Per Biancamaria Frabotta

da | Mag 2, 2022

Si è spenta Biancamaria Frabotta (1946-2022), una delle voci importanti della poesia italiana contemporanea e docente per molti anni all’Università La Sapienza. Per ricordarla pubblichiamo oggi una scelta di poesie da Tutte le poesie 1971-2017, uscito nello “Lo Specchio” Mondadori (2018), con postfazione di Roberto Deidier e nota biobibliografica di Carmelo Princiotta. La poesie ripercorrono l’itinerario dell’opera di Biancamaria Frabotta. Seguiranno altri omaggi.

 

da Il rumore bianco (1982)

Sono questi i casi che le virgolette contano
“l’eterna indecisione dei gemelli”
il simile e il dissimile, Diotima la crespa
una maretta vispa, la luce e il moto le sono propri
l’altro è il quasi lago, il numero due, il coperchio del mondo.
Su altra pioggia cade la pioggia di ieri
ciò che sta sopra a ciò che sta sotto
chi scacciato torna dorme con noi
semina insieme panico e sonno.

*

ELOISA

E pensare che quello che ti chiedo è ben poco,
e per te facilissimo!
(Eloisa a Abelardo, Lettera 2)

I

Qui dimora l’intero e tu disperso
ci ragioni. Che io canti, più buia
sordidamente, ombra più pesante
del marmo che mi riposa non conta.
Una sola rondine non mi ti rende
la stagione perduta.
E io troppo tempo ho abitato in te
come la ragnatela in un tronco morto

al limite di una terra promessa
non cogliendomi (fu soltanto evocazione
addestramento allo stupro
il fantastico frutto dell’occidente)
mi hai nominata più bianca della luce
nido di un’idea intricata, torpida fantasia,
pupilla cieca del tuo occhio.

Si sfilava il sibilo dalla teoria lunga
delle stanze: davanti alla porta chiusa
sarò la sorella di quei meli che fuori
si spogliano lisciando a sangue i sensi
e solo la sera ne spegne il tocco.
Un triangolo è divino quando ogni punta è Dio
e ogni lato un’esca. Non c’è veglia più amara
per me che sono lontano dalla festa.

Le parole non ti costavano molto, ricordi?
scivolano via per filo e per segno
come canoe fluiscono sul filo della corrente.
Non c’era rapida che ne scuotesse il corso
scorresse anche fino al mare il discorso
del tuo sogno soltanto noi ne scontavamo il costo.

Ma subito potessi smemorarmi
annottassero ovunque le pupille degli uomini desti
in un mondo di dormienti
un bestiario delicatamente miniato dallo stilo di chi può
almeno fin quando arriverò
placida onda di lago a lambirti
i piedi di umide e molli zolle di prato
almeno fin là dove arriva l’essere
e il chierico si fa pierrot
la canaglia un’ariosa città
ogni passante un amico, un evento
allora
l’acqua coprirà il prato e ogni traccia di nome.

[…]

***

da La viandanza (1995)

