Poesia come preghiera in Carlo Betocchi

da | Feb 12, 2018

di Franca Mancinelli

Nella sua forma primordiale la poesia era preghiera. Carlo Betocchi è uno dei maestri del nostro Novecento che più attinge a questa originaria fonte della parola. È forse questo il motivo per cui sta scontando nel presente la propria costitutiva inattualità. Trascurata dall’industria editoriale, la sua opera si è infatti resa “irreperibile”. Affidata ai cataloghi delle biblioteche, alla tenacia e fedeltà di alcuni studiosi, resiste depotenziata, come una fiamma in carenza di ossigeno. Perché risplenda nella forza primigenia che le appartiene, è però necessario liberarla subito dalla facile cornice di una lettura religiosa confessionale. È preghiera infatti la poesia capace di riconnettersi alla sua origine e farsi poiein, azione che trasforma noi stessi e la realtà che ci circonda. La fede in questa energia creatrice, in questa carica vitale che Florenskij riconosce come il valore magico della parola, appartiene agli inizi di ogni civiltà. Perdere il seme poetico della lingua, significa perdere la nostra possibilità di agire nel mondo. Pasolini se ne era già accorto nella metà degli anni ’60 quando, nel saggio Nuove questioni linguistiche, riconosceva il nostro italiano medio nascere dal dilagare del linguaggio tecnico-aziendale. Lingua anonima, inerte, che ci spossessa della nostra umanità. Il poeta invece istintivamente torna a quella dimensione arcaica in cui la poesia era rito, espressione di un corpo che attraverso il ritmo entra in contatto con le forze non conosciute.[1]

Betocchi, poeta fedele all’«atto / del nascere»,[2] costantemente volto al principio della creazione, non poteva non collocarsi anche in questo senso all’origine:

[…] nell’innocenza
prima del punto del nascere, del punto
del decidere, non mio, ch’io fossi…
quand’ero in mano a quel creativo esistere,
atto creativo, che s’incarnava in me.[3]

La poesia è per Betocchi in questo movimento di ritorno che è precisamente un «rientrare»: parte dalla propria soggettività, ma per attraversarla, per travalicarla fino a raggiungere l’aperto e infinito atto della creazione. La sua parola si genera da questa capacità di ascolto e di accoglienza della voce dell’altro. È tesa a sua volta a incarnarsi nel lettore, nello spazio del suo arretrare; chiede di accadere nell’istante in cui riceve la nostra voce, chiamandoci a condividere la gioia debordante che ci appartiene in quanto creature, come materia plasmata dall’amore. «Ho concepito la poesia come un inno di lode»,[4] afferma il poeta stesso in un’intervista. La poesia è dunque, nei suoi intenti, di per se stessa preghiera: forma di ringraziamento, moto d’amore che si riversa, trepidante e colmo di commozione.

Leggerò alcuni testi nei quali affiora un affidamento pieno alla parola e alla sua possibilità di operare una metamorfosi, liberando il soggetto da una condizione di sofferenza e di dolore o anche soltanto consentendo l’esperienza di uno sguardo altro, di una fenditura che ci connette a un’altra dimensione. Non mi soffermerò sui testi più prossimi alla fede immediatamente identificabile con la religione cattolica, che Betocchi riceve in eredità materna e poi matura, nella sua personale scelta. Una fede che, soprattutto nel primo libro, è espressa nei toni conciliati e consolanti di una certezza che guida lo sguardo e ne delimita l’orizzonte. Il tipo di fede, di affidamento che seguo, convive da sempre con il suo cristianesimo, ne è forse il sostrato più arcaico; coesiste in particolare con quella componente della sua religiosità che poi, a partire dagli anni ’60, si andrà progressivamente aprendo fino a perdere ogni connotazione confessionale. L’esperienza della vecchiaia e della grave malattia della moglie lo espongono infatti in prima persona a quella condizione di estrema fragilità propria dell’esistenza umana. In questo contesto si approfondisce e radicalizza anche la sua sensibilità creaturale, da un sentimento di fratellanza per tutti gli esseri viventi, a un’adesione alla materia dell’universo, a partire da uno sguardo che ha completamente perso la prospettiva antropocentrica e che si illumina, come ha scritto Mario Luzi, di un “celestiale quid silvestro”.[5] L’identità è allora ricondotta a questa forma di appartenenza, di ricongiunzione con il movimento anonimo della vita: «nel gesto del fiume ti ritrovi, / e pensi col pensiero del fiume, / con l’immobile esistere fluisci» (Sull’Arno, di primavera).

