Poesia completa

da | Mar 2, 2018

Poesia completa è la raccolta di tutte le poesie di Alejandra Pizarnik, a cura di Ana Becciu, traduzione di Roberta Buffi (LietoColle, 2018). Pubblichiamo alcune poesie seguite da una nota di Ana Becciu.

Giorni contro il sogno

Non volere bersagli che girano
su piano mobile.
Non volere voci che rubano
sementose arcate aeree.
Non voler vivere mille ossigeni
futili crociate in cielo.
Non voler muovere la mia curva
senza incerare la lama di adesso.
Non voler vincere la calamita
alla fine il sandalo di corda si sfilaccia.
Non voler toccare astratti
arrivare al mio ultimo capello marrone.
Non voler vincere code morbide
gli alberi dispongono le foglie.
Non voler recare senza caos
vocaboli portatili.

Continuerò

rotta cornice inquadra questo tutto
di albero castrato che piange
misurare ogni passo per lungo
se non si turba la luna la luce
arrotonda bianchezze
di rape grattugiate
gettare tutti gli involucri
altrimenti si distorce ciò che è nero
la musica tinge di rosso la via
di ogni piccolo umido
girare girare girare
percepire insieme alla cornice rotta
sensibilità di tacchi e molari
voler afferrarlo tutto

Salvazione

Fugge l’isola
E la ragazza riprende a scalare il vento
e a scoprire la morte dell’uccello profeta
Ora
è il fuoco sottomesso
Ora
è la carne
la foglia
la pietra
perduti nella fonte del tormento
come il navigante nell’orrore della civiltà
che purifica la caduta della notte
Ora
la ragazza trova la maschera dell’infinito
e rompe il muro della poesia.

La danza immobile

Messaggeri nella notte hanno annunciato ciò che non udimmo.
Si è cercato sotto l’ululato della luce.
Si è voluto fermare l’avanzare delle mani inguantate
che strangolavano l’innocenza.

E se si sono nascoste nella casa del mio sangue,
per quale motivo non mi trascino fino all’amato
che muore dietro la mia tenerezza?
Perché non fuggo
e mi inseguo con coltelli
e mi deliro?

Di morte si è intessuto ogni istante.
Io divoro la furia come un angelo idiota
invaso da erbacce
che gli impediscono di ricordare il colore del cielo.

Però io e loro sappiamo
che il cielo ha il colore dell’infanzia morta.

Ceneri

Abbiamo detto parole,
parole per destare morti,
parole per fare un fuoco,
parole dove poterci sedere
e sorridere.

Abbiamo creato il sermone
dell’uccello e del mare,
il sermone dell’acqua,
il sermone dell’amore.

Ci siamo inginocchiati
e abbiamo adorato frasi lunghe
quanto il sospiro della stella,
frasi come onde, frasi con ali.

Abbiamo inventato nuovi nomi
per il vino e per le risa,
per gli sguardi e i loro terribili
cammini.

Io adesso sono sola
– come l’avara folle
in cima alla sua montagna d’oro –
e scaglio parole in direzione del cielo,
ma io sono sola
e non posso dire al mio amato
quelle parole per le quali vivo.

L’albero di Diana

10

un vento debole

pieno di volti piegati

che ritaglio a forma di oggetti da amare

14

La poesia che non dico,

quella che non merito.

Paura di essere due

sentiero dello specchio:

qualcuno addormentato in me

mi mangia e mi beve.

26

(un disegno di Klee)

quando il palazzo della notte

accenderà la sua bellezza

………………….sonderemo gli specchi

finché i nostri volti cantino come idoli

Anelli di cenere

A Cristina Campo

Sono le mie voci a cantare
perché non cantino loro,
gli imbavagliati grigiamente nell’alba,
quelli vestiti da uccello sconsolato nella pioggia.