La viandanza

E un’inezia in veste di gala terge
la risacca, un’inerzia, prodiga, mamma
vermiglia di vortici sei falsa calma
come l’onda lunga della riconoscenza.
Riconoscersi o congedo questa improvvida sosta
di sole che affoga? Latita
il senso lontano dalla terra ferma
e tu dormi sul filo di lana
come lo stranito starsene dei non umani
oltre le curve dove ci pedina il tempo
e sull’orlo del campo anonimi frulli di freddo
e panico che abbagli i divieti, i binari.
Così recalcitra la fame degli erbivori.
È lo spavento dei passeri poveri quello
lo sgomento delle nubi al macero. Fra poco
ci staranno addosso in tanti i polipi
della città fantasma
con tentacoli e raggiri e tu, ora lesta
a provocarli, col guizzo circasso
dell’occhio, a patirli, sordida
giovale, giovane Civitavecchia
sgarbata bilancia fra apocalisse e paese
smaniosa pazienza è la felicità che
incendia in lei troppe parole o nessuna.
Preda di insana genia, Eugenia
nata De Falchi, o insensatezza
di un nome rapace o insensatezza
di un nome ben nato
e se il volo non fosse un voto paterno
ma una nomade svendita di senno
e un’azzurra (che vegeto caos in questa
stazione) provvida grazia di rimozione?
O fu soltanto pigrizia la coincidenza mancata?
Il paranoico estro di disastri all’attesa
comparti e defence
custodi e silence
it’s forbidden, non leggi?
de stationner sur la passerelle
e à l’occurance
togliere il piombo
ruotare il vetro
premere il pulsante, ma bada
sarà severamente punito
l’abuso dei tuoi sontuosi capricci
futuri nutriti sui lidi di Caravani
di parche cartate di cozze
primizia del nuoto di secca
di granchi traversi la svogliata trafila
spiando tra le valve ora salse
di salmonella ricordi la misericordia dell’orto?
l’intemperanza della madreroccia
e nel grembo femmina il riccio
morte certa del mare (è la legge!)
brulicante di uova arancia, e limoni?
la misticanza invisa all’orgia pagana
di vergini lische, scorfani
e sparnocchie ancora in vita risenti
come torpida marciava alle narici l’alga
e la brama dell’altro, con inversa
ala d’ascesa, murata baldoria d’un istante
un istante
fu l’ardore di chi ti corresse
– Non si dice salisco, ma salgo
e tu che non soffri cavezza, coraggio fuggendo
oltre il Villaggio del Fanciullo
la Repubblica dei Ragazzi
e Marangone
fogna a cielo aperto
levata al cenno delle cento
macerie d’acqua in cui nacque
l’ultima cella foriera d’anfore e rancori
dove fanno il nido le murene
e luccicano le Orecchie di Venere
e intendono chi non dicendo
abbastanza ha già detto troppo
e con esorbitante assedio di giubilo smura
le labbra avare di racconti
e se nell’afa sfuma
la ciminiera più alta d’Europa
neppure tu le cerchi più le lapidi lambite
dal liquame della Fiumaretta
necropoli di vivi incrementi
al fabbisogno di Roma
e non avrebbe meritato l’indulto
la pena commutata nella guazza serena
di una tomba non inquinata
chi placò gli insulti della mia tosse convulsa
e divampa in cenere l’ombra
di una carrozzella in corsa
verso la rada di Sant’Agostino
dove montava la luna della buona pesca
ai polipi e spirava lo jodio sull’indomito
falò amico ai naviganti
che un vezzoso odio eclissò e ora lo smog
amico ai benestanti? E ora
nostra cocente storia convulsa
nostra avulsa radice le tombe
fra gli escrementi navigano
con la stessa indocile fretta
che sulla fusta leggera
ti induce al fasto saraceno
di crescerti la vita di un anno.
E che spasimo per un diffidente volatile
una sorte pellegrina nel padule! e che vandala
quando tu i sandali di pena scalzando
e di corda intrecciata nella mano sudata
stringevi la merendina di Santa Costanza
scorbutica novizia della Piazza Calamatta
fluivano scalze le pozzolane sulla Scaletta
con le prime notizie della paranza e senza
che sorpresa smarrirsi nei meandri
della Piazza Leandra dove
i morti restituiti
all’ebete gioco del tempo ma non tu
rapita al Pirgo di corsa e che affanno
sul tuo sandalino che fila
verso il Borgo Odescalchi
dove rabida nobiltà di veli, paglie e corde
si spegne nel vuoto delle cabine
Santa Fermìna al martirio
palma alla dritta, galera a sinistra
ti insidia ora un tenente
un serpente in piedi, la corona in testa
e nel petto smilzo timida alla sbarra
quella notte fosti tu la più bella
tra le svelte acque della Ficoncella
e le tronfie in lungo a libare
succo di viti tedesche, o vita
vita tua sottile
che il gerarca corrotto cinse di raro
vanto di provinciale grazia e ritroso
non per coscienza ma per innocenza di classe
millenovecentodiciassette
riarse un rigoglio cremisi sul fianco
il fiocco, le maniche a sbuffo
e perfetto ruotava sopra il ginocchio
il taffetà tagliato a teletti
a scorno delle ricche Guglielmi
Giovannelli
d’Ardìa Caracciolo
o Rodano Cinciari
oh come vagano semplici in mente
i nomi dei tuoi primi tormenti
oh come risalta nella prossima notte
la torcia del tuo eretico orgoglio!
Poi l’Ottimo Consiglio
del millenovecentoquaranta
non portò i suoi figli in salvo
sui monti della Tolfa, ma
canicola, canizie, canile
e stillicidio di polveri
croste, ghetti e l’inverno
che inferno affacciarsi
sulla mole del Lazzaretto Vecchio!
Là i vincitori (giurarono i vinti)
giocando a palla, venivano a galla
i teschi dei frati tra le bombe
miste alla pioggia e di salso prodigio
tutte le notti smontava la luna
della Buona Morte ai polipi e agli omeri mozzi.
Oh cimitero disperso fra le vasche
di sterile letame, annegato
nell’olio, nell’oblìo che
una petroliera dispensa dal largo
troppo fondo al porto lo scafo
troppo tagliente la chiglia
e che lago melmoso questo scavo
senza bisogni, questa vetrosa fronte
del treno che ci trascina
oltre le argille della Ripa Alba
e tutto è da imparare ormai
a danno, mamma, e se ne vanno
nella cavità dell’aria che grave
ora rimuove
i fumi di un’infanzia ormai appena visibile
come nei polmoni l’ombra di una trascurata influenza.

