PETER ROBINSON, L’ATTACCAPANI E ALTRE POESIE

da | Giu 16, 2020

Versioni italiane di una scelta di poesie di Peter Robinson con Ornella Trevisan.

ARIA DI PARMA

Over shuttered frontages and nearly empty streets, the moon
Rises into Parma’s sky.
Night of earliest October—unusually warm,
Evidently tremulous with fugitive temptations—
Lets friends talk and stray under cavernous church baroque
Left unrestored, almost in ruins—
At the tangled very end of confused, confusing youth.

Trolley-bus cables divide that deep blue, all but black—
Redouble the street-lamps’ glare.
Even though the torrent’s dry and should be,
Virtually every truth to tell, or compliment pay,
Insinuates more torment in the name of clarity.
Surely still it won’t unravel, though the waning moon
And dark have been surpassed by morning’s obvious daylight—
Now—on another couple’s wedding day.

 

ARIA DI PARMA

Oltre facciate con imposte e borghi quasi spopolati, la luna
Risale nel cielo di Parma.
Notte di primissimo ottobre—più calda del comune,
Evidentemente tremula di tentazioni sfuggenti—
Lascia amici a parlare e vagare sotto un barocco cavernoso di chiesa
Lasciato senza restauro, quasi in rovina—
All’aggrovigliata fine di una turbata, turbante giovinezza.

Tutto quasi nero, cavi di filobus dividono quel blu profondo—
Raddoppiando il riverbero dei lampioni.
E anche se il torrente ha da esser secco e secco è,
Verità da dire o complimento da fare, quasi tutto
Insinua più tormento in nome della chiarezza.
Sicuramente tuttavia non si scioglierà, benché la luna calante
Alla mattina e il buio diventino la luce ovvia del giorno—
Nozze di un’altra coppia, oggi pronta.

 

UNFAITHFUL TRANSLATIONS

“and waters contemplate us and windows,
think of us in the future: headlong into then,
ever fainter postscripts
vague multiples of us as we’ll have been.”
Vittorio Sereni

 

In the lake of the Parco Ducale at Parma
dark carp swam beneath the surface
of their spacious liquid; someone
almost too close to me called them
to my trembling, airy attention
and I tried to touch those depths still without harm.

At Segrate, artificial waters between windows
contemplating us would reproduce
intersecting figures in each ripple and glass pane;
I also saw the fat-fed fish
pursuing their own ends, those
ringlets of disturbance which were first signs of rain.

But not enough time, there is never the time
to learn how to say what we mean:
“Buon lavoro!” won’t translate into “Good work!”
or “friendly”, “amichevolmente”;
yet well-meant misunderstandings
finally reached me—each faint, part-remembered droplet
of the second and last time we met.

Late perhaps, perhaps distorted, but your words
came offering in trust
—substance, I’m to realise,
a counterbalance to perpetually lost
body, voice, touch, absorbed eyes
as though inviting me towards
myself, a life, the knowledge you have left us.

 

TRADUZIONI INFEDELI

“e acque ci contemplano e vetrate,
ci pensano al futuro: capofitti nel poi,
postille sempre più fioche
multipli vaghi di noi quali saremo stati.”
Vittorio Sereni

 

Nel lago del Parco Ducale a Parma
scure carpe nuotavano sotto lo specchio
del liquido spazioso; qualcuno
a me quasi troppo vicino le richiamò
alla mia tremante, distratta attenzione
e tentai di toccare quelle profondità ancora senza ferita.

A Segrate, acque artificiali tra finestre
contemplandoci riproducevano
sagome a intreccio in ogni crestina e vetrata;
vidi pure i pesci gonfi di grasso
inseguire i loro scopi, quei
riccioli di scompiglio, i primi segni della pioggia.