La versione integrale di questo saggio è in corso di stampa presso Raffaelli editore nel volume Carlo Betocchi «Ciò che occorre è un uomo…». Oltre a questo estratto dall’introduzione, leggiamo il I e il II paragrafo.

I. La trasfigurazione del reale

Un dolce pomeriggio d’inverno (da Altre poesie)

Un dolce pomeriggio d’inverno, dolce
perché la luce non era più che una cosa
immutabile, non alba né tramonto,
i miei pensieri svanirono come molte
farfalle, nei giardini pieni di rose
che vivono di là, fuori del mondo.

 

Come povere farfalle, come quelle
semplici di primavera che sugli orti
volano innumerevoli gialle e bianche,
ecco se ne andavan via leggiere e belle,
ecco inseguivano i miei occhi assorti,
sempre più in alto volavano mai stanche.

 

Tutte le forme diventavan farfalle
intanto, non c’era più una cosa ferma
intorno a me, una tremolante luce
d’un altro mondo invadeva quella valle
dove io fuggivo, e con la sua voce eterna
cantava l’angelo che a Te mi conduce.

Da un sentimento della luce come cosa concreta e salda, si avvia una particolare intensificazione della realtà che diviene soglia e tramite verso un’altra dimensione. Sappiamo fin dal titolo e dal primo verso, il periodo determinato di tempo in cui ci troviamo (un pomeriggio d’inverno), ma la definizione per negazione che viene data alla luce («non alba né tramonto») ha l’effetto di liberarla dalle coordinate fissate precedentemente, rendendola così atemporale. Ci troviamo in un momento di massima intensità e iridescenza della luce. Questa forza luminosa ha la capacità di tramutare i pensieri in farfalle che volano verso un altro mondo. In questa metamorfosi il soggetto si espande oltre i propri confini, diventa ciò che sta guardando. Liberata dal pensiero, l’identità abdica a se stessa, si apre. Questa condizione sarà nelle ultime raccolte il punto di partenza di un nuovo sentire che aderisce alle fibre dell’universo: «grande immenso oceano / della vita non mia, vita che arriva, // mi dècima, dimentica, dilaga» (A cuci e scuci, 4).

Come facendo un movimento indietro per rientrare nel mondo, nella seconda strofa il poeta riprende la similitudine con le farfalle. Sottolinea così che quanto è avvenuto proviene da un’esperienza concreta del suo sguardo che ha visto le farfalle volare «sempre più in alto».

Nel terzo movimento coincidente con la terza strofa, un’altra dimensione pervade la realtà: siamo dentro a un’esperienza di trasfigurazione. Il turbinio di ali in volo pronte a svanire, ora appartiene a ogni forma, anche alla luce stessa che, da «cosa / immutabile» si è fatta «tremolante luce d’un altro mondo». Nessun sentimento di timore o sgomento nel soggetto che anzi è richiamato verso questa soglia aperta. La «voce eterna» dell’angelo ci rinvia alla luce «immutabile» comparsa all’inizio. Luce e voce sono due tramiti che conducono alla destinazione e origine prima, che Betocchi identifica con Dio.

Torniamo alla strofa centrale, cardine di questa poesia. Per Betocchi è importante ribadire che l’esperienza che ha vissuto è radicata nella realtà e, in particolare, in ciò che in essa è più quotidiano e umile: le farfalle sono quelle «povere» e «semplici» che stanno solitamente sugli orti. Per questo la similitudine è ripetuta per tre volte. Un’altra ripetizione, quella dell’avverbio «ecco» in anafora a inizio di verso, evidenzia la simultaneità di questo fenomeno che sta avvenendo ora, sotto i suoi occhi.

