Pietro De Marchi, La poesia di Giovanni Orelli 

da | Dic 15, 2020

Questo saggio di Pietro De Marchi, dal titolo completo Il lieto guazzabuglio della vita. La poesia di Giovanni Orelli, è uno dei capitoli del volume Con il foglio sulle ginocchia (Edizioni Casagrande, 2020) dove Pietro De Marchi narra alcuni passaggi della sua esperienza della letteratura attraverso le generazioni con racconti e saggi brevi che, come scrive Paolo Di Stefano nella quarta di copertina, “chiamano la letteratura alla propria responsabilità verso la vita”.

 

In un saggio dedicato alla poesia di Thomas Hardy compreso in Dolore e ragione, Josif Brodskij scrive che «la presenza del romanziere Hardy pregiudica la visuale fin dalla soglia», così che nessun critico «sa resistere alla tentazione di agganciare il prosatore al poeta». A Giovanni Orelli non sarebbe dispiaciuto che un ricordo della sua opera di poeta incominciasse con una citazione, lui che praticava con gioia di lettore voracissimo un inimitabile “parlar citando”.

È vero che non c’è quasi articolo o saggio sulla poesia di Giovanni Orelli che non inizi con un riferimento alla sua opera di narratore. Ma non c’è da stupirsene: a lungo, a partire dal 1965, anno di pubblicazione del suo primo e celebrato romanzo, L’anno della valanga (Mondadori), la notorietà di Giovanni Orelli ha riposato sulla sua produzione narrativa, che nei decenni successivi al libro d’esordio annovera altri tre importanti romanzi: La festa del Ringraziamento (Mondadori, 1972), Il giuoco del Monopoly (ivi, 1980) e Il sogno di Walacek (Einaudi, 1991), per molti il suo capolavoro. Ma è altrettanto vero che fin dalla metà degli anni Ottanta Giovanni Orelli ha pubblicato numerosi e notevoli libri di versi: pur senza abbandonare la prosa (ancora del 2014 sono i suoi racconti riuniti per Aragno nei Mirtilli del  Moléson), è alla poesia che egli si è dedicato con maggiore continuità nell’ultima parte della sua carriera letteraria. Ecco allora susseguirsi a distanza ravvicinata i testi in dialetto leventinese compresi in Sant’Antoni dai padü (Scheiwiller, 1985), le poesie italiane di Concertino per rane (Casagrande, 1990), i centoventuno sonetti raccolti nelle due sillogi gemelle Né timo né maggiorana (Marcos y Marcos, 1995) e L’albero di Lutero (ivi, 1998), e ancora le Quartine per Francesco (Interlinea, 2004) e Un eterno imperfetto (Garzanti, 2006), per arrivare ai recenti o recentissimi Frantumi (Alla chiara fonte, 2014), Un labirinto (ADV – Alla chiara fonte 2015), Accanto a te sul pavimento (Interlinea, 2015).[1]

Se un’aria di famiglia apparenta il narratore e il poeta Giovanni Orelli, essa va riconosciuta soprattutto nella sua capacità di coniugare l’impegno civile e la sperimentazione letteraria, il bagaglio secolare della tradizione e la modernità delle forme. Nella narrativa, Giovanni Orelli ha coltivato un “allegro espressionismo” (la definizione è sua), mescolando temi e registri diversi, l’alto e il basso, il tragico e il grottesco, il locale e l’universale, la narrazione pura e la digressione saggistica; allo stesso modo, in poesia, egli non ha disdegnato la metrica libera, ma altrettanto volentieri ha fatto ricorso alle forme chiuse e canoniche, come il sonetto e la quartina, il rondò e la ballata, sempre rivisitate in maniera originale, alternando lirismo e parodia, satira politica e divertissement linguistico.

