Odiare la poesia

da | Giu 6, 2017

E’ da poco uscito, per Sellerio, il saggio Odiare la poesia di Ben Lerner, nella traduzione di Martina Testa. Ringraziando l’editore per averci cooncesso di pubblicarli, proponiamo alcuni estratti.

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Quando, nel 2009, Barack Obama ha annunciato che avrebbe ripristinato la pratica di far leggere una poesia alla cerimonia di insediamento presidenziale – Clinton l’aveva fatto due volte, Kennedy l’aveva fatto nel 1961 – George Packer si è chiesto, sul blog del New Yorker: «È troppo tardi per convincere il presidente eletto a non far scrivere e
leggere una poesia in occasione dell’Insediamento?». E ha spiegato:

Da molti decenni, negli Stati Uniti, la poesia è un’attività privata, scritta da pochi e letta da pochi, e le mancano la lingua, il ritmo, l’emozione e la forza di pensiero capaci di galvanizzare un gran numero di persone nelle grandi occasioni pubbliche.

Trovo rivelatoria l’ambiguità di quel «da molti decenni»: c’era forse un poeta negli anni, diciamo, Cinquanta, che fosse in grado – tramite la potenza «della sua lingua, del suo ritmo, della sua emozione e della sua forza di pensiero» – di commuovere una folla variegata riunita sul Mall di Washington? O Packer rimpiange l’oratoria di Martin Luther King, nel qual caso, perché prendersela con la poesia? E per «galvanizzare» qui si intende semplicemente provocare una forte emozione nella folla, o spingerla verso qualcosa: verso un maggiore senso di identità o responsabilità civica, verso una specifica azione? Mentre Packer lascia intendere che Derek Walcott «forse se la sarebbe cavata bene» (come, non saprei dirlo), ha invece dei dubbi su Elizabeth Alexander, scelta da Obama per comporre la poesia in questione. Dopo aver dato un’occhiata al sito della Alexander, Packer scrive:

Elizabeth Alexander scrive con un’ironia sottile e agguerrita, e per immagini vivide e concrete, ma i suoi versi hanno le stesse caratteristiche di molta poesia americana contemporanea: una specificità personale e poco evocativa, con accenni all’universale che sono timidamente accademici. Non sono poesie che funzionerebbero bene, lette di fronte a un pubblico di milioni di persone.