Ma il tempo non basta mai, il tempo
per imparare a dire quel che intendiamo:
“Buon lavoro!” non significa “Good work!”
neppure “friendly”, “amichevolmente”;
tuttavia equivoci in buona fede alla fine
mi raggiunsero—ogni minima goccia appena rammentata
della seconda e ultima volta che ci incontrammo.

Tardi forse, forse distorte, ma le tue parole
sono venute a offrire in fiducia
—sostanza, devo realizzare,
un contrappeso per gli occhi assorti,
il corpo, la voce, il tocco per sempre persi
come se mi invitassero verso
me stesso, una vita, la consapevolezza che ci hai lasciato.

 

AFTERLIVES

What returns beside Foss Island

in the small hours? Sobering shame
or blushes at faults in earlier work,
hummed love songs. Tell me, what became

of so-and-so who survived each knock
and pulled back with a purpose?
Who humiliated? Who had luck

among mentors reduced to shadows
of themselves, or shadows themselves?
A shuddering privet. Who would suppose

just this remained? The broken resolves
to mend by town walls I passed under.
What is there now the pavement shelves

for someone grown older, fonder?

 

VITE DOPO

Cosa torna lungo Foss Island

nelle ore piccole? Vergogna rinsavente
o rossori per difetti nel lavoro di prima,
canzoni d’amore canterellate. Dimmi,

che ne fu di quel tizio che superò
ogni colpo e si riprese con uno scopo?
Chi ha o è umiliato? Chi ebbe fortuna

tra mentori ridotti ad ombre
di se stessi, o essi stessi ombre?
Una siepe tremante. Chi penserebbe

che solo questo sia rimasto? Promesse infrante
di risanarmi presso le mura sotto cui passai.
Cosa c’è ora che il marciapiede digrada

per qualcuno invecchiato, addolcito?

 

COAT HANGER

Pegging out shirts on my first-floor balcony,
I happen to notice a white, wire coat hanger
dangling from one low branch of the tree
right by our neighbour’s garden.
What’s it doing there?

*

Perhaps it’s a homage to Jasper Johns
for six months here in the Korean War,
or in memory of the feelings of his friend
who remembered a “loneliness” from seven years before
“drifting into my ears off Sendai in the snow…”
(but where he saw that whiteness during August ’45
I don’t for the life of me know).

*

Well, yes, I suppose it could be mine,
blown about by a wind
that unhooks the things you can hang on a line
or bough: an abandoned black plastic umbrella,
the strips of white paper containing bad fortunes,
tied in neat bows, transferred to the tree
—which seems to have absorbed them;
spirited away the luck; at any rate, survived.

*

Though camouflaged, now
that one more layer of overlapping greens
has painted out winter, some distant love’s
skin can still be glimpsed through freckled tones
of bark, sap, chlorophyll; like a phantom limb,
tanned patches come, pale down, a hand—
and so much else that could depend
on a coat hanger among the leaves.

 

L’ATTACCAPANNI

Stendendo camicie sulla terrazza del primo piano,
noto per caso un attaccapanni in ferro bianco,
che penzola da un ramo basso dell’albero
proprio accanto al giardino del vicino.
Ma che cosa ci fa lí?

*

Forse è un omaggio a Jasper Johns
qui per sei mesi nella guerra di Corea,
o in memoria dei sentimenti del suo amico
che ricordava una “solitudine” da sette anni prima
“alla deriva dentro le mie orecchie fuori Sendai nella neve…”
(ma dove ha visto quel bianco nell’agosto ’45
ti giuro non lo so).

*

Ebbene, sí, potrebbe essere anche mio,
soffiato qua e là da un vento
che sgancia le cose che tu appendi a un filo
o un ramo: un ombrello di plastica nero, abbandonato,
i nastri di carta bianca contenenti malauguri,
annodati in fiocchi netti, trasferiti all’albero
—che sembra averli tutti assorbiti;
la sorte fatto sparire; anche, essere sopravvissuto.