Nell’Avvertenza a Realtà vince il sogno, Betocchi afferma che queste poesie: «sono state dettate quasi sempre da una lucida certezza di quello che dicevo: e se c’è una cosa che mi ha allucinato, anzi, è stata la realtà di tutto quello che si vede, e che comunemente vien chiamato il mondo, la quale certe volte mi è sembrato che avesse profondità dove disperavo, e tuttora dispero nei miei momenti migliori, di arrivare». La strada per lui non è infatti quella dell’immaginazione (o del sogno). Seguendo il magistero dantesco, è soltanto affondando pienamente nella materia della realtà che si può giungere a una verità che sta attraverso e oltre la materia stessa. In questo senso va letta anche la predilezione, dichiarata in Appendice alle Poesie del sabato, per la poesia di Eliot piuttosto che per quella di Rimbaud, che lo aveva abbagliato da giovane.[6] Eliot ha parlato infatti dell’esperienza poetica come attraversamento dello specchio verso l’altro mondo, quello vero, che sta dietro. Chi immagina resta intrappolato nei riverberi e nei riflessi della propria interiorità: attribuisce significati alle cose dettati dal proprio io. Attraversare lo specchio implica invece un movimento, un andare oltre l’io, per raggiungere una purezza e nudità di sguardo. Ciò avviene attraverso l’intuizione poetica che permette di vedere non quello che potrebbe esserci, ma quello che c’è dietro lo specchio. La poesia è esperienza spirituale in atto, è il sentimento pieno della realtà: affinando l’attenzione, ovvero la capacità di visione accoglie questo mondo e insieme quello che sta oltre. «Ho cercato di capire più che potessi di quanto mi stava attorno; ho cercato di mettermi nel cuore delle cose […] penso che amare una cosa significa identificarla, restituirle la sua identità e libertà» afferma Betocchi in un’intervista.[7] Per ottenere questa percezione nitida del reale, è necessario eliminare tutte le resistenze che il nostro io frappone al nostro essere creatura. Per questo la poesia è per Betocchi una fondamentale lezione di umiltà. Come per Clemente Rebora, è dono di sé, capacità di svuotarsi (kenosis), per accogliere l’altro. In questo aprirsi e fare spazio, l’io muore per fare nascere l’altro, come l’evangelico chicco di grano (Giovanni, 12, 24-25). Soltanto attraverso questo arretrare e venire meno della propria individualità, può avverarsi quella più ampia forma di appartenenza a cui Betocchi si sente chiamato, sempre più nitidamente, nell’avanzare degli anni: «tu darai forma a quella / che, faticosamente, sarà l’anima di tutti: / uomini e sassi, ed animali e piante» (A mani giunte, IV). È alla luce di questa consapevolezza della valenza dell’umiltà come humus per la nascita che, rinnegando il proprio giovanile amore per Rimbaud, riconosce alle sue Illuminazioni aridità e superbia.

