Poesia e narrativa: un binomio cognitivamente necessario

da | Apr 10, 2018

1. Sin dalla fine del XX secolo, è aumentata la propensione a ritenere la capacità di narrare come una componente costitutiva della natura umana, giustificabile attraverso l’analisi di suoi aspetti molto diversi (struttura cerebrale, simulazione corporea, fictionality intrinseca all’uso linguistico ecc.). Tuttavia una narrazione in grado di collegare situazioni e attori differenti richiede una visione del mondo già assai complessa, e insomma una specializzazione higher level di propensioni biologico-cognitive ormai delineate in numerosi studi, come quelle attentive, ritmiche, mimetico-simulative, analogiche ecc., con prevalenza dell’una o dell’altra a seconda del medium usato (orale, scritto, visuale, blended ecc). Ma esse in origine erano state impiegate in forme semplici, adatte però a veicolare nuclei di senso particolarmente significativi. Per esempio, l’uso ripetitivo di determinate parole (in anafora) serviva a sottolineare con una ritmicità ben scandita l’importanza di formule magiche, e quindi della loro capacità di evocare il divino-soprannaturale. Le scansioni ritmiche favorivano una compartecipazione mimetica nei riti (con danze, gesti, modulazioni musicali ecc.), e in questi contesti potevano essere affermati anche precisi eventi, per esempio la nascita o la morte di un essere umano particolarmente notevole (un capo, un eroe ecc.). È da un ambiente (nel senso forte di Umwelt) come quelli delle comunità preistoriche e protostoriche che si sviluppano poi capacità di stilizzazione sempre più forti. Esse favoriscono la nascita delle prime forme di poesia, grazie all’uso consapevole di elementi ritmici e analogici, e di narrativa, che catturava l’attenzione grazie alla capacità di costruire uno sviluppo coerente a partire da eventi essenziali: ma queste componenti erano spesso fuse, come avviene nella prima grande narrazione epica che ci è pervenuta, il Gilgamesh.

In effetti, se guardiamo ai primi stadi delle arti in genere e della poesia-narrativa (ancora strettamente legate) in particolare, dobbiamo ipotizzare che esse nascano da riusi di propensioni biologico-corporee. Esse, nell’ambito dei primi consessi umani, sono state dapprima impiegate a vari livelli (per esempio la scansione di emistichi con ritmi binari), poi integrate fra loro e finalizzate allo scopo di sottolineare appunto nuclei di senso fondamentali per la conservazione e la trasmissione di eventi significativi, competenze acquisite, insegnamenti utili per le comunità: in una parola, della cultura nata dalla riflessione sulla e dentro la natura. Ma solo attraverso i sempre più rapidi sviluppi di queste capacità di ritagliamento del mondo e di stilizzazione si può arrivare a costruzioni narrative complesse, per esempio basate non solo su successioni temporali ma anche causali o addirittura con sfasature quali analessi, prolessi ecc. Si tratta di potenzialità recenti e non certo di capacità originarie, almeno a quanto ci è consentito di intuire dalle prime opere ora classificabili come ‘letterarie’, che risultano basate su nuclei legati fra loro da un intreccio unidirezionale.

È allora opportuno tenere unite poesia e narrativa nelle loro forme primordiali, per verificare gli aspetti fondativi della loro inventio. A una prima ricognizione, si può affermare che le propensioni biologico-cognitive vengono finalizzate grazie a opportune sottolineature stilistiche (p.e. anafore, iperboli, similitudini, metafore ecc.) per segnalare:

a) il sacro-fantastico, ossia quanto è impercepibile ma necessario per comprendere i misteri del mondo esterno;

b) l’accaduto-reale, ossia quanto è certo, sicuro, ritagliabile dal continuum della vita.

Al primo polo possiamo attribuire la componente dell’oscurità, al secondo quella dell’eventfulness (per la bibliografia, si veda infra). Attualmente siamo abituati a collegare l’oscurità alla poesia lirica e l’eventfulness a varie forme di narrativa, ma in origine queste componenti potevano essere impiegate assieme per esempio nelle formule rituali vediche, oppure nei versi sacrali riconoscibili nelle opere che adesso definiamo epiche, ma che dovevano comprendere eventi e misteri per esempio della vita di dei o eroi.