*

Pur se camuffati, adesso
che un altro strato di verdi sovvrapposti
ha dipinto via l’inverno, di qualche amore lontano
la pelle si può intravedere fra toni lentigginosi
di corteccia, linfa, clorofilla; come un arto fantasma,
vengono chiazze abbronzate, pallida peluria, una mano—
e tanto piú ancora che magari dipende
da un attaccapanni fra le foglie.

 

PASTA-MAKING

How like the forearm of that laundress
pressing her iron in a picture by Degas
comes your arm as you help dough through
a pasta machine, how like you
to be making things happen as if chance
mixtures of ingredients this once
were a recipe for happiness
kneaded, rolled with a pin and, yes,
how like you, how like the flame-flowered apron
set off by white blouse folds to be just one
of the details held for their own sake—
like that spray of arranged daisy petals or like
the plain wood board with dusting of flour,
or your torso leant forward lending more power
to bare elbows, more force to your forearms—
and these not random items
composing the moment’s promise—
yes, how like you this
open window’s lifting pines
with the stuck groove of a stray cat’s whines
how like a child’s half-consoled crying,
its echo taken up in blue fathomless sky …

 

FAR LA PASTA

Proprio come l’avambraccio di quella lavandaia
che passa il ferro in un quadro di Degas
ecco il tuo braccio mentre aiuti l’impasto
attraverso la macchina, proprio come tu
fai succedere le cose quasi che misture
d’ingredienti casuali una volta tanto
fossero una ricetta per la felicità
impastata, spianata col mattarello e, sí,
proprio tu, come il grembiule infiammato di fiori
in risalto su una camicia bianca è solo
uno dei dettagli mantenuti per se stessi—
come quello spruzzo dei petali da margherite ben disposti
o come il legno vivo del tagliere impolverato di farina,
o il tuo busto inclinato in avanti a dar piú forza
ai gomiti nudi, piú potere agli avambracci—
e queste cose non casuali
componendo la promessa del momento—
sí, proprio come te questa
finestra aperta su pini mossi dal vento,
con il disco incantato dei mugolii di un gatto randagio
come il pianto di una bambina non proprio consolata,
la sua eco rapita in un cielo senza fondo blu …

 

CLOSURE

In another town you turn a corner,
but it’s not there anymore—
the place with hunting pieces, flagons,
a close-hung mishmash of daubs and prints.

Here clean breasts were made, minds spoken—
our waiter boning fish, all
genial, patient, hardly bothered
if once again we prove the last to leave.

*

But dust has gathered
on lintel and sill;
restoration work this morning’s
at a standstill …

I squint through smeared windows,
see greyness, a grey
of no menus, mementos,
no things.

*

And I see how the vacant ex-restaurant,
through its cloud of chalk,
is like nothing so much as a seashell
in which you catch talk
that talked and went so far with distant
wave forms broken on the shore
of others’ minds like swell, swell
echoing from the years before.

 

CHIUSURA

In un’altra città tu giri l’angolo,
però non si trova piú lí—
il posto con fucili da caccia, fiaschi,
un guazzabuglio di quadracci e stampe.

Qui ci si confessava, ci si liberava—
mentre il cameriere spinava il pesce, tutto
cordiale, paziente, neanche seccato
se ancora una volta fossimo gli ultimi ad uscire.

*

Ma la polvere s’è accumulata
su listelli e davanzali;
il lavoro di restauro stamattina
è a un punto morto …

Fisso attraverso finestre imbrattate,
vedo un grigiore, un grigio
senza menu, ricordini,
proprio niente.

*

E vedo come l’ex-ristorante sgombro,
attraverso la sua nube di gesso,
non è che una conchiglia di mare
in cui si colgono discorsi
fatti e andati così lontano con forme
di remote onde infrante sulla riva
delle menti altrui come flutti, flutti
rieccheggianti dagli anni prima.