II. Il lavoro, preghiera del corpo

Betocchi è un poeta anomalo nella tradizione italiana, uno dei meno letterati che abbia avuto il nostro Novecento. Il lavoro che dall’immediato dopo guerra ha condotto per trent’anni nel campo dell’edilizia, lo ha immerso nella realtà concreta dei cantieri, degli operai, a contatto con la materia da trasformare nei giorni. La pazienza, la saggezza e il coraggio anonimo di questi lavoratori manuali, hanno plasmato nel profondo il suo sguardo. Questa quotidiana e duratura esperienza, è stata per lui un «bagno d’innocenza»,[8] un lento apprendistato all’umiltà. La sua parola si origina da questa immersione nel reale, ne porta in sé la concretezza, la consistenza materica. Conosce il silenzio del corpo affaticato, il peso di lunghe attese nelle quali la voce affiora, scandita dai gesti. Come per il giovane insegnante Clemente Rebora, il lavoro è «sacrificio muto»,[9] fondamentale esperienza di dissolvimento del proprio io nella gioia del donarsi. Non è un caso che immagini e ritratti di lavoratori nella poesia di Betocchi ricorrano più frequentemente nella raccolta L’estate di San Martino, nella quale è centrale, fin dal titolo, la riflessione sul dono e sul rapporto con l’altro. Martino che in una notte fredda dona la metà del proprio mantello a un mendicante, il mattino seguente ritrova il proprio mantello intatto. Questo episodio che appartiene alla tradizione popolare cattolica, ricorda la parabola evangelica del buon Samaritano (Luca, 10, 25-37). Amare il prossimo come se stessi, significa, come afferma Massimo Cacciari, lasciare che il proprio cuore si frantumi, toccato nel profondo dall’altro (questo il significato del termine esplanchnisthé, tradotto con misericordia). È soltanto da questa ferita che è possibile aprirsi all’altro da noi, e in questo confronto scoprire noi stessi. L’amore a cui chiama il vangelo è questa «energia capace di essere-molti» che risiede nell’Uno che viene meno ai limiti della propria individualità, per essere altro da sé; Cacciari lo definisce l’«Uno poietés».[10] Questa tensione dell’amore è profondamente vissuta nella sua carica agonica dal giovane Rebora che in alcune delle più nitide schegge dei suoi Frammenti lirici scrive: «vorrei amare / e giovando dissolvermi in voi»; «il fato di ciascuno è dentro il mio / come nell’occhio lo sguardo»; «e del sangue di tutti è il mio polso».[11] In Betocchi emerge nella stagione più matura come direzione certa a cui ricondurre le inquietudini e le sofferenze del cammino: «Sii non schiavo di te, / ma il cuore di ciascun altro: annullati / per tornare vivo dove non sei / più te, ma l’altro che di te si nutra» (In piena primavera, pel Corpus Domini, 5). Questo donarsi è il contrario del depotenziamento e della rinuncia, è anzi fonte di una forza che si rigenera. Il suo compimento avviene nel momento in cui l’individualità muore per nascere nella coralità. Questo il «chicco» che i Frammenti lirici consegnano al proprio lettore e che Betocchi accoglie inaugurando con «l’opera comune» L’estate di San Martino.[12] Il lavoro è proprio questo per lui: dedizione all’opera anonima del «reciproco amore», atto di umiltà che mette l’uomo a contatto con la sua verità e con la verità del mondo, come creazione incessante. La presenza frequente di immagini legate al lavoro è connessa a una ricerca di autenticità, a una necessità di ricongiungersi con i gesti più semplici che custodiscono il significato della vita, il nostro radicamento alla realtà.

È sempre un lavoro artigiano o comunque legato alla terra quello che i versi di Betocchi accolgono. Con la sua poesia siamo infatti ancora in un mondo pre-industriale, in cui l’uomo non è alienato o reso schiavo del salario, ma anzi esaltato nella sua umanità. Panikkar afferma che soltanto in questo caso il lavoro corrisponde alla vocazione dell’uomo: partecipare attivamente alla fioritura dell’universo. Nel lavoro dell’artigiano infatti, come in quello dell’artista, la contemplazione è inserita pienamente. Ed è presente la gioia che si genera dal vivere prendendo parte alla creazione. Per questo, fino al secondo dopoguerra, non era raro ascoltare il canto del lavoro. Proveniva dai campi e dalle botteghe come sostegno e accompagnamento dei gesti, espressione di una letizia che sorge dalla ritualità, dal corpo interamente volto al dono. Pasolini agli inizi degli anni ’60, nelle borgate di Accattone, registrava gli ultimi mesti accenti di questa melodia capace di riscattare la dignità della miseria. Betocchi è in ascolto di questa stessa sorda litania, ma come completamente immerso in una realtà ancora premoderna, liberato dall’ombra della storia: «travolto e accecato dall’amore» che, come ha riconosciuto Pasolini stesso, lo porta a stabilire con i lavoratori un «rapporto evangelico».[13] Vedi ad esempio, in Altre poesie, Canto d’una vendemmiatrice e Canto d’una rammendatrice, dove il poeta assume la voce di queste lavoratrici, oppure Stando con donne che cavano ghiaia da un fiume, in Ciociaria[14] dove il peso della fatica si scioglie nell’andare insieme, cantando. Oltre al canto, ciò che nel lavoro richiama Betocchi è il suono. Nella seconda sequenza di Una giornata a Greve, il battito che dalle botteghe si diffonde nell’aria sembra costituire la realtà stessa, attraversata da questo ritmo che non è altro che amore.

Batti la falce a freddo, lungo il taglio,
e insisti, o pazientissima mano,
lascia che echeggino i colpi,
e s’empia l’aria del mattino
d’un sottile rumore.
Ché in questo è il paese,
e quando sbagli battuta, e quando
sosti, e quando riprendi
a venare di colpi il timido acciaio
e la pietra,
come somiglia il mattino alla sera,
e il nitore dell’aria al maltito
apparir della luna,
sui colli, purissima,
tribolata anche lei dall’amore.