2. Prima di approfondire gli aspetti ora indicati, sottolineiamo meglio alcuni presupposti relativi al periodo preistorico. Le potenzialità inerenti all’uso di formule poetiche, quindi scandite dal ritorno di espressioni specifiche, sono state impiegate, secondo vari studiosi, già a partire all’incirca dal 40.000 a.C., e forse associate a quelle della performance musicale, coreutica e teatrale: ciò sembra garantire uno sforzo compositivo che enfatizza e stilizza i singoli tratti naturali-corporei, come l’euforia dovuta a un ritmo veloce o l’attenzione-meraviglia per il gesto atletico e la danza. La ricostruzione dei riti preistorici è solo induttiva, sulla base degli studi antropologici attuali, ma certo la poesia orale doveva essere esposta ‘in situazione’ e non come patrimonio autonomo: anche gli studi recenti propongono una classificazione molto articolata dell’oralità a seconda degli scopi e dei contesti in cui nascono il canto o la recita.

Sicuramente i testi che acquisiranno poi una valenza letteraria sono in origine canti rituali, invocazioni religiose, proto-racconti mitici, dei quali possiamo ricostruire a posteriori almeno le tracce: non a caso termini come l’antico egiziano hosiu, forse l’antico cinese tz’u, e poi il greco epoidè, il latino carmen ecc. indicano sia l’ambito poetico sia quello magico. Se è giusto sottolineare che il valore specifico assegnato al canto poetico dipendeva dal contesto in cui era impiegato (p.e. un rito sciamanico), occorre però anche ribadire che erano proprio i suoi tratti marcati a consentire quell’uso, in particolare la regolarità ritmica, l’anaforicità, le assonanze e le consonanze forti, che creavano una regolarità di facile percezione e un’attrattività rispetto alla materia del contenuto. Il talento di saper rendere scandita la lingua della comunità veniva sentito come un dono divino, tanto da generare la mitologia dell’ispirazione, che si poteva accompagnare ad altre doti acquisite dallo sciamano, e poteva a sua volta portare benefici all’intero gruppo: in realtà, possiamo invece pensare a una competenza analoga a quella dei proto-pittori, capaci di usare al meglio le potenzialità mimetiche, accrescendole sino ad arrivare a capacità di livello più alto. La componente sacrale accreditata alla poesia religiosa dovette comunque contribuire al suo prestigio, alla sua memorizzazione e quindi alla sua prosecuzione.

Su un altro piano, una narrazione lunga e complessa sembra il frutto di un’abilità di secondo grado, ipotizzabile in una fase tarda dell’oralità o più probabilmente dopo l’avvento della scrittura come strumento di memorizzazione e attestazione, ma soprattutto come ‘estensione delle facoltà mentali’. Le evidenze sui primi prodotti artistici ci parlano invece o di impiego di singole capacità (mimetiche, ritmiche ecc.), o di individuazione di singoli nuclei di senso, quindi anche eventi o microracconti, trasmessi in vario modo ma comunque in sé chiari. Se allora proviamo a leggere i caratteri poetici come specializzazioni di propensioni biologico-cognitive, notiamo meglio che nella fase magico-religioso-mitologica i nuclei di senso vengono evidenziati attribuendo loro il carattere dell’eccezionalità: ciò vale a livello tematico, dato che l’azione degli dei o degli eroi (con tutte le possibili mescolanze teriomorfe) è caratterizzata dall’incomparabilità nell’uso della forza, del coraggio o di ogni altro tipo di capacità umana e animale.

