Non come vita

da | Giu 12, 2014

[Due poesie da Non come vita di Gilda Policastro seguite da una recensione di Luca Alvino]

ALL’OMBRA

non eri quando hai
chiamato che
il resto dell’attendere,
o l’ombra,
che risana
di poco, ancora Non fa
ponti, ma barriere
l’andarsene

è stabile, stabilire la cura se
dura chiamami, quando sai
qualcosa, anche tardi

ho spento o si è spento:
nel cellulare dei morti
arrivano i messaggi
e nei messaggi dei vivi,
le condoglianze

ne conto trentacinque,
di amici che stringono forte,
che abbracciano stretto,
che comprendono
la pena e noi
mangiamo il riso al buffet d’ospedale,
guardiamo nei piatti, ridiamo
perché se n’è andato il rantolo,
i piedi a terra
come fanno,
tutti, ha detto la zia, che piange

Che piangono gli altri sempre,
e non vedi, hai bloccato la fila,
all’amica, che muoiono sempre
gli altri
e noi, a consolarci

*

PRECARI

Mamma tu lo sai
che a un cialtrone qualunque
se va a leggere su un palco
(li chiamano slam poetry)
gli danno quanto meno cento euro
(lo chiamano gettone di presenza)
e se lo vince ci può campare un mese,
certo senza pretese
Mamma mi ricordo quando non camminavi
papà a spingerti giù nel corridoio
overlook dice un poeta di oggi, come in shining,
e tu battevi i piedi, invece,
come un bambino al mare
Mamma tu lo sai che oggi
se va bene mi rinnovano il contratto
ma devo sorridere, carina e ben vestita,
– da ricercatrice a tempo, che hai capito, da velina –
Mamma ti ricordi com’eri bella nelle foto
in cui ci somigliamo,
– meno disoccupata tu,
meno gettone di presenza
una supplenza e già tre figli,
mamma mia com’eri bella –,
e lo leggevi Céline?
– l’atroce farsa del durare –, ma lo sai che adesso
puoi lavorare gratis, se ti dice male,
e un fidanzato a tempo lo rimedi:
precario oggi è come postmoderno ieri,
come il nero,
si mette dappertutto che non stona
Mamma tu nelle foto eri bella,
bella e felice,
ma ora che ci guardano le telecamere,
ti prendi, magari, un’ombrellata e se ne muori,
almeno sai chi è stato
Mamma gli altri miei amici hanno le mamme
che sorridono, a volte, e tutte vive,
(le tue medicine impilate,
più il potassio per ripristinare i liquidi),
e adesso, sì, ti porterei dove volevi andare,
dappertutto,
in quel posto molto chic a s. Lorenzo
dove paghi dieci euro e mangi una, due prese,
e alla terza ti guardano male (lo chiamano happy hour),
o ti farei leggere quello che scrivo
quando dicevi:
la dobbiamo far vedere, non è normale,
e ti potrei presentare i fidanzati,
pure quel curdo di cui diresti non sia mai
Mamma ti vengo a prendere, alzati,
dai aria alla stanza e, soprattutto,
fatti trovare

***

«Precario» viene da prex, che significa preghiera. Non a caso, nella tradizione cristiana, questo termine, alludendo alla natura effimera dell’uomo, ne denuncia la costante condizione di instabilità cui egli è drammaticamente destinato e che può essere contrastata – appunto – solamente attraverso la preghiera. In generale, l’aggettivo indica la natura provvisoria dell’esperienza umana, sia da un punto di vista temporale che spirituale. Negli anni recenti, tuttavia, il termine ha assunto via via un significato più ampio: dapprima ha definito l’instabilità occupazionale di una determinata tipologia di lavoratori; e poi, a poco a poco, ha iniziato a designare una vera e propria condizione esistenziale. L’impossibilità di investire le proprie risorse in progetti a lunga scadenza ha generato una frustrazione talmente devastante da annichilire ogni velleità di riscatto. La coscienza della provvisorietà è transitata dalla sfera superficiale della semplice percezione a quella più profonda della consapevolezza, suscitando nell’individuo un’algida rassegnazione, che aiuta a tollerare il male introiettandolo nella sostanza stessa dell’esistenza.

Il senso di sconforto prende corpo nella dimensione della contingenza quotidiana, legata all’esperienza lavorativa, per sconfinare a poco a poco in quella più solenne dell’ontologia, in cui non si percepisce più la distinzione tra ciò che si fa e ciò che si è. Sembra quasi che negli ultimi vent’anni il concetto di precarietà abbia inghiottito come un buco nero le certezze di un’epoca portando allo scoperto l’insicurezza di tutta una generazione. «L’atroce farsa del durare» di céliniana memoria non riguarda solamente una sfera contingente della realtà dell’uomo come quella lavorativa, ma investe ogni ambito del suo universo relazionale, da quello affettivo a quello sociale a quello esistenziale.