 

 

L’italiano è per la poesia di Peter Robinson, e per alcuni suoi testi in particolare, come quelli qui proposti, il punto d’arrivo ideale. La forma in cui possono essere letti ora, in italiano e in inglese, rappresenta la realizzazione di un percorso portato avanti negli anni, nel desiderio di permettere a una poesia fortemente ispirata dall’Italia e dalla sua letteratura di giungere anche a esistere in questa lingua. Queste sei poesie e le loro autotraduzioni offrono al lettore una finestra su vent’anni della produzione del poeta (sono uscite in raccolta tra il 1988 e il 2008) e al contempo una sintesi della sua (sinora) unica raccolta italiana, L’attaccapanni e altre poesie, edita da Moretti&Vitali nel 2004.

Per il suo debutto italiano, Robinson decide di comporre un volume inedito, dall’impostazione autobiografica, un’antologia che narri al nuovo pubblico la sua relazione con l’Italia. Una storia iniziata cupamente: è l’estate del ’75 quando il poeta, in vacanza in Italia da studente appassionato di Ezra Pound, si trova ad assistere, con un pistola puntata contro, allo stupro della sua ragazza. Da qui, il primo nucleo della raccolta italiana, sette rape poems, scritti solo a distanza di anni, quando si fa chiaro che il peso taciuto del trauma necessita verbalizzazione. Con essi, nascono anche quei temi che accompagneranno Robinson traduttore e poeta, alla ricerca di un’arte che possa essere, come per Adrian Stokes, riparazione. Ed è quando Robinson arriva a scrivere dello stupro, alla fine degli anni settanta, che la sua relazione con l’Italia si apre a nuovi, più positivi, sviluppi. Il primo passo è la scoperta di Vittorio Sereni, che definirà la sua poesia e la sua carriera da traduttore, il secondo l’incontro con Ornella Trevisan, sua futura moglie e co-traduttrice di queste poesie. La città di Parma è il perno del cambiamento: Robinson vi si reca nei primi anni ottanta con il collega e amico Marcus Perryman, con cui collabora alle traduzioni di Sereni sotto la supervisione della figlia del poeta. Là, galeotto Sereni, può rincontrare Ornella, parmigiana conosciuta a Cambridge.

Aria di Parma’, scritta nell’ottobre dell’85, è ispirata dalle nozze di una coppia di amici e cela, grazie all’acrostico, la dedica a Ornella. La reticenza che caratterizza la poesia è spiegata dal fatto che Robinson, all’epoca, scriveva ancora da uomo sposato (a un’altra). Anche in ‘Traduzioni infedeli’, in cui le acque di Parma si confondono con quelle degli uffici Mondadori a Segrate, Ornella è presente, assieme a Sereni. Il tradimento coniugale si accompagna a quello linguistico: Robinson rimpiange di aver avuto così poco tempo con Sereni, e ne ricorda con affetto gli errori di inglese italianizzato (‘good work!’ e ‘friendly’). Le parole ‘venute a offrire in fiducia’ sono quelle di entrambi, che lo richiamano alla vita, aprendo a nuove vie in amore come in poesia.

Robinson si sposta poi per lavoro in Giappone, e in questo periodo il suo primo matrimonio giunge alla fine, e si stabilisce con Ornella, ritratta come creatrice di sorti in ‘Far la pasta’. Dalla metà degli anni novanta inizia a passare le estati in Italia con lei e poi le figlie, ed è in questo periodo che le traduzioni italiane prendono forma. Tiene reading bilingui, per cui autotraduce alcuni testi, che si aggiungono a bozze per cui era stato aiutato da Ela Tandello e Perryman. Si sviluppa l’idea di una raccolta in italiano (il titolo previsto era Nutrire i morti), ma manca un editore. Sempre a Parma, Robinson conosce Paolo Lagazzi, che si interessa al progetto e offre di pubblicarlo per la serie di poesia di Moretti&Vitali. L’accordo è del 2002, Marco Fazzini aiuta con le traduzioni, e il libro esce nella primavera del 2004. Al lancio, tenutosi al British Institute di Milano, è presente Luciano Erba, che Robinson stava traducendo.