C’è, nell’attesa,
un mormorio di lillà che si rompe.
E c’è, quando arriva il giorno,
una divisione del sole in piccoli soli neri.
E quando si fa notte, sempre,
una tribù di parole mutilate
cerca asilo nella mia gola,
perché non cantino loro,
i funesti, i padroni del silenzio.

Pietra fondamentale

Non posso parlare con la mia voce ma con le mie voci.

I suoi occhi erano l’entrata al tempio, per me, che sono errante, che amo e muoio. E avrei cantato fino a diventare un tutt‟uno con la notte, fino a dissolvermi nuda all’entrata del tempo.

Un canto che attraverso come un tunnel.

Presenze inquietanti,
gesti di figure che appaiono viventi per opera di un linguaggio attivo che vi fa allusione,
segni che insinuano terrori insolubili.

Una vibrazione delle fondamenta, un trepidare delle basi, drenano e perforano,
e ho saputo dove si stabilisce quello così altro che sono io, che aspetta che resti in silenzio per prendere possesso di me e drenare e perforare le fondamenta, le basi,
quello che mi è avverso da me, cospira, prende possesso della mia terra sterile,
no,
devo fare qualcosa,
no,
non devo fare niente,

qualcosa in me non si abbandona alla cascata di ceneri che mi abbatte dentro di me con lei che è io, con me che sono lei e che sono io, indicibilmente diversa da lei.

Nel silenzio stesso (non nello stesso silenzio) ingoiare notte, una notte immensa immersa nel segreto dei passi perduti.

Non posso parlare per nulla dire. Per questo ci perdiamo, io e la poesia, nel tentativo inutile di trascrivere relazioni ardenti.

Dove la porta questa scrittura? A ciò che è nero, a ciò che è sterile, a ciò che è frammentato.

Le bambole sventrate dalle mie vecchie mani di bambola, il disincanto di trovare pura stoppa (pura steppa la tua memoria): il padre, che dovette essere Tiresia, galleggia sul fiume. Ma tu, perché ti lasciasti assassinare ascoltando racconti di pioppi innevati?

Io volevo che le mie dita di bambola penetrassero nei tasti. Io non volevo sfiorare, come un ragno, la tastiera. Io volevo sprofondarmi, conficcarmi, fissarmi, pietrificarmi. Io volevo entrare nella tastiera per entrare dentro la musica per avere una patria. Ma la musica si muoveva, accelerava. Solo quando ripiombava un adagio, nutrivo in me la speranza che si stabilisse un qualcosa simile a una stazione dei treni, o meglio: un punto di partenza fisso e sicuro; un luogo da cui partire, dal luogo, verso il luogo, unito e fuso al luogo. Ma l‟adagio era troppo breve, e per questo non riuscivo a fondare una stazione poiché potevo contare soltanto su un treno uscito un po‟ dalle rotaie che si contorceva e si distorceva. Allora abbandonai la musica e i suoi tradimenti perché la musica stava più in alto o più in basso, ma non nel centro, nel luogo della fusione e dell‟incontro. (Tu che fosti la mia sola patria, dove cercarti? Forse in questa poesia che sto scrivendo.)

Una notte al circo recuperai un linguaggio perduto nel momento in cui i cavallerizzi con la fiaccola in mano galoppavano girando con furia su neri destrieri. Neppure nei miei sogni più gioiosi esisterà mai un coro di angeli che infonda qualcosa che somigli ai suoni per il mio cuore caldi degli zoccoli contro la sabbia.

(E mi disse: Scrivi; ché queste parole sono fedeli e vere.)

(È un uomo o una pietra o un albero quello che sta per cominciare il canto…)

Ed era un sussulto leggermente trepidante (lo dico perché serva di ammonimento a colei che smarrì in me la sua musicalità e trepida con più dissonanza di un cavallo aizzato da una fiaccola sulle sabbie di un paese straniero).

Abbracciavo la terra, mentre dicevo un nome. Credetti di essere morta e che la morte era dire un nome senza mai smettere.