Il problema della Alexander, come di molti poeti americani, è quello di essere al tempo stesso troppo specifica e troppo universale – e quando è universale questa universalità la vive con timidezza (forse condivide con molti di noi un certo scetticismo sul proprio diritto a parlare in nome di chiunque, e Packer, con mossa certo non nuova, dà la colpa della sua mancanza di universalità alla frequentazione dell’ambiente accademico). Come nel caso della mia stroncatura di McGonagall, dietro le critiche di Packer si legge, anche se al negativo, un ideale poetico: un poeta che sia in grado di unirci malgrado le nostre differenze, creando un soggetto collettivo grazie alla magia della lingua e della prosodia, un poeta che, parlando per sé, sia in grado di parlare per tutti: un io che contenga moltitudini. E un’opera del genere, sottintende Packer, cesserebbe di essere poesia ed entrerebbe nella storia. A differenza della fantasia avanguardistica di un’élite che ci traghetti nel futuro, però, Packer proietta questo bardo unificatore nel passato. Invece della difficoltà formale di un’avanguardia – difficoltà intesa a scandalizzare e mandare in tilt la sensibilità borghese, a vantaggio di un progetto rivoluzionario – Packer piange la perdita del presunto potere unificatore che un tempo la poesia possedeva. Gli basta poco più di un’occhiata a un sito internet per rendersi conto che Elizabeth Alexander non è all’altezza: dopotutto, scrive poesie reali. «Sono vasto, contengo moltitudini», ha scritto Walt Whitman in «Il canto di me stesso», e la nostalgia di Packer, come quella di molti altri nostalgici americani, è chiaramente plasmata dalla figura di Whitman, il quale desiderava che il suo libro, Foglie d’erba, fosse una sorta di bibbia laica della democrazia americana. L’esperimento degli Stati Uniti – la sua novità, la sua vastità geografica, la relativa apertura delle sue istituzioni, il suo egualitarismo, il suo orientamento verso il futuro e non verso il passato – tutto ciò aveva bisogno, secondo Whitman, di una poesia altrettanto nuova e onnicomprensiva: dal linguaggio semplice, non ingabbiata dalle strutture metriche convenzionali, proprio come il paese sarebbe stato libero dalle tradizioni monarchiche, e così via.
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Ma il programma whitmaniano non si è mai realizzato nella storia, e non penso che si possa realizzare; Whitman passa a rappresentare le contraddizioni di un’individualità democratica che non può diventare reale senza diventare esclusiva. Per citare il geniale saggio di Grossman su Whitman – mentre scrivo queste pagine mi rendo conto con sempre maggiore chiarezza di quanto sia centrale per me il pensiero di Grossman – Whitman annuncia «la presenza della persona precedente a tutte le sue caratteristiche». Non c’è bisogno che sia io a dirvi che all’unione sognata da Whitman non siamo mai arrivati, ma credo che nasca comunque dalla sua visione la nostalgia che Packer prova, alla vigilia dell’Insediamento, per una poesia che possa ipoteticamente conciliare l’individuale e il sociale, e tra-sformare così milioni di individui in un autentico Popolo. Whitman rimandava la realizzazione poetica al futuro («In qualche posto mi sono fermato e t’attendo»), ma molti detrattori della poesia si comportano come se il progetto si fosse realizzato in un qualche momento imprecisabile del passato e poi si fosse disfatto con il declino di questa forma d’arte e/o del suo pubblico. Ciò gli permette di ripudiare le poesie nel presente ma al tempo stesso di riaffermare una fede whitmaniana nel potere della poesia (pur tradendo in tal modo la fede whitmaniana nella perfettibilità del futuro, più forte di qualunque nostalgia per il passato).
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La parola «Poesia» indica un tipo di valore a cui nessuna poesia può dare realizzazione concreta: il valore delle persone, il valore dell’attività umanaa prescindere dalla distinzione fra lavoro e tempo libero, un valore che viene prima o va al di là del prezzo. Detestare le poesie può quindi essere o un modo di mostrare, al negativo, la poesia come ideale – cioè un modo di esprimere il nostro desiderio di esercitare quelle capacità immaginative, di ricostituire il mondo sociale – o una reazione rabbiosa contro la semplice idea che un altro mondo, un’altra scala di valori, sia possibile. In quest’ultimo caso, l’odio per la poesia è una specie di meccanismo di difesa: ci si scaglia contro il simbolo di ciò che si sta reprimendo, ossia la creatività, il senso di comunità, il desiderio di una misura del valore che non sia «calcolatrice». Il termine «Poesia» passa a indicare un mondo esterno al nostro che le singole poesie non possono far esistere, ma che possono far percepire, sia pure come assenza, sia pure creando imbarazzo. Bisognerebbe quindi vedere i periodici attacchi contro la poesia contemporanea come parte integrante della logica crudele della poesia, non come un suo rifiuto. Ecco perché tanti critici culturali, con una sorta di macabra letizia, continuano a proclamare, a intervalli di qualche anno, «la morte della poesia»: temiamo che la nostra capacità di immaginazione si sia atrofizzata; la commercializzazione del linguaggio appare completa. Ai fini della certificazione della morte della poesia sembra irrilevante il numero di poesie che vengono effettivamente scritte e lette – dieci anni fa, James Logenbach riferiva che c’erano più di trecentomila siti internet dedicati alla poesia – perché ciò che quella presa di posizione riflette non è tanto un’osservazione empirica delle poesie, quanto un’ansia collettiva riguardo alla nostra capacità di «creare alternative».
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Come hanno scritto Claudia Rankine e Beth Loffreda in un loro recente saggio:

Ciò che vogliamo evitare a tutti i costi è […] la contrapposizione fra una scrittura che tiene conto della razza […] e una scrittura che è «universale». Se continuiamo a pensare all’«universale» come la modalità migliore, come l’apice della perfezione, svaluteremo sempre la scrittura che non sembra universale perché tiene conto della questione razziale o di qualche altra categoria umiliata. L’universale è una fantasia. Eppure siamo prigionieri, tuttora, di una sensibilità che difende l’universale e al tempo stesso lo definisce, tuttora, come bianco. Siamo prigionieri, tuttora, di una modalità di difesa della letteratura in base alla quale l’opera degli scrittori di colore si considera riuscita quando un bianco riesce comunque a immedesimarcisi – ossia quando«trascende» la sua categoria.
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Ciò che rende Whitman un poeta così potente e così potentemente imbarazzante è il fatto che manifesti apertamente le contraddizioni implicite nel tentativo di «abitare tutto». Ed è anche ciò che rende così assurdo insinuare che l’ideale poetico di Whitman si sia realizzato in passato e che da allora – per colpa della politica dell’identità – siamo sprofondati in un evitabile clima di discordia. «Io sono il poeta degli schiavi, e dei padroni di schiavi», scriveva Whitman nel suo diario, indicando il desiderio impossibile di riconoscere e sospendere la differenza all’interno delle sue poesie, di essere nessuno in particolare per poter rappresentare chiunque. Si può odiare quanto si vuole la poesia contemporanea – in qualunque epoca – per non essere riuscita a realizzare la fantasia dell’universalità, ma i detrattori dovrebbero smettere di far finta che una qualunque poesia sia mai riuscita efficacemente a parlare per tutti. La scrittura della stessa Claudia Rankine riflette molte delle contraddittorie richieste politiche che si fanno alla poesia, offrendo al tempo stesso un esempio contemporaneo di come un poeta possa strategicamente esplorare i limiti del reale. Gli ultimi due libri della Rankine – Don’t Let Me Be Lonely: An American Lyric [«Non farmi sentire sola. Una lirica americana»] e Citizen: An American Lyric [«Cittadino. Una lirica americana»] – annunciano nel loro comune sottotitolo la tensione fra un progetto nazionale e uno personale. Più specificamente, Claudia Rankine affronta – da donna afroamericana – l’impossibilità (e l’impossibile complessità) del tentativo di riconciliarsi con una società razzista in cui essere neri significa o essere invisibili (esclusi dall’universale) o fin troppo visibili (in quanto vittima di sorveglianza e aggressioni razziste).
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Ciò che trovo nella Rankine è la sensazione che le categorie liriche tradizionali non siano più disponibili: l’ordine di leggere la sua scrittura come poesia – e in particolar modo come poesia lirica – provoca l’esperienza tangibile di quella perdita, come l’impressione della sensibilità in un arto fantasma. (Effetto che sarebbe attutito, se non del tutto assente, se il libro fosse presentato come un’opera di saggistica e non di poesia). «I sentimenti perdono sensibilità se si rivolgono a un’assenza di sentimento?», si chiede a un certo punto la Rankine, in Citizen. Credo che la sua opera dia a questa domanda una risposta negativa, facendoci provare un desiderio di sentimenti che vadano oltre lo stereotipo e lo spettacolo.
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I grandi poeti sfidano i limiti delle poesie reali, sconfiggono strategicamente o quantomeno sospendono quella realtà, a volte smettono del tutto di scrivere e vengono onorati per il loro silenzio; i pessimi poeti lasciano inconsapevolmente intravedere un barlume di possibilità virtuale grazie alla loro assoluta incapacità; i poeti d’avanguardia odiano le poesie perché restano poesie invece di diventare bombe; e i nostalgici odiano le poesie perché non fanno più ciò che loro, a torto, sostengono facessero un tempo. Sotto il termine «poesia» si raccolgono una serie di richieste interconnesse: quella di sconfiggere il tempo, di fermarlo con grazia; di esprimere l’individualità in un modo che possa essere riconosciuto socialmente o, come in Whitman, di raggiungere l’universalità diventando irriducibilmente sociali, non più persone ma tecnologie nazionali; di sconfiggere il linguaggio e la scala di valori della società esistente; di proporre una misura del valore che vada al di là del denaro. Ma una cosa che tutte queste richieste hanno in comune è che non potranno mai essere esaudite dalle poesie materialmente esistenti. Odiare le poesie reali, quindi, è spesso un modo paradossale, ancorché a volte inconsapevole, di testimoniare la persistenza dell’ideale utopico della Poesia, e in questo senso anche le geremiadi sono un modo di difenderlo.

Immagine: Video istallazione di Tony Oursler.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).