È questa, mi sembra, una delle tematiche più importanti del volume Non come vita di Gilda Policastro, stampato da Aragno nel 2013 nella collana i domani, a cura di Maria Grazia Calandrone, Andrea Cortellessa e Laura Pugno. Il libro declina il paradigma della provvisorietà attraverso l’esperienza della sofferenza e della perdita. Quella di Policastro è una poesia arresa al dolore e all’impotenza, che indugia su immagini di caducità senza mai cedere alla tentazione di ricercare un senso nella disgregazione. L’ambientazione dell’opera è per lo più ospedaliera, affollata di fleboclisi e dispositivi sanitari; le immagini più tradizionali della poesia vengono anch’esse piegate all’evocazione della pena e della malattia: e così il giardino diviene un ospedale («Entrate in un giardino / d’aghi, di tubi, di stami / di plastica, di steli ossigenati»), mentre il fiore è – pirandellianamente – una metafora del cancro («i cancri non sono tutti uguali, / uno ha più foglie, / se è pieno di metastasi / l’altro è come un fiore / che lo stesso ti muore»).

Il linguaggio poetico si serve di un impasto linguistico raggrumato, in cui il senso si rapprende in un guazzo corposo, irrisolto. Policastro rifiuta di piegare la propria poesia a qualsiasi tipo di formalismo predefinito. Se sceglie di usare un metro tradizionale, rimarca l’eccezionalità della scelta e la evidenzia come volontaria deformazione del proprio tessuto poetico, connotandola semanticamente, attribuendole un preciso significato. L’endecasillabo «che hanno fisso l’amor domenicale», per esempio, che troviamo nella poesia «Per L.», enfatizza, tramite la ricercatezza dell’apocope, una precisa intenzione deformante da parte dell’autrice. Come se la scontatezza del rituale erotico dei vicini di casa alla quale il verso si riferisce trovasse un’eco nella rigidità del metro che la racconta, così apertamente stonato rispetto alla preminenza decasillabica della lirica in cui è inserito.

L’ortodossia linguistica viene continuamente rinnegata, sia con espedienti più scoperti (come la rinuncia al punto fermo, che delega alle sole maiuscole la responsabilità di segnare il discrimine tra i periodi), sia tramite l’infrazione deliberata della norma («a chi parlano la gente ai telefoni»), che evidenzia, anche a livello puramente grammaticale, il progressivo sgretolamento delle certezze nel contesto dell’esperienza quotidiana. Ma anche tramite l’utilizzo di una sintassi aperta, allentata, che segue il ritmo frammentato della sensazione più che l’evoluzione di un pensiero strutturato: «Dell’amore finito in morte / solo dilazione / in prolungata agonia / da farmaco / che corrode, non guarisce / come una cura / all’incontrario , farlo / sparire».

I versi si rivelano particolarmente incisivi laddove il tono è meno sorvegliato, più arreso alla sofferenza personale. È lì che la scrittura di Gilda Policastro trova quell’andatura dimessa che forse si rivela più adatta a esprimere l’intensità del lutto, la natura intima e indecifrabile del patimento; ed è lì che l’autrice dimostra la propria padronanza e disinvoltura nell’uso degli strumenti poetici: «che te ne muori / col fiore in bocca, che rivivi / in un sussurro / il nome, dolce nome / di fiore che schiude, che s’apre / alla vita e lo stesso / si porta / che luce, che brilla, ch’è rosa / la morte, / che il fiato caldo riporta, / l’epifonema di morta, / che apre, che trema / sulla bocca che vive / sulla vita che chiude, / ch’è rotta»; «Tornano le domeniche zitte, / ho cambiato la password d’accesso / lavorato, / condita la minestra col solito eccesso / di nervi, l’ho poi mangiata in piedi (strafogata)».

Funziona l’andamento prosastico della sezione «Stagioni», in cui la rinuncia a qualsiasi struttura versale crea nella strofa una sorta di vuoto pneumatico, in cui le immagini – affrancate da qualsiasi vincolo formale – possono rendere in maniera efficace quell’assenza di riferimenti che costituisce uno dei temi più importanti dell’opera: «È adesso che arrivano e si chiude la cassa, si sceglie la foto, alcuni dicono condoglianze Si proseguiva con la cura di tre settimane Facciamo in modo che ancora non sappia Eppure mi sento meglio, oppure mi sento male, o non sarebbe meglio morire, e perché non posso vivere in pace Ma niente di tutto questo dice in mezzo alla stanza, la camicia inadatta La foto non le rende giustizia Sono un tronco, diceva qualcuno Chi era un tronco non diceva niente, stava in mezzo alla stanza // In America, per dare la notizia, si studia la posizione delle mani sul tavolo».

Convincono meno quei testi in cui termini esageratamente ricercati denunciano un’intenzione troppo studiata, che in qualche modo finisce per sciuparli. E allora può capitare che versi potenzialmente molto espressivi rimangano freddi, non lascino trapelare in modo efficacemente poetico il percorso razionale ed emotivo che si cela dietro di essi: «Mani intrecciate / in posizione bassa / da pathosformeln […] è cognizione / in codificazione / deformazione»; «Non hanno mai letto deleuze-guattari / e non sanno niente / di quando un testo è rizomatico e perché / non hanno visto un quadro di kandinsky / non conoscono il principio della serialità atonale / non le sanno fare le classifiche del libro / migliore degli ultimi vent’anni / e il personaggio uomo manco l’hanno sentito nominare».

Immagine: Marina Abramović, The Artist is Present, 2010.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).