*

Gemina iuvant

Soltanto a sfiorarla – dicono
i miei due rivali emisferi
digrada a più lievi some
la femmina del mio cervello diviso
la sinistra ancella della nostra passione
che cola viscosi umori di nera bile
impuri fluidi di non storia
ma sa la visione e lo spirito del tempo
e se muore è d’etilismo
e sempre fuori tempo.
La sua parte è fissa.
È la parte per il tutto.
A destra invece legge
scrive e fa di conto colui che
prende di punta ogni ideuzza e la rintuzza
nella brocca rotta che risuona a vuoto
per maniera che non ne torni l’eco
tranne i costi i ricavi e
l’insana ragione mancina
ridurre alle sue minute ragioni.
Ogni punto è la testa pensante di una linea.
Ogni linea termina in un punto.
Così fingendosi amanti
i miei due rivali emisferi
entrambi mi tormentano
e non c’è ricciolo, né maliziosa frangia
a tenerne unito il gruzzolo
a ricomporre l’antica noce
della loro inimicizia.

*

Discosto dal ramo quel tanto che basta
l’ala raccolta a non dar mostra di te
mi insegni la rotta breve del Colombo
erbivoro che ama il paniere poco profondo
di vimini, la canna, il salice, il cardo.
Non il rostro delle navi che violano il porto
ma il lento sciabordio dei remi calmi come nevi.
Anche la lampada ardente dell’Inferno in cui credi
a causa tua si mitiga, il mostro si addomestica
rientra nell’uovo, rinasce pulcino
e si smorza perfino la cruda scorza
di chi a tutti i costi ti volle eterno e di te
più eguale a un altro non c’era e molteplice.
Ora di sé si scontenta e guaisce la pavida Nomade.
Piuttosto che signora vorrebbe esserti sorella.

*

per Antonio Porta

Fu nel covo del giorno
che il fuoco ti snidò
dalla tana stipata di versi
verbi, più che altro, a vedersi
a toccarsi, questi nostri anni
gettati a ingrassare le murene.
Ma i ricorsi non ripagano i ritardi.
Né i ritorni arsi dall’inerzia
che si fa febbre fredda ai polsi.
È pur sempre la ragione del morire
vivere. Sommessamente o rogo
la menzogna abbaglia la consegna.