Con questi tipi di finalizzazione, è soprattutto l’iperbole a essere attrattiva, magari in associazione alla ripetizione enfatica (le innumerevoli stragi di nemici, la terribilità dei fenomeni incontrollabili e continui, come il diluvio universale dovuto a piogge incessanti per giorni e giorni: e forse si è trattato di una precisa catastrofe, da collocarsi intorno al 5600 a.C.). Questa enfasi è costantemente ricercata anche a livello di immagini ‘letterarie’, metonimie o metafore che siano, le quali si basano su fondamenti concettuali semplici, come i paragoni fra ambito naturalistico-animale e ambito antropico, sempre per segnalare l’eccezionalità, per esempio di un combattimento o di un’impresa. In questa prospettiva, il mito ‘complesso’ nasce dall’interazione fra le capacità biologico-cognitive umane e una Umwelt che richiede continui tentativi di spiegazione di fenomeni ignoti, da controllare attraverso nuclei di senso esplicativi, articolati in microracconti e non in immagini autonome (come era indispensabile nella pittura). Le gradazioni di questi processi sono state senza dubbio molte, a cominciare dalle fasi di trattamento rituale-artistico dei corpi e delle cose: bisognerebbe per esempio valutare in questo ambito non solo l’importanza della mimica ma anche quella dei tatuaggi o delle modifiche corporee introdotte per favorire un rapporto appunto con l’ambiente vitale, e che possono diventare, col tempo, ornamenti. Tutto ciò rientra in uno sviluppo culturale su basi biologiche, del quale adesso cercheremo di sottolineare le componenti fondative.

3.1. La semantica che viene veicolata nelle prime opere ‘letterarie’ si può delimitare nei territori dell’oscurità e dell’eventfulness: a definire e stilizzare queste materie del contenuto si impegnano i primi poeti-sciamani, che usano tutte le propensioni biologico-cognitive già indicate per veicolare nuclei di senso relativi alla realtà (gli eventi) ma anche alle rielaborazioni della realtà, sulla base di pulsioni consce o inconsce. È qui opportuno citare la nozione di inconscio cognitivo ormai largamente diffusa. Si tratta del vasto ambito pre-razionale che non solo sottostà a molte nostre azioni consce, forse predeterminandole in qualche misura, ma che probabilmente consente un immagazzinamento di risultati esperienziali di qualunque tipo, coinvolgendo, per esempio, l’attività dell’ippocampo e della corteccia prefrontale. Gran parte delle funzionalità dell’inconscio cognitivo consisterebbe nel controllare l’interazione di un essere umano con il suo ambiente: gli esiti costanti della filogenesi, le memorie procedurali nonché le acquisizioni ontogenetiche entrano a far parte di un insieme non monitorato dalla coscienza. Questa dimensione coinvolge lo Streben vitale, ovvero la spinta alla ricerca, all’indagine sul mondo e sull’io stesso, la tensione ad acquisire tutto ciò che risulta utile alla sopravvivenza: ma, per quanto è possibile affermare attualmente, questa entità sfugge alla logica asimmetrica e forse persino al semplice utilitarismo razionale, perché in effetti per la prosecuzione della vita qualunque esperienza potrebbe risultare utile, le gioie quanto i traumi, i desideri diretti e quelli stravolti nei sogni, ecc. Non è quindi possibile disporre ordinatamente l’inconscio cognitivo, sebbene sia verosimile che alcune sue manifestazioni corrispondano a quelle traumatiche indagate da Freud, oppure che alcuni suoi presupposti risalgano ad archetipi biologici, confrontabili con quelli creati da Jung; e ovviamente i rapporti con il linguaggio, la langue di Lacan che ‘parassita’ la coscienza, e reinterpreta la langue di Saussure, potrebbero essere indagati (possibilmente senza i vacui esoterismi dei lacaniani). Quel che è certo è che l’inconscio cognitivo interagisce con ogni aspetto della corporeità individuale, compresa la spinta alle manifestazioni di tipo artistico, senza che sia necessario postulare una specifica patologia.

Ora, per lungo tempo l’arte ha in buona parte mirato a impossessarsi della realtà esterna, quindi a una funzione mimetica, che si estrinsecava in modalità di stilizzazione diverse ma apparentabili: tra i disegnatori di Lascaux, i pittori greci capaci di dipingere un’uva che inganna gli uccelli e i ritrattisti del Rinascimento italiano ed europeo esiste un’evidente aria di famiglia. Ma esisteva un’altra modalità artistica, che invece considerava la realtà esterna solo una parte dell’Umwelt umana, e quindi adottava espressioni simboliche, spesso decisamente oscure, a volte affini a composizioni oniriche. È l’ambito delle scritture sacrali e religiose, dell’ermeneutica dei segni, degli aforismi oracolari ecc., che si fondono spesso con altre forme artistiche, dalle pitture votive alla grande arte egiziana, sino alla lirica religiosa e filosofica dei presocratici e oltre. In entrambi i casi non è necessario ipotizzare patologie di ambito psicanalitico: lo Streben derivante dall’inconscio cognitivo va verso un’interpretazione evenemenziale oppure verso una fantastica del mondo. In questo secondo caso, l’inconscio continua a cercare un senso compatibile con i tanti segnali interiori che l’io percepisce, attraverso i sogni così come le libere associazioni di idee, sulla scorta di paure e fobie motivate o immotivate, ecc.