Questo battito che pervade il paese, attraversa anche la natura. La luna è infatti «maltita», termine regionale toscano che indica l’essere ammaccato dei frutti e, in senso figurato, l’essere offuscato del cielo. Tutto ciò che appartiene alla realtà e al suo moto, è ricondotto alla sua origine prima. Gli umani “sbagli” e le interruzioni dell’opera, come gli opposti momenti o qualità del giorno, sono accolti in questo sentimento dell’unisono che plasma la parola di Betocchi.

Il suono che proviene dal lavoro è centrale in un’altra poesia de L’estate di San Martino, In Borgo Pinti:

Fra i tanti suoni consueti, d’uno
la benedetta sorte mi rallieta
stamani, come grillo
pei campi, o a volte
canto d’assidua cicala.
Viene da qualche fondaco vicino,
d’artigiano o meccanico:
a intervalli o continuo, tra il frastuono
diurno della via, esile e vero,
per quel fingere suo di un suono agreste,
capace a modo suo di consolarmi.
Io so infatti che è vero, umile suono
d’un artigiano: e che il resto è finzione.

Betocchi non può fare a meno di sintonizzarsi su questa frequenza altra che emerge dalla «finzione» che appartiene a ogni altra cosa. Anche se flebile e lontano, questo suono ha infatti una forza capace di fare breccia nel frastuono quotidiano. Questa sua forza deriva dalla sua verità portatrice di gioia e di consolazione. È come se la realtà si desse pienamente soltanto nel lavoro, in questo gesto che opera in noi stessi, riconnettendoci alla natura e attraverso di essa alla creazione, nella sua sorprendente e incessante presenza. Il poeta insiste sulla verità di questo suono, per una ragione simile a quella per cui, in Un dolce pomeriggio d’inverno, ribadiva l’esistenza delle farfalle: è cogliendo questa realtà che riuscirà a raggiungere un significato ulteriore. Nel lavoro come nel contatto con la natura, Betocchi avverte la possibilità di ricongiungersi con l’origine. È così che questo «umile suono» viene ad abitare nella sua anima, guidandolo alla sua più vera e riposta identità: quella di «antico poeta», nel tempo in cui la scrittura aveva la stessa funzione di un lavoro artigiano, registrava le cose, la loro presenza.

So che è cosa banale,
ma lo sento intanarsi dentro l’anima,
compagno vivo, qual raschio d’un tarlo,
o di pennino a un antico poeta,
che torna a farsi vivo, qual può darne
la dura vita a chi in un buco scrive,
oggi, di stanza, giorno dopo giorno,
queste povere carte, o per il pane
cifre sopra un registro: tutto è uguale.

Nei termini di questa identità che azzera la distanza tra il passato e il presente, tra il gesto quotidiano e anonimo del lavoro e quello della scrittura, va pensata la poesia di Betocchi. L’attenzione costante che questo poeta riserva al lavoro è un confronto continuo, necessario, che il suo fare poesia richiede, come rispecchiandosi nella sua immagine più vera. Bisognerebbe soffermarsi su questa particolare anacronistica postura che Betocchi assume scrivendo poesia «come si poteva dipingere, in una bottega del Trecento, una pala d’altare».[15] E, accogliendo il suggerimento di Baldacci, approfondire l’«aspetto dell’artigianato» della sua poesia.

Anche in Fratello erbivendolo un ruolo fondamentale ha il suono che si origina dal lavoro, in questo caso la voce che nella mattina grida la merce, riconosciuta dal poeta come «del comune esistere / richiamo quotidiano», fino a farla coincidere, in un crescendo marcato dal ripetersi delle anafore, con la voce del Cristo risorto che, nel Vangelo di Giovanni, la Maddalena accanto al sepolcro scambia per quella dell’ortolano.[16] È dunque Cristo stesso che può celarsi nelle sembianze di questo umile lavoratore.

Concludiamo questo percorso con il sesto frammento di Di quando in quando, un autoritratto in versi in cui Betocchi si immedesima nei panni d’«un vecchio garzone» che al risveglio saluta le «prime luci»: un’immagine di una tale gioiosa umiltà che la parola sembra avere balzi e guizzi luminosi. Vibra internamente, come visitata dall’energia festosa di un rintocco che saluta il ritorno di un inizio. Il cammino compiuto fin qui da Betocchi può essere esemplificato nel bagliore nitido di questi versi: come sia stato capace di arretrare, di farsi da parte, per accogliere lo splendore della vita, fino a fare sì che sia la vita stessa a parlare per lui, di lui, che si lascia intarsiare e scrivere dalla sua luce.

