Ocean Vuong, Siamo stupendi brevemente sulla terra. Quattro poesie

da | Lug 15, 2019

Quattro poesie di Ocean Vuong, nella traduzione inedita di Dimitri Milleri.

 

Siamo stupendi brevemente sulla terra

I

Dimmi che fu la fame
e niente più. È la fame che porta
verso il corpo ciò che sa

di non poter tenere. Che questa luce ambrata,
maciullata da una nuova guerra
è ciò che spilla la mia mano

Là sul tuo petto.

II

Tu che anneghi,
……………fra le mie braccia –
Resta.
Tu che spingi il tuo corpo
verso il fiume
…………..soltanto per essere
lasciato solo –
Resta.

III

Ti dirò di come siamo abbastanza in torto per il perdono. Di come
una notte, dopo
aver colpito alle spalle
la mamma, dopo aver portato una motosega sul tavolo in cucina, mio padre
restò in ginocchio
nel bagno fino a quando non sentimmo il suo pianto tra le mura.
Così ho imparato che un uomo, al suo culmine, è la cosa più vicina
ad arrendersi.

 

***

ALBA CON CITTÀ CHE BRUCIA

 South Vietnam, April 29, 1975: Armed Forces Radio played Irving Berlin’s “White Christmas” as a code to begin Operation Frequent Wind, the ultimate evacuation of American civilians and Vietnamese refugees by helicopter during the fall of Saigon.

 

………………….Petali di fiordilatte sulla strada
……………………………………………….come stralci di un vestito di ragazza.

 

Possa il tuo giorno esser limpido e lieto…

 

Le riempie una tazza da the di champagne. Gliela porta alle labbra.
……………………..le dice Apri
………………………………………Lei apre.
…………………………………………………….Fuori un soldato sputa
la sigaretta, mentre passi
…………………riempiono la piazza come massi caduti dal cielo. Possano tutti
i tuoi Natali essere bianchi come la guardia del traffico che apre
la sua fondina.

 

…………………………La sua mano che percorre l’orlo
del vestitino bianco.
…………………………………….Occhi neri lui.
………………………….Capelli neri lei.
……………………………………………….Una sola candela.
……………………………………………….Le loro ombre due stoppini.

 

Un truck militare percorre l’intersezione, suoni di bambini
che strillano dentro.
…………………………………………….Una bici scagliata
contro i vetri di un negozio. Quando la polvere si alza, un cane nero
rimasto sulla strada. Le sue zampe posteriori
…………………………………………………..spezzate nello splendere
………………………………………………………………..di un Bianco Natale.

 

Sul comodino, un  rametto di magnolia si espande come un segreto sentito
…………………………………………………………………………………………………..per la prima volta

 

Le cime scintillano e i bambini le ascoltano, il capo della polizia
……………………………………faccia in giù nella piscina di coca-cola.
Una piccola foto di suo padre che affoga
accanto all’orecchio destro.
La canzone che gira in città come una vedova.
Un Bianco… Un Bianco… Io sogno di un Bianco tenda di neve

 

…………………………………………………………che dalle spalle di lei cade.
Neve che scricchiola contro i vetri. Neve stracciata

 

………………………………………………………….di proiettili. Cieli rossi.
Neve sui carrarmato fra le mura della città.
Un elicottero innalza la vita fuori portata.

 

……………………………….La città così bianca che è pronta all’inchiostro.

 

…………………………………………..La radio dice: corri, corri, corri.
Fior di latte sopra un cane nero
…………………………………………………………Come stralci del vestito di una donna.

 

Possano i giorni esser lieti e lucenti. Lei che dice
e che nessuno dei due può sentire. Le rocce dell’hotel
dietro di loro. Il letto una placca di ghiaccio
………………………………………………………………..che frana.

 

Niente paura, le dice, quando la prima bomba illumina
I loro volti, mio fratello ha vinto la guerra,
      ………………………………………………………………e domani…
Le luci vanno via.
Io sogno… Io sogno…
…………………………………….sentire le lievi campane innevate.