***

da Controcanto al chiuso (1991)

[…]

Coro
Abbiate il cuore freddo madri mie.
Respingete i cattivi discorsi verso il mare.
Che un freddo penetrante entri nel villaggio.
E quando lo straniero verrà badate che sia
il portatore della buona pioggia
ricordo dell’uomo che scalpita alle porte
insetto del futuro che feconda le carte.

[…]

Seconda voce
Chi è chiuso merita violenza
e io non riesco a dimenticare la tua lingua
così inutile, assente, dolce come il miele
valere fino in fondo il mio tormento
spegnere fra le labbra e il palato, l’ugola
e le molli pareti della casa, l’unica
lieviti, viti, storia e cibi cotti
forzarti, farti violenza, aprirti
forzarmi, farmi violenza, aprirmi
segna nel caldo fiume dell’Avvento
il calendario l’Angelo
prima della donna. Inarginabile.

[…]

***

da Terra contigua (1999)

A Dario Bellezza

Arrogante garrivi alle stelle la tua dolce nenia
il fiore ancora in nuce nello scapo
e la felicità, l’ottusità d’una caccia svogliata
mai così rasente alle promesse dell’età sfacciata
ti annoiava e ti seguiva come una cagna fedele
nel subbuglio dei tuoi astratti furori.
E ti eludeva anche da quel suo astuto
gioco a tutti commestibile, ma non a te
che la morte segreta stornavi ad ogni giro
e t’era consorte l’incanto, l’incubo dei bari.
Tu non volevi altro se non l’impossibile
la tratta di favore, il pagamento del riscatto
minacciando altrimenti colpi di testa
colpi di teatro memorabili che l’indomani
bruciavi al nuovo giorno sotto dettatura.
Non tolleravi la dittatura del giorno.
E libertà t’erano gli scuri chiodati
il fresco osceno invito della notte.

*

A Toti Scialoja per i suoi ottanta anni

Non fidatevi della carta vincente
che non si nasconde nel folto del mazzo
né l’occulta la manica di un baro
né è moneta rovente che scivola
ignorata in un fiume senz’anima.
O che lenta s’incaglia sul fondo.
Stanotte non c’è anima viva sul fiume.
Né giunche, né barcaioli.
Ma gromme di dolore indocili alla gomma
lune d’oro, buchi neri
e l’ostinata balbuzie
delle cose che abbagliano un poeta.

*

TRADUZIONI

Ibn Hamdîs

Fin quando durerà il mio esilio
amici per malasorte non diversi
dai nemici che mi assetarono
dell’acqua che arrossa le labbra
e a goderne cancella ogni altra acqua
e le mie speranze delusero?
Ci sono droghe che più del male ammalano
e io sono troppo debole
e palesi le mie false ragioni.
Non è virtù della vergine placare un cuore ribelle?
Ecco, eccoti il mio occhio, tu che l’hai visto
dall’alba alla notte velato di lacrime
nella malia del tuo sguardo perduto
né fra le ombre ha più ombra il mio corpo
né pioggia che ne smorzi l’arsura.
Eppure ogni sterilità ha i suoi benefici umori…
Non vedi? Ardo di fedeltà
come il calor bianco del carbone.
E tu traditrice, vuoi spegnere la mia luce
e ti escludi dal saggio raggio del proverbio:
teme l’assenza, essenza del deserto
solo chi vi si è già smarrito.
Come sperare piacere dalla tua ripulsa?
Dalle tue vane lusinghe e promesse senza frutto?
Può forse nascere pace dalla guerra?
E un miraggio estinguere la sete nel deserto?
Volubile fanciulla che denigri
l’onda inquieta della mia pazienza
tu sola, ago della mia bilancia
fattucchiera crudele che estirpi il male
tormentando l’ammalato, cessa le tue cure
poiché il farmaco cui anelo
è la saliva delle labbra scure
e chi dal male troppo è consumato
a colei che gli rende la visita pietosa
risponde con il cenno di preghiera
dell’uomo che il mare se lo sta inghiottendo
e chi supplicando una bellezza meno avara
col male il male cerca di annientare.
Tra le stelle nessuna brilla più del sole mattutino
e tra le sue compagne nessuna è più nobile di Asma’.