Non è questo, forse, ciò che intendo. Questo dire e dirsi non è gradito. Non riesco a parlare con la mia voce, ma solo con le mie voci. Anche questa poesia potrebbe essere una trappola, un altro scenario.

Quando la nave alternò il suo ritmo e vacillò sull’acqua violenta, mi alzai come l‟amazzone che domina soltanto con i suoi occhi blu il cavallo che s’impenna (o fu con i suoi occhi blu?). L’acqua verde sul mio viso, devo bere da te fino a quando la notte si apra. Nessuno può salvarmi già che sono invisibile persino per me che mi chiamo con latua voce. Dove mi trovo? Mi trovo in un giardino.

…………………………………………..C’è un giardino.

L’inferno musicale

Colpiscono con soli

Niente si adatta a niente qui

E con tanti animali morti nel cimitero di ossa affilate della mia memoria

E con tante monache come corvi che si precipitano a frugare tra le mie gambe

La quantità di frammenti mi strazia

Impuro dialogo

Un proiettarsi disperato della materia verbale

Liberata sé stessa

Naufragando in sé stessa

NOTA: Il presente volume raccoglie l’opera poetica pubblicata in vita da Alejandra Pizarnik, le poesie postume riunite da Olga Orozco e da me, e pubblicate nel 1982 con il titolo Testi di Ombra e altre poesie dalla casa editrice Sudamericana di Buenos Aires, e altre poesie che sono rimaste inedite fino a oggi. Un altro volume raccoglierà la sua opera in prosa e un terzo i suoi diari [pubblicati rispettivamente nel 2002 e nel 2013, N.d.T].
In questa prima pubblicazione non si includono alcuni testi che invece figuravano nell’edizione di Testi di Ombra e altre poesie. La decisione di includere questo o quel testo in uno o in un altro volume non è altro che una maniera di leggere, sempre personale, soggettiva; a ogni modo, non risponde a criteri accademici. Mi sono lasciata guidare dal trattamento molto particolare del ritmo che Alejandra Pizarnik dava ai testi in prosa. D’altro canto, la quantità e l’importanza dei manoscritti inediti hanno reso necessario separarne alcuni (e passarli al volume di prosa) per poterne includere altri.
Tutte le cartelle e i quaderni, più i piccoli fogli con annotazioni o poesie, a macchina o a mano, furono conservati praticamente nello stesso ordine in cui si trovavano alla morte di Alejandra Pizarnik. Quest’ordine, quello delle cartelle o dei quaderni, è quello che ho cercato, nella maniera più scrupolosa possibile, di rispettare. Nelle note a piè di pagina, nella parte corrispondente a «Poesie non riunite in libri», indico i manoscritti o i quaderni dai quali procedono i testi. Alejandra Pizarnik era molto scrupolosa con le sue carte. Le sue schede di lavoro si sono rivelate di grande utilità, così come gli schedari in cui annotava le sue pubblicazioni nelle riviste, con date e luoghi. Quando ho riportato le date tra parentesi quadre è perché non figuravano nel manoscritto, però era possibile dedurle per la loro collocazione nella cartella o per il colore dell’inchiostro delle correzioni fatte a mano. Tutto questo materiale, come pure la sua corrispondenza, le scatoline e piccole buste nelle quali conservava parole o frasi raccolte da letture o conversazioni, i quaderni in cui annotava poesie o frammenti di altri autori, e che chiamava il suo «Palais du Vocabulaire», andranno ora a formare l’Archivio Alejandra Pizarnik, presso l’Università di Princeton, Stati Uniti, e potranno essere consultati dagli studiosi che magari un giorno vogliano pubblicare l’opera con apparato critico, studiando con attenzione ognuno dei manoscritti con le loro varianti e correzioni.
Questo volume non è definitivo, in senso accademico; è soltanto una compilazione, realizzata, questo sì, con lealtà verso Alejandra Pizarnik, e devozione alla sua opera, unica e irripetibile.

Ana Becciu

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).