3.2. Siamo entrati nel territorio dell’oscurità, termine con cui intendiamo l’impossibilità di esporre una parafrasi condivisa di un testo letterario, benché, com’è ovvio, essa sia in teoria riscontrabile in qualunque tipo di testo. Storicamente, questo fenomeno è stato posto in evidenza ben presto, quanto meno dallo Ione platonico, dove già si sottolineava che l’aedo ispirato dagli dei e dalle muse non era consapevole di quanto scriveva, e ciò poteva creare un alone ambiguo o inesplicabile intorno ai suoi versi.

L’oscurità segnalerebbe un evento che richiede uno sforzo interpretativo superiore alle consuetudini accettate in un ambiente: essa rientrerebbe fra le potenzialità idonee a generare un’attrazione e un’attenzione specifiche, importanti a livello gnoseologico per “aumentare il sapere”. Tuttavia, questa prospettiva risulta parziale. L’oscurità infatti non riguarda solo la forma dell’espressione ma anche la sostanza del contenuto, perché tende a ridurre o addirittura azzerare la referenzialità consueta. In altri termini, viene alterato quel circuito comunicativo che si fonda su un legame di tipo semiotico-semantico fra il linguaggio e la realtà, e che dà però per scontato (mentre ovviamente non lo è) che quest’ultima costituisca un limite inattingibile e che si possa parlare solo di referenti concettuali. L’oscurità postula invece l’esistenza di una realtà ‘altra’, inconoscibile o solo parzialmente conoscibile con i mezzi linguistici consueti e invece tangibile (ossia ricreabile) proprio in virtù dello sforzo ermeneutico imposto dalla rottura di ogni vincolo simbolico condiviso e razionale. Ciò può condurre a un annichilimento comunicativo, praticato soprattutto (ma non solo) nelle varie forme di surrealismo del XX secolo; peraltro, da un punto di vista cognitivo, l’oscurità è una potenzialità generatrice di senso, perché dall’annullamento della realtà razionalizzata e linguisticamente ritagliata possono emergere infiniti mondi possibili, e processi conoscitivi divergenti che tolgono ogni fondamento all’equazione filosofica realtà = razionalità = verità.

Per ora possiamo in ogni caso affermare che l’oscurità risponde, su un piano biologico-cognitivo, alla manifestazione di un lavorio spesso inconscio che coinvolge ancora lo Streben verso la realtà, però senza che questa sia riducibile agli eventi razionalmente codificati e quindi scientificamente studiabili: in particolare, riemergono così gli aspetti legati alla difesa della vita, al controllo delle paure e dei rischi potenzialmente mortali, che non possono mai essere ridotti al solo noto perché si ripresentano in forme e con caratteri del tutto ignoti. Nello specifico, l’oscurità letteraria può derivare dalla ritualità magico-religiosa, ma in ogni caso attua uno spostamento dei confini fra il noto e l’ignoto che risultano stabili solo per le convenzioni sociali e culturali adottate nella propria sfera antropica. Quando le convenzioni non vengono accettate, l’essere umano e il suo ambiente tornano a essere, come si legge in vari classici greci, deinòn, qualcosa di misterioso e terribile: l’oscurità letteraria (senza dimenticare le varianti artistiche) costituisce una componente indispensabile per lavorare sui nuclei fondativi della realtà, intercettati attraverso l’inconscio cognitivo e non attraverso la razionalità.