***

da La pianta del pane (2003)

L’ultimo verso

Dentro gli occhi chiusi
quando vi cadde il sole
si accese un puntolino nero.
E non per vizio voleva
tenerselo l’informe
e dentro trattenerlo
nel cieco addome
divenuto sua patria.
Per non lasciarlo morire davvero
e insepolto, quell’ultimo verso
lo adottò, quell’inutile eroe.
Aurea muffa dell’estinto mattino
aerea tigna, polverosa carcassa
nocciolina che sgusci tra le dita
e, se si è presi, fedele capsula.

*

Atta

Il n’y a pas de paradis…
Ha una parola sola il bardo del ’43.
Sbiaditi kamikaze in bianco e nero
strisciavano il cielo
d’un fioco bagliore
e subito si spegnevano
come zolfanelli difettosi.
Quasi fosse uno stuolo
entra senza ferite nella tomba
il provetto architetto di Allah.
Un milione di volte e nel medesimo giorno
una gomma di fuoco ha cancellato Babele.
Ma io ho ancora troppe parole.
E questo è ancora il mio tempo.

*

da Da mani mortali (2012)

Gli eterni lavori

Dalla valletta degli ulivi una neve marina
veste di bianco le bacche della piracanta.
Potessi poggiando la testa sul cuscino
udire il mormorìo dell’anima che dorme
quando sibila la sofferenza delle piante.
Potessi, ospite impensierita, dal pietrisco salvare la salvia
che perde al vento, talvolta, una fogliolina accartocciata
accorrere dove il ramerino implora una sponda
l’ibiscus un tepore che non è qui e un’arancia
s’affaccia fra il plumbago e le spine di Cristo.
Solo al tatto la riconosco quella pace truccata
che al mattino scuote la coperta dei sogni.

*

Le fasi della luna

Trapela, nella camera oscura
come l’intelligenza nel cuore.
Illecita, ingannevolmente stanziale.
Chinata sulla sua metà in ombra
sul fianco di una panca
la faccia girata a non guardarsi
in un confuso abbracciarsi di gambe
come fosse questa l’ultima notte
per dormire insieme
non il mio sonno senza sollievo
ma il nostro che non ha rimorso.

*

I nuovi climi

Nell’estate del duemila e tre
tutto si prosciugò silenziosamente.
Un meraviglioso azzurro puntato
su di noi come un’arma radiosa
premeva i piedi sul suolo, spruzzava
di calce le pareti, entrava, senza
nemmeno una goccia di pioggia
anche di notte
dentro i nostri occhi spalancati.
Dal tronco del melo colava pece nera
e a febbraio bisognò abbatterlo intero.
Il fico si salvò scrollandosi di dosso
la veste lieve delle foglie assetate
e a luglio cogliemmo fichi secchi
da terra, come fosse Natale.
La siccità portò via anche due peschi
che si erano avviticchiati l’uno all’altro
all’insaputa di tutti, in un solo albero da fuoco.

*

Per Emily Dickinson

E se covi nel tuo bozzolo un
Mercato di parole-ciottoli
I pay in satin cash – paghi
Lingua e Vita, ma solo in contante
Yes – ti diremo – noi mendicanti.

***

da La materia prima (2012-2017)

Una volta ci fu il tempo passato.
Ovunque vagante negli eterni
ultramondi il pensiero, lo stolto
come il giusto, irrigidito
nel tormentoso intrico del viso.
Ogni cosa vissuta era tenebra.
Ogni gesto compiuto vapore.

*

Una volta ci fu il tempo futuro.
Invocato a durare latente nel seno
di attesi compimenti e di altri mortali
complimenti, più o meno incompleto
di verità relative, di errori stanziali.
Non importava che ogni cosa amata
fosse così arbitrariamente sperata.

 

Immagine: Biancamaria Frabotta in un ritratto fotografico di Dino Ignani.