Inizio di novembre nell’anima,
pioggia forte e oro scuro
dagli alberi, luce obliqua
del pomeriggio inoltrato e greve peso sul cuore.
Come sempre svigorito e spento.
Sessantaduenne, voce incolta, incline alla notte,
sono in piedi e tranquillo sul vialetto vuoto.
Sblocca il mio habitat, luce stellare, fammi insolubile;
negativa del mio post-panorama
muovi furtiva l’ombra sulla mia bocca.
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Casuale geometria delle stelle,
casuali stringhe di parole
belle come l’alfabeto.
O così le ricordo,
Orsa nordamericana,
Orione, Cassiopea e le Pleiadi,
che cuciono la loro sintassi sul cielo profondo del North Carolina
mezzo secolo fa,
la lingua perduta di notti estive, la pergamena muta
del tempo,
trafitta sul suo scuro cilindro celestiale.
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Cosa c’è per noi d’imperturbabile nelle stelle?
Quale impulso, quale bassa marea
ci attrae lassù come vertigine, quale
inversione di quota ci spinge verso i loro abissi chiari?
Stanotte, per esempio,
qualcosa ruota dietro i miei occhi,
qualcosa d’illacrimato, qualcosa d’innominabile,
filando veloce la tela.
Chi dirà che il cuore dirottato non è tornato alla sua gabbia?
Chi dirà che il respiro d’un angelo non m’ha
sfiorato l’orecchio?
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Cammino nel freddo della notte d’autunno pieno
come Orfeo,
pensando il mio canto, ansioso di voltarmi,
la mia vita svanita un ornamento, una nuvola alla deriva, dietro di me,
leggera trascendenza di cenere
sepolta e risorta una volta, e poi ancora e ancora.
Il marciapiede si srotola come sonno profondo.
Sopra di me le stelle, stelle austere,
scoprono il volto.
Nessun cuore batte alle mie spalle, nessun passo.
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La stagione ci viene incontro, foglie morte e erbe appassite
incerate dal vento ovunque guardi,
il cielo chiaro della notte
acceso di stelle e da stelle trafitto, quella costellazione, quelle sette stelle lassù,
il Generale Ke-Shu che solleva la spada, dicono i cinesi.
O lo disse uno di loro,
uno del Fronte Occidentale, come parte del suo esercito senz’altro.
Posso quasi vederlo anch’io,
spada lunga sopra il collo dell’Orsa,
il suo carro senza ruote, spolverío dell’oscurità come tempesta di sabbia a occidente.
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Alcuni di questi fuochi stellari devono essere certo cenere ormai.
Mi gingillo per il giardino,
canticchio vecchie canzoni che non interessano più nessuno.
Il cappello d’oscurità cala sul cielo notturno
pollice dopo pollice, piede dopo piede nero,
sopra i Blue Ridge.
Com’era vivo il fuoco del mondo, mi dico,
prima dei capelli bianchi e la cenere dei giorni.
Scruto le costellazioni,
dimenticando qualunque cosa avessi da dire.
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Ancora il marciapiede che si srotola grigio e lungo. 9 di sera.
Un vento freddo dal cielo lontano.
C’è un’ultima solitudine che non ho raggiunto ancora,
stanchezza in gola come polvere.
Fremo dentro il suo contorno,
e mi sento sicuro però, mentre le stelle si spargono, per un’altra notte
da viandante medievale affrescato col suo poema in mano,
i cieli che restano il mio rione.
E come lui, anche con qualcosa di rosso e inviolato
sotto i piedi.
(da “Breve storia dell’ombra”, a cura di A. Francini, Crocetti 2006)