«Misura per amare è amare, sempre, senza misura»: il sentenzioso e chiastico verso finale del sonetto n. 34 di Né timo né maggiorana potrebbe essere indicato come la cifra di quel libro e forse anche, per estensione, di tutta l’operazione letteraria di Giovanni Orelli. Così, se il combustibile del fare poetico di Orelli è un eros che non sopporta la costrizione di limiti prestabiliti, non sorprende che nei suoi sonetti i versi travalichino spesso la misura dell’endecasillabo. E quanto si dice della metrica varrà anche per altri aspetti della sua poesia. Non si andrà lontani dal vero, ad esempio, ritenendo che l’esuberanza verbale, il plurilinguismo e il citazionismo orelliano stiano in stretto rapporto con una curiosità pronta a nutrirsi di ogni esperienza umana e culturale: lettura istruttiva o accattivante, visione o sogno di bella donna, accorato sdegno per il male di vivere o le malefatte dei potenti. Scrivere un sonetto significava, per Giovanni Orelli, erigere un piccolo grande monumento a testimonianza di un “io” che vive ben più che al montaliano “cinque per cento”, e osserva, ascolta, è presente nel mondo con la sua vigile coscienza.

Più sopra si è prelevato, con le pinzette dell’antologista, un verso memorabile. Se si volesse ora scegliere invece un testo da raccomandare come esemplare, si potrebbe citare, ancora da Né timo né maggiorana, il sonetto n. 57, che incomincia con «Per un mio identikit: sono Bubka che soffia, sbuffa». È un sonetto d’autoritratto, costruito come un ludico, arlecchinesco patchwork, nel quale le pezze del variopinto tessuto sono prese a prestito dal campo dello sport (il suddetto campionissimo di salto con l’asta), ma anche da quello della natura, della letteratura, della filosofia, della musica. Il sonetto-autoritratto, con la varietà dei suoi temi, l’eterogeneità delle sue fonti, e però con il sigillo e la firma autenticata dell’autore, è una mise en abyme nella quale quel libro, quasi giunto alla sua conclusione (sessanta sono i sonetti della prima raccolta), si riflette tutto intero. Il titolo del volume, Né timo né maggiorana, rinvia infatti a un passo famoso di Montaigne, in cui si parla delle api che suggono i fiori di qua e di là, ma poi ne traggono un miele che è tutto loro.

Come le api di Montaigne, così Giovanni Orelli, poeta colto, abitato o invaso dai libri letti. Persino in un libro affabile e quasi diaristico, scritto per (e con) un nipotino, Quartine per Francesco, accanto al divertimento fonico che giunge a sfidare il polisillabismo dell’italiano («tu sei il mio cd, da Bach giù giù, fino a Bartók, al rap») o ai numeri da acrobata del purilinguismo, si rinviene una cospicua dose di echi culturali. Si avverta però che questi ultimi sono pressoché inevitabili, divenuti carne e sangue di lui, Johannes comestor, insaziabile mangiatore di libri, e quindi non qualcosa di sovrapposto alla vita, ma vita anch’essi.

Fin da Concertino per rane, erano l’amore per la vita e l’indignazione per la violenza e i soprusi dell’uomo sull’uomo a muovere la scrittura orelliana. Ne è conferma un’altra delle sue più importanti raccolte poetiche, Un eterno imperfetto, che sì, si presenta come un ordinato catalogo di poesie sulla grammatica, con un tono spesso giocoso che avrebbe rallegrato uno scrittore come Gianni Rodari, ma che non dimentica mai la tragicità dell’esistenza. Una delle prime poesie, Presente, incomincia infatti con un verso bilingue, tra dialetto e italiano («Sem in amor, siamo in amore»), e si conclude con due versi in cui si parla «di tutto il male che c’è nel giornale, quelli / che per terra e per mar semina morte». Si va quindi da «Sem in amor» a «semina morte». E non si tratta, con ogni evidenza, solo di un Witz, di un gioco di parole basato su una affinità fonica.

Anche in questo libro della tarda maturità Giovanni Orelli tornava a presentarsi come l’uomo di montagna che ha appreso molte cose sulla vita e sul mondo attraverso le favole letterarie. Per lui era naturale che ogni aspetto della realtà venisse filtrato attraverso la cultura, e viceversa: così il maniscalco e il letterato (qui Flaubert, maestro nell’impiego dell’imperfetto) si stringono cordialmente la mano; e se si parla in dialetto leventinese della morte con immagini semplici e rustiche, si chiude poi in “crescendo” con la citazione della Giulietta di Prokof’ev che muore in do maggiore; se si rievoca il momento in cui un garzone di macellaio, in una piazza di Lugano, grida la notizia della morte di Marilyn Monroe («Prufesùr, la Marilyn l’è morta!»), dietro le parole del giovane dialettofono si intuisce l’eco di Shakespeare, del Macbeth (atto V, scena v), là dove uno scudiero annuncia che «The queen, my lord, is dead». Di nuovo dunque quel connubio tra rusticità e raffinatezza che Orelli sempre ricercava.