[…] «Salve, mie care ragazze!»
dico, mentre quelle s’accendono di sole;
e mi vedo nei panni d’un vecchio garzone
che s’affaccia alla soglia della bettola
a gettar nel rigagnolo i risciacqui
della sporcizia di ieri sera:
e…«Mie care regine dai broccati d’oro!»
esclamo a quelle luci; e penso
«qualche chiazza di sole sul sozzo grembiale
dirà qualcosa di me, a qualcuno che passa».

 

 

 


[1] B. Antomarini, La preistoria acustica della poesia, Nino Aragno editore, Torino 2013.

[2] C. Betocchi, Di quando in quando, 5, da Ultimissime, in Id., Tutte le poesie, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1984, p. 385. Tutte le citazioni alle poesie di Betocchi, se non diversamente specificato, fanno riferimento a questa edizione.

[3] C. Betocchi, Di quando in quando, 4, da Ultimissime, cit., p. 385.

[4] V. Volpini, Carlo Betocchi, «Il Castoro», n. 57, La Nuova Italia, settembre 1971, p. 5.

[5] Questa espressione è tratta dai versi di una poesia di Mario Luzi posta a chiusura del suo saggio Il sabato di Carlo Betocchi, «Antologia Viesseux», a. XVI, n. 1-2, 1981, pp. 23-26, poi in Id., Discorso naturale, Garzanti, Milano 1984, p. 68; la poesia citata è stata poi raccolta in Id., Per il battesimo dei nostri frammenti, Garzanti, Milano 1985.

[6] C. Betocchi, Diario della poesia e della rima, (Appendice a Poesie del sabato), p. 500. Vedi anche l’Avvertenza a Realtà vince il sogno (Il Frontespizio, 1932), p. 8, dove è la sua attestazione d’amore «pietoso e profondo» per il poeta delle Illuminazioni.

[7] V. Volpini, Carlo Betocchi, «Il Castoro», n. 57, La Nuova Italia, settembre 1971, p. 4.

[8] E. F. Accrocca (a cura di), Ritratti su misura di scrittori italiani, Il Sodalizio del Libro, Venezia 1960, p. 72.

[9] C. Rebora, XXXVI, Frammenti lirici (1913), in Id., Le poesie (1913-1957), a cura di G. Mussini e V. Scheiwiller, Garzanti-gli elefanti, Milano 2008, p. 69.

[10] M. Cacciari, Drammatica della prossimità, in E. Bianchi, M. Cacciari, Ama il prossimo tuo, il Mulino, Bologna 2011, pp. 85-141.

[11] C. Rebora, Frammenti lirici, cit., p. 15, 53, 106. Vedi, oltre ai testi citati (II, XXIV, LVI), anche il frammento XXXIX: «È nell’offerta la messe più pingue / […] Oh voce risorgi dal cuore di ognuno: / E ognuno, dove muore, scoprirà / Chi l’attendeva a vivere».

[12] Una traccia di questo passaggio potrebbe essere proprio l’evangelica immagine del «chicco» che conclude i Frammenti lirici e riaffiora ne L’opera comune di Betocchi: «e noi siam nulla, l’abolito seme…».

[13] P. P. Pasolini, Le estasi di Betocchi, in «Il Giovedì», 25 aprile 1953, poi in Il portico della morte, Fondo P. P. Pasolini, Milano 1988.

[14] C. Betocchi, Il vetturale di Cosenza ovvero viaggio Meridionale (1959), da L’estate di San Martino, cit., p. 264. Vedi anche, nella sezione Poesie disperse edite e inedite, Canto di una giovane cucitrice, risalente all’agosto del ’33.

[15] L. Baldacci, Introduzione a C. Betocchi, Tutte le poesie, cit., pp. 26-27.

[16] Giovanni (20, 11-18). Nella recente versione di questo passo del Vangelo, «l’ortolano» è sostituito dal «custode del giardino»: «Le disse Gesù: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo”», La Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 2009.