano, per questo mi chiama,
o è come se lo facesse,
e spesso sorprende la mente
intenta al lavoro, alla guida, a se stessa
nel riflesso che rigira il presente.

Rigira l’origine, il pensiero,
e quando arriva ci trova già
rivoltati verso il futuro, in fuga
da noi stessi, pieni di desiderio
di essere stati: «Celeste
è questa…» …facoltà, che hanno gli umani
di rivivere rimorire
lontani, celeste…
è il colore del cielo,
a volte, quel colore inventato da noi
umani, forse da uno rimasto solo
e nel pensiero vicino all’amore
come vicino all’amore nessuno.

 

***

(Da “Dove sono gli anni”, 2022)

Sempre ti manca quello che hai: vivere.
Qualcosa di più necessario, seguiti a chiedere,
qualcosa che ti convinca, ti vincoli a.
«Perché continuo a scrivere?»
Forse perché puoi finire
lo fai, come uno cammina di sera
prima di cena, o un altro vanga l’aiuola,
o mette a posto il garage, perché tu potresti

– come lui – non varcare più l’ombra
dei lampioni, l’altro smettere di sperare
che germini il seme o più non sapere se le sue cose
sono ancora lì – potresti così tu non essere
più tu che lo chiedi, ti avventuri, tu
che diventi tu che lo scrivi.

 

*

La vita che esplode dal disciogliersi
dei ghiacci e ci minaccia
è la stessa che sogna il paradiso nella lingua mortale.

Nascere è animale, e umano con la memoria
e la parola diventare quell’io che vuole sapere
perché. Un senso da noi, i mortali, imposto
dentro il fluire-margine
del tempo, che la generazione incessante
di quanta è tutta la vivente
terra ignora,
come ignora la morte,
perché resiste su questo pianeta
ciò che muta e mutando esiste.
Nascere è metamorfosi, e appare
la morte come l’ultimo mutare, ma non è,
non cessa la vita quando si dissolve
l’io che si dice nella voce.

Si rivolta contro
se stessa la mente, da quando – costretta – ammette
che alla vita sulla terra non importa il suo amore,
e sempre è stata contro natura, la natura
da lei pensata, e spaventati
se ne sono scappati via gli dèi, già allora.

 

*

«Ibisco, ci siamo toccati, siamo stati
lo stesso tempo, ma cosa sai della terra,
tu nella terra, che senti?
Le parole, le immagini
conoscono in me la materia
come tu sai di me se ti torco
il fusto, intiepidisco la scorza
con le mani, porto terriccio, grani
di potassio.
Un cane addenta
le tue radici nel buio, nel sogno
cresci sul mio corpo nudo.»

 

*

«Non sei tu, Ibisco, non sei tu, ma prendi
nella mia voce parola, nella mente,
come ogni cosa che vedo e sento. Ti importa
se non sappiamo che cosa siamo io
per te, tu per me, per tutto
tu e io l’universo?»

 

*

«…evitare di farsi sorprendere
a parlarti – solo tra me e me
Ibisco, ti chiamo, anche se non volessi
ci sono sempre parole
nella mia mente: non capisco
perché inseguano nel tuo vivere
il senso che al vivere umano
non sanno rendere. Hai freddo,
sento, penso che inaridisci
come una disperazione.
Succede che mi imponi felicità,
nella bella stagione, e chiedo
perché (non solo i fiori, i colori…)
che cosa sai tu di te, e di tutto,
che cosa so io di tutto e di me?»

 

*

non è stato un giorno, non una volta sola, o forse
quella sola volta ha voluto ripetersi nella memoria
che è stata, potessi dire: voltarsi
verso il sole, il sangue svegliato nei sensi, luce,
aria, il giorno che inonda
quell’essere inizio
di nuovo, non sai da dove, è come dire aria
la parola più bella, luce la parola che viene
quando resti senza parole, perché la luce,
perché l’aria… sostare, insistere, e
sistere,

perché – la risposta

 

*

mi hanno detto che sogni, maritimus,
che in tutti i mammiferi
la tomografia a emissione di positroni
registra una fase rem prolungata ma, dicono,
potrebbe darsi che sogni solo quello che hai visto,
il mare che si ritrae, la terra che si ritrae,
nel sonno, nella veglia, l’orizzonte
lontano la veglia il sonno l’orizzonte
l’orizzonte senza requie

 

*

Ti scrivo, perché so che in questa lingua tu ascolti,
che in tutte le lingue tu ascolti

per questa lingua, ti scrivo, perché tramontano
le lingue ogni giorno, e rinascono, perché dalla prima notte
del secondo giorno la terza lingua inventò il silenzio

in questa lingua che non è mia
e mi fa appartenere ti scrivo, unica lingua
che ho e non possiedo, ti scrivo, mi scrivi
l’infinitudine della lode

e il grido che allarma, tu sempre futura
nostra comune Natura
inscritta indicibile e pura gestuazione che nulla

afferra ma accoglie, raccoglie
come una carezza, o nell’aria
la corsa che chiazza di ombre

i campi con le nostre nuvole, mi scrivi, ti scrivo
per il terrore di perderti senza potermi più perdere
in te, e che tutto e tutti si perda, esclusi insieme

nel protocollo natura, non più lingua, ma legge
di leggi, algoritmo del consumo – misura dell’uso
di risorse, altra destinazione – me complice –
dell’abuso.

 

 

 

NB: Non è stato sempre possibile rispettare la grafia dell’originale.