Uno dei testi più emozionanti di Un eterno imperfetto è la seconda delle poesie incentrate sui modi verbali che aiutano a dire il desiderio (Ottativo, 2): «Quando andrò sottoterra / e potrò come Francesco a due anni dire / mamma guarda la luna si spegne…». È una delle poesie nelle quali Giovanni Orelli sembrerebbe aver messo la sordina alla sua straripante cultura per limitarsi a citare solo il pensiero di un bambino di due anni. In realtà anche qui, come ha dimostrato un fine lettore, Luca Serianni, Orelli cita o allude a versi del Pascoli latino, sia pure in modo quasi subliminale.

Negli ultimi anni della sua vita, Giovanni Orelli ha provveduto a riunire in volume parte della sua produzione poetica edita e inedita. Frantumi è il titolo eloquente che ha dato ad alcune rime sparse da lui raccolte in un libretto uscito nel 2014 per festeggiare i suoi ottantacinque anni. Anche qui troviamo alcune poesie che meritano senz’altro di entrare in questa mini-antologia commemorativa. Ed è interessante vedere come Orelli torni sui temi più suoi, variandoli. In A Farewell (un altro sonetto) ci si imbatte così nella reincarnazione, sotto altre spoglie, della indimenticabile tusa biunda di cui si parlava in Sant’Antoni dai padü. Se là l’io lirico si augurava di ritrovare la giovane emigrante friulana di Winterthur, da lui incontrata in un vagone di seconda classe e mai più rivista, qui si assiste a una replica della medesima situazione esistenziale: il fuggevole incontro in treno con una donna giovane o attraente e il successivo addio, già iscritto nell’ordine delle cose, all’arrivo dell’uno o dell’altra alla propria destinazione. Ancora una volta, dietro la situazione feriale, il lettore farà bene a sospettare una allusione colta: alla passante che affascina Baudelaire in una rumorosa via di Parigi (O toi que j’eusse aimée), o forse, ancora meglio, alla giovinetta triestina che incanta il vecchione sveviano in una delle “continuazioni” della Coscienza di Zeno. Perché il protagonista di A Farewell è vecchio, anche se, non diversamente da quando era giovane, di fronte al fascino femminile resta ammutolito. Questa volta, tuttavia, l’eterno innamorato della vita riesce a balbettare una frase di congedo, in inglese, poiché lei è straniera (I’ll never never see you again), e in extremis le manda un bacio con le dita, che la bella ricambia con un lampo di divertimento negli occhi.

A Farewell tocca corde profonde, celebrando la struggente irripetibilità di ogni istante dell’esistenza, e suona quasi come un saluto d’addio alla giovinezza, alla bellezza, forse anche alla poesia. In realtà, l’io lirico orelliano, che prende la parola in questo libretto e negli altri due che seguiranno sull’orlo della vita, se è ben conscio dei guai che porta con sé la turpis senectus, continua goethianamente a vivere e a scrivere, e a godere di quella franchigia o licenza che è concessa soprattutto ai vecchi: mescolando i temi e i generi, e variando le forme, dal sonetto, ai distici di martelliani a rima baciata, alla metrica libera. Tra gli altri testi più felici dell’ultima produzione poetica di Giovanni Orelli si indicheranno allora Incespicando, con il sapiente uso del gerundio a unire incipit ed explicit, e Vocali, con il nipotino che riscuote il nonno da un passeggero torpore e lo richiama energicamente al lieto guazzabuglio della vita.

 

 

 

 

 

[1] Si veda ora Giovanni Orelli, L’opera poetica (con inediti), Introduzione di P. Gibellini, con una nota critica di M. Natale, Novara, Interlinea, 2019.