3.3. Se ci spostiamo adesso all’estremo opposto di una graduazione scalare che tocchi ogni aspetto del dicibile in letteratura, dobbiamo arrivare all’estremo della chiarezza, ovvero a una coincidenza perfetta fra parole e cose, un limite di fatto irraggiungibile (come accade alla polarità opposta). In questo caso la condizione generatrice è quella della eventfulness, ossia la spinta a rappresentare la ‘pienezza dell’evento’ avendo colto un aspetto del vivere che costituisce una piega nel continuum spaziotemporale, ma soprattutto un fenomeno degno di essere ricordato e trasmesso perché ha toccato in qualche modo l’esistenza di un essere umano nel suo ambiente. Si tende quindi a manifestare che ‘qualcosa è accaduto’, e questo microevento narrativo diventa un nucleo di senso degno di essere detto nel modo più chiaro possibile, ossia creando parole per indicarlo nonché strutture stilistiche per narrarlo in modo efficace, a gradi di complessità crescente.

Sulla capacità di narrazione come primum addirittura fondativo del sé-individuo si sono soffermati ormai numerosi studiosi e intellettuali, proponendo tagli interpretativi diversi, e in alcuni casi critiche degne di attenzione. Se ora diamo per scontata questa potenzialità umana, è solo perché la lunghissima consuetudine ci fa sentire come naturale uno sviluppo biologico-culturale acquisito e poi ritrasmesso: ma un infante, che ben presto è in grado di segmentare microfenomeni, non riesce immediatamente a percepire la portata di un evento, né i suoi potenziali sviluppi, che deve imparare a riconoscere a poco a poco e grazie alla fusione di tipi di competenza molto diversi. La nozione stessa di ‘evento’ è assai stratificata e assume connotazioni molto diverse a seconda che ci si muova in un ambito fisico, filosofico, neuro-fenomenologico ecc. Proviamo comunque ad approfondire.

Assegnare un valore univoco al concetto di ‘evento’ è difficile, dato che esso viene diversamente declinato in molti campi del sapere: dalla linguistica alla filosofia, dalla giurisprudenza alla fisica. Qui interessano soprattutto alcuni tratti condivisi, e precisamente:

a. un evento introduce una variazione nel continuum temporale, considerabile come rottura o come modifica di uno stato;

b. non rimane statico e assoluto, come potrebbe essere un fatto, ma comporta un’interazione con i soggetti che lo percepiscono;

c. non dipende dalla classificazione logico-linguistica, dato che anche gli infanti sembrano in grado di riconoscere variazioni significative nel loro campo di percezione;

d. può essere comunicato e/o narrato in modi diversi ma ugualmente accettabili.

Più che le possibili implicazioni del concetto in sistemi filosofici, sono importanti quelle relative alla percezione da parte di un soggetto umano: nella sua interazione con il mondo esterno e in specie con la sua Umwelt, ogni individuo può intercettare fattori di discontinuità che, nello sviluppo linguistico, dapprima possono essere indicati con singole parole (pioggia, alba, terremoto ecc.), poi con sintagmi via via più complessi. Quando gli eventi percepiti vengono considerati degni di comunicazione e connotati con marche qualitative (stilistiche) si entra nel campo dell’eventfulness: un campo di recente sondato nell’ambito degli studi narratologici, che qui intendiamo specificamente in rapporto alle possibilità di rappresentare un accadimento che deve essere segnalato in sé e nelle sue implicazioni.

Dopo queste doverose precisazioni, proviamo a evidenziare il nesso che le opere letterarie instaurano fra un evento, in quanto nucleo di senso ricavato dall’esperienza e dalla sua rielaborazione corporeo-cerebrale, e il linguaggio che deve riuscire a manifestarlo. Nelle varie lingue, il modo di comunicare un evento può essere assai diverso, per esempio sincretico o discreto, enunciativo o narrativizzato, tuttavia esso trova un grado zero condiviso, che possiamo riferire a una materia del contenuto ‘universale’, o almeno antropologicamente fondativa. L’operazione della letteratura parte da questo materiale originario ma mira poi a renderlo ‘vero’, ad assicurare il rapporto fra le parole e le cose mediante la stilizzazione: se si afferma solo “è morto il re”, rimaniamo nell’ambito della comunicazione. Se invece si legge che, come un toro, “Gilgamesh è morto e mai più potrà alzarsi”, il testo, stilizzato grazie all’isocronia ritmica, al parallelismo anaforico e all’uso di una similitudine, chiede di credere alla verità di questa affermazione, paragonabile a una verità ineluttabile e fenomenica: un toro morto non si può alzare; pur non sapendo chi è Gilgamesh, sono tenuto a credere che pure lui è morto e non si potrà più alzare. La pienezza dell’evento, ovvero del nucleo di senso individuato e da veicolare, si raggiunge in virtù della sua stilizzazione molto più che mediante la sola enunciazione, e addirittura la formalizzazione aumenta la sua efficacia attrattiva e quindi la sua condivisibilità.

