Per restare fedeli

da | Ott 10, 2013

Ci sono storie simili dappertutto
perché, dappertutto, ci sono gli abbandoni:
quelli che hanno carta d’eremita, d’idiota
o della falce, quelli che hanno la calma
feroce del respiro cucito sulla bocca.

È proprio l’abbandono a determinare la vertigine nei testi di Stefano Raimondi. Un abbandono non solo fisico, né affettivo. Un abbandono che non coincide nemmeno con la morte stessa. Si tratta piuttosto di un allontanamento dall’umanità, un senso di deriva che non finisce, che ha una durata. È una condizione progressiva e superiore, cui anche la storia sembra sottostare.

“Per restare fedeli” mette il lettore di fronte alla cronaca più dura. Si toccano gli avvenimenti più tragici della nostra storia recente, storia che abbiamo già vissuto e che quindi riusciamo a ricordare. Il ricordo è più viscerale quando c’è esperienza diretta, altrimenti si dimentica presto. In questo caso prende la parola proprio chi subisce una perdita affettiva e paga ancora le conseguenze della storia; nelle pagine si rivivono i fatti di Genova, l’11 settembre, la Seconda guerra del Golfo. Eventi che si materializzano sulla pagina nelle scene minime, briciole di conflitti, abbracci fedeli per proteggersi, la paura di metallo e l’aria come pesante lamiera.

Stefano Raimondi parla questa lingua profonda. Rimpicciolisce le vicende e le riporta su un piano dove è ancora possibile il cum-patire. In questo senso la direzione scelta dall’autore è diametralmente contraria a quella dei mass media, di cui tra l’altro, egli si serve di tanto in tanto in modo estremamente acuto. Molti dei righi posti in esergo sono passi di articoli di giornale, estrapolati e mirabilmente rubati alle pagine di cronaca per una missione ben più impegnativa dell’informazione: l’esercizio della compassione.

Ciò che trovo particolarmente interessante di questo libro è l’originale canale di ricezione che apre in questo preciso momento storico. In una fase in cui sembra indispensabile creare barriere tra sé e le notizie che continuano a sconvolgerci e a danneggiare la nostra energia, Stefano Raimondi riesce a rendere vicini eventi che, per legittima difesa, siamo  in genere pronti ad ignorare. Se vuoi sopravvivere, non guardare. Essere costantemente esposti a tragedie impacchettate in servizi morbosi di dieci minuti ci rende insensibili. Nulla riesce più a toccarci perché abbiamo sviluppato anticorpi contro il nostro stesso ascolto. Raimondi sa bloccare i suoi scritti, dedica il giusto tempo alle sue vicende. Apprezzabilissimo senso della misura.

L’autore, nel corso delle pagine, si conquista la fiducia del lettore che è sempre più disposto ad ascoltarlo; un’attitudine questa propria di un buon narratore e che colpisce in un poeta, di solito meno disposto a scendere a compromesso con il suo mezzo espressivo. Raimondi usa la forma come semplice strumento, lo si capisce anche dalla scelta saggia di abbandonare il verso in alcuni punti, per lasciare spazio ad una voce che sguscia dall’urgenza della comunicazione con l’altro, singolo individuo, non con la massa. C’è un valorosissimo recupero del due.

Due: lo stesso delle braccia
Delle mani, lo stesso due dei semi
del buio e il chiuso delle noci
del silenzio e il guscio delle mandorle.
[…]
Due come sono tutte le cose
che s’incontrano, s’incastrano.
[…]
La nostra conta è finita quando
si resta dispari e spaiati.

Leggendo i versi riportati, appare evidente il ritorno ad una dimensione semplice e complessa allo stesso tempo, sembrano quasi righi antichi, riportano alla mente filosofie presocratiche di cui tanto colpisce la spiritualità. Anche Stefano Raimondi mostra questo innato senso di rispetto verso le cose e verso il corpo stesso, che nella sua materia raccoglie in sé tutta l’esperienza del dolore umano.

In alcuni passi, il riferimento al sesso e all’amore appare carico di un’indole femminile, quella foga già gravida di futuro, quel desiderio che già presagisce impegni. In questo contesto il corpo appare in tutto il suo mistero, pulsa nei righi quell’unico punto di sutura che lo lega all’anima. In altri passi invece, in quelli in cui si descrivono la tragedia e il lutto, Raimondi ci descrive un corpo mai visto nella sua interezza, sempre frammentato, fatto di costole e di costati bianchi infilzati. Tutto ciò è pervaso da una sincera tenerezza e al contempo da un senso di lucidità che rende queste pagine commoventi senza essere dolciastre. Non c’è moralismo. C’è la presa di coscienza di chi ha ingoiato la sua parte di colpa collettiva. Intravedo inoltre un messaggio di partecipazione alla collettività. Bisogna essere colonne per non soccombere al peso della struttura.

Considero questo libro un esempio di impegno etico fatto di concretezza e di buon senso. Vi si trovano individui che, insieme, costituiscono folle e non masse. Immagini belle. Belle perché, saggiandole sul foglio e figurandole nella mente, riusciamo a crederle possibili.

Immagine: Empire State Building e World Trade Center, 11 settembre 2001.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).