 

Nella piazza più in basso una suora infuocata —
………………………………………..corre in silenzio verso il suo Signore.

 

…………………………………….Lui dice apri.
…………………………………………………………Lei apre.

 

***

AVVICINARSI AL BORDO

Non troppo vecchi da non credere che niente
potrà cambiarli mai, si avviano, mano nella mano,

dentro il cratere della bomba. La notte è ricolma
di denti neri. Ha un Rolex falso, settimane

che non le si frantuma sulle guance, ora si offusca
dietro di lei come una luna in scala.

In questa versione la serpe ha la testa mozzata — bloccata
come una corda disfatta dall’anca dell’amata.

Le tira su la gonna di cotone, rivelando
un’ora nuova. Le sue mani. Le sua mani. le sillabe

dentro le mani. Oh padre, Oh penombra, preme
sopra di lei — come un campo si ferisce

del piangere dei grilli. Mostrami l’oblio farsi una casa
dentro le anche. Oh madre,

oh mano piccina, insegnami tu
a prendere un uomo come la sete fa

con l’acqua. Fai che ogni fiume invidi
le nostre bocche. Che i suoi baci colpiscano il corpo

come stagioni. Dove le mele tuonano
contro la terra con i guanti rossi. Ed io sono tua figlia.

 

***

RITRATTO IN FORMA DI FORI D’USCITA

Invece, lascia che sia l’eco di ogni passo
coperto dalla pioggia, a mutilare l’aria come un nome

volato dentro una nave che naufraga, schizzata la corteccia del kapok
fra le rovine e l’acciaio di una città che tenta di scordare

le ossa sotto i marciapiedi, fra
campi di rifugiati malati di fumo e inni

mezzo-cantati, una baracca nera e arrugginita illuminata grazie all’ultima
candela di Bà Ngoai, facce di porci che tenevamo fra le mani

e scambiavamo per fratelli, che entri in una stanza illuminata
di neve, piena solo di risate, Wonder Bread

e maionese portati alle labbra screpolate come simbolo
di un trionfo che nessuno reclama, lascia che spazzi del neonato

le guance rosse quando il padre lo solleva fra le braccia, inghirlandato
con interiora di pesce e Malboro, tutti che si allietano a vicenda

il vietcong scuro cade sotto l’M16 di John Wayne, il Vietnàm
che brucia nello schermo, lascia che strisci nelle loro orecchie

lindo come una promessa, prima di bucare il poster
di Michael Jackson luccicante fra i cuscini, nel

supermercato in cui una donna Hapa è pronta
a credere che ogni uomo bianco con il naso come il suo

sia suo padre, che canti dentro la sua bocca brevemente
prima di stenderla in mezzo a barattoli di pomodoro

e scatole di pasta blu profondo, la mela rosso scuro che carambola
giù dal suo palmo, nella cella di prigione

dove il marito siede guardando la luna
fino a convincersi sia l’ultima ostia

che Dio non gli ha concesso, lascia che colpisca la mascella come un bacio
che abbiamo scordato come scambiarci, permetti che sibili

fino al ’68, la baia di Ha Long, il cielo rimpiazzato
dal fuoco, cielo che soltanto i morti

si fermano a guardare, che raggiunga il nonno che si scopa
la contadina incinta nel retro della jeep militare

I suoi capelli biondi tremolanti nel vento infestato dal Napalm, lascia che lo spilli
giù nella polvere in cui il figlio crescerà.

Sulle dita vesciche di sale e Agent Orange, lascia che
le lacrime squarcino le sue fatiche di oliva, stringano il nome che penzola

Dal collo, nome che si premono contro la lingua
per reimparare la parola – vivi, vivi ,vivi, ma

se non altro, lasciami intrecciare questo raggio di morte
nel modo in cui una donna cieca ricuce un lembo di pelle sulle

costole di sua figlia. Si — lasciami credere di essere nato
per caricare questo fucile, liscio e luccicante, come un vero

Charlie, come i passi di fantasmi mascherati dalla pioggia
mentre mi abbasso sul mirino — e prego che

nulla si muova.