4. Oscurità e eventfulness costituiscono dunque due limiti e insieme due generatori del dicibile nelle opere letterarie. È impossibile indicare tutte le forme in cui queste potenzialità si presentano, perché variano storicamente soprattutto in rapporto alla sfera delle conoscenze scientifiche del mondo. Per esempio, sebbene non manchino anticipazioni o precursori, si deve aspettare la fase del simbolismo e delle avanguardie per allargare la gamma delle forme di oscurità, in tutte le arti; questa estensione è avvenuta, sin dai prodromi del Romanticismo, in rapporto a un enorme ampliamento delle ‘certezze’ razionalistico-illuministe. Quanto all’eventfulness, se la si intende come tensione a cogliere la pienezza di un nucleo di senso, col tempo si è estesa ben al di là della realtà fisica per toccare fenomeni interiori, inconsci ecc.: in questa prospettiva si può interpretare la tendenza, tipica di molti grandi scrittori (Eschilo, Dante, Shakespeare…), a creare parole e sintagmi per esprimere quanto non codificato dal proprio vocabolario, che diventa, dopo la svolta romantica, propensione all’espressionismo o alla mescolanza interlinguistica per ri-creare gli eventi. Ma non si tratta solo di studiare gli aspetti strettamente linguistici, bensì di riconoscerne meglio le implicazioni biologico-antropologiche. Notiamo intanto che, in teoria, l’oscurità e l’eventfulness, sulla base delle indicazioni precedenti, non dovrebbero concentrarsi rispettivamente nella sola lirica e nella sola narrativa: è vero però che, lungo lo sviluppo storico, la prima ha costituito il macrogenere in cui si è praticato maggiormente l’obscurisme, mentre la seconda ha fornito il medium più adeguato per raccontare eventi, dapprima nucleari e poi aggregati secondo modalità sempre più complesse.

Una volta calate nella concretezza dei testi attraverso il processo di stilizzazione, l’oscurità e l’eventfulness vanno a ritagliare sostanze del contenuto che veicolano un nucleo di senso inattingibile oppure evidente in sé, ma da interpretare: e si è detto delle funzioni asseverative di questo operare. Nell’ambito del possibile letterario, è però da ritenere, con tutte le dovute cautele, che la distinzione fra vere o false oscurità e veri o falsi eventi non ha ragione d’essere. Non importerà quindi, sul versante delle potenzialità realizzabili (l’unico qui in esame), il contesto sociale di ricezione; e non sarà rilevante se, per fare esempi estremi di oscurità ed eventi funzionali, le prime tendono a creare un orizzonte d’attesa di tipo religioso-sacrale, e i secondi sono invenzioni a scopo di propaganda. In altri termini, le conseguenze sociali di costruzioni letterarie elaborate e finzionali non sono correlate né al loro presunto messaggio, né alla loro capacità di farsi ri-leggere, cioè di entrare stabilmente nel circuito di una prassi (auto)riflessiva. È invece decisivo che sia riconoscibile lo stile con cui viene ottenuto un senso inconsueto e comunque da interpretare, oppure una sottolineatura dell’importanza di un evento da condividere: dagli strumenti più semplici della retorica sino alle più squisite raffinatezze manieristiche, la letteratura ha puntato a un potenziamento e a un addensamento dei nuclei di senso da veicolare, in modo da continuare ad attrarre l’attenzione e l’attività ermeneutica quando i livelli stilistici in uso diventavano troppo scontati. Si tratterà di individuare specifiche gradualità o scalarità biologico-cognitive, da giustificare poi storicamente. In questa direzione si stanno muovendo numerosi contributi recenti di Cognitive poetics  e su ciò si dovrà tornare in un contributo d’insieme.

 

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Immagine: Ted Stamm.

 

 

 

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).