La raccolta si distingue subito dal titolo, di una concretezza e precisione inusuale per il panorama poetico italiano. Pur non sembrando in alcun modo legato allo scopo della raccolta, L’attaccapanni rimanda invece al testo che affronta in modo più delicato il tema della lontananza da ciò che si ama. Nel componimento, ambientato in Giappone, il poeta, attratto dal gioco di una gruccia appesa a un albero, scorge d’un tratto l’amata tra le foglie, in una metamorfosi di ovidiana memoria. Dafne non fugge ma si rivela, come a confermare la stabilità del suo amore, le cui radici rimangono inalterate nonostante la distanza. Il pensiero dell’amata è così fisico e magnetico da pretendere l’attenzione del poeta, reclamare un corpo, un’incarnazione che vinca l’assenza: così per un attimo le lentiggini della donna sorridono, dannunzianamente, dalla corteccia dell’albero, e un ponte momentaneo viene a crearsi. Ma il breve incontro non basta, e il dolore rimane: l’assenza dell’amata italiana, e dell’Europa, viene percepita come un arto fantasma. L’attaccapanni sussurra al lettore: l’Italia mi è mancata come parte di me.

Lo stile delle autotraduzioni di Robinson è influenzato dai poeti italiani che ha tradotto (tra cui, oltre a Sereni, anche Bertolucci, Erba, Fortini, Montale). In generale, Robinson cerca di tenersi vicino all’inglese, e introduce solo piccole variazioni, dove l’aderenza all’inglese avrebbe comportato una perdita di naturalezza ed efficacia. Una delle particolarità è il frequente ricorso a inversioni sintattiche, da un lato per preservare l’ordine della frase inglese, dall’altro per un gusto di innalzamento lirico derivante dal lungo lavoro sull’italiano poetico.

Robinson, anti-lowelliano, nella traduzione ci crede pienamente, tanto da pubblicare – rarità nel panorama poetico in lingua inglese – un quaderno di traduzioni, The Great Friend and Other Translated Poems. Pur riconoscendo la perdita che viene inflitta, rivendica con l’autotraduzione la possibilità di auto-riparazione. Se è la propria poesia che si scompone e va ricomposta, si crea allora un parallelo con gli errori della vita, in cui Robinson si è sentito parte del danno, e della cura. L’alterità è quella del sé, del proprio passato – così presente in ‘Vite dopo’ e ‘Chiusura’ – da rispettare accettando che non lo riavremo mai più. L’autotraduzione richiede il coraggio di sapersi diversi, e non per questo infedeli. (A. S.)

 

Peter Robinson è nato a Salford nel nord-ovest d’Inghilterra nel 1953. Ha studiato alle università di York e Cambridge. Durante gli anni settanta e ottanta si è occupato della redazione di due riviste, Perfect Bound e Numbers, e di vari festival di poesia. A partire dal 1975 ha cominciato a visitare l’Italia dove ha soggiornato ripetutamente. Dal 1989 al 2007 è stato professore di letteratura inglese in Giappone. Attualmente è professore di letteratura inglese e americana all’università di Reading, Inghilterra, e cura la collana di poesia per Two Rivers Press. Ha pubblicato aforismi, poesie in prosa, una scelta di racconti, due romanzi, e vari volumi di critica letteraria, oltre a libri di poesia e traduzioni (da Sereni, Erba, Pozzi ed altri). Ha ricevuto il premio Cheltenham, il premio John Florio, e due raccomandazioni della Poetry Book Society.

 

Anna Saroldi è dottoranda in letteratura inglese presso l’Università di Oxford. Si occupa di letteratura contemporanea e traduzione, e ha lavorato su poeti-traduttori come Jacqueline Risset e Peter Robinson.