Nino De Vita, Il bianco della luna

da | Ott 6, 2020

Da Il bianco della luna. Antologia personale (1984-2019) di Nino De Vita, con prefazione di Emanuele Trevi, collana “novecento ∕ duemila” diretta da Diego Bertelli e Raoul Bruni per Le Lettere (2020), pubblichiamo in anteprima due poesie inedite, seguite dalla prefazione di Emanuele Trevi.

 

da Tuttu ’u munnu si rruri (Tutto il mondo si tormenta) – poesie inedite

L’aranciaru

Era pi dunn’egghè
ddu ciàvuru ri mustu.
Vinia ru malasenu, ri nne stipa
càrrichi, nfilignera,
e gghjia pi nna cucina,
p’i càmmari, niscia,
si nnacchiava all’àstracu.
E ’u ciàvuru ri rrosi
pi ddintra ’a casa, ’u ciàvuru
ru ggelsuminu, ri
carrubbi.
’Unn’agghicava ’u ciàvuru ru mari.
Ma eu ci jia, ddà,
pi sèntilu.

’U silenziu chi cc’era
nna sta ncufata ru
Stagnuni.

……………..Si putia
sèntiri ’u rriminiu
ri pisci chi vinìanu
ô ncapu, e ’i bboddi, ’u toccu
ri l’ali ri l’aceddi
vasci, a stricari ’u pilu
ri l’acqua.

………………Cci vinia
viremma un’aranciaru
nna stu locu, unu siccu
mpurrutu.

Chiantava tutt’allongu
ra spiaggia, orantuoarantu,
bacchetti cu pizzudda
ri murina o di siccia,
di runcu.
Passava e arricugghia
l’aranci chi s’avìanu
nnastumentri acchiappatu
ê canni pi pistiari.

Nchiusi pi ddintra ê sacchi, ammazzuniati,
cu ’i tinagghi, cu ’i vucca,
stricànnusi cu ’i ranfi,
facìanu un nzirrichiu
chi a mmia mi scumminava.
M’arrassavu accussì
ri nn’iddu quannu cc’era.

Un gghiornu stu cristianu
cu ’a manu mi chiamau.
“Picchì t’a fui” mi rissi.
“Mali ’unn’i fazzu. Cogghiu
aranci pi piscari
cu ’i nassi, abbuscu quarchi
sordu e cci campuniu
’a famigghia”.
“ ’Un mi piaci ascutari
’a làstima chi fannu”
cci rissi.
’U cristianu si fici
ursignu. M’ammicciau,
schifiatu.

………………..“Puru niatri”
accuminciau a vuciari
“semu pi ddintra ô ’n saccu;
e lastimiamu, avemu
l’accupazzioni, ’i còlluri chi cci hannu
l’aranci. Tuttu ’u munnu
si rruri”.
………………….E aisannu ’u vrazzu
’u rriminau nnall’aria
tagghiannu comu fa
una fàvuci.

 

Il pescatore di granchi

Era dappertutto
quell’odore di mosto.
Arrivava dal magazzino, dalle botti
ricolme, messe in fila,
ed entrava nella cucina,
nelle stanze, usciva,
saliva sul terrazzo.
E l’odore delle rose
nella casa, l’odore
del gelsomino, dei
carrubi.
Non giungeva l’odore del mare.
Ma io ci andavo, lì,
per sentirlo.

Il silenzio che c’era
in questa cavità dello
Stagnone.
………………Si poteva
avvertire il movimento
dei pesci che venivano
in superficie, e il boccheggiare, il tocco
delle ali degli uccelli
bassi, radenti il velo
dell’acqua.

………………..Ci veniva
pure un pescatore di granchi
in questo posto, uno magro
ma ferrigno.

Conficcava, lungo tutta
la spiaggia, una appresso all’altra,
canne con pezzettini
di murena o di seppia,
di grongo.
Tornava e raccoglieva
i granchi che si erano
frattanto appiccicati
alle canne per mangiare.

Rinchiusi dentro i sacchi, ristretti,
con le chele, con le bocche,
sfregandosi con le zampe,
creavano un rumorio
che mi turbava.
Mi allontanavo così
da lui quand’è che c’era.

Un giorno questo vecchio
con la mano mi chiamò.
“Perché fuggi” mi disse.
“Male non ne faccio. Raccolgo
granchi per pescare
con le nasse, guadagno qualche
soldo e ci campo
la famiglia”.
“Non mi piace ascoltare
il lamento che fanno”
gli dissi.
Il vecchio si fece
torvo. Mi fissò,
sdegnato.

……………….“Pure noi”
cominciò a gridare
“siamo dentro a un sacco;
e ci lamentiamo, ci sembra
di soffocare, le pene abbiamo
dei granchi. Tutto il mondo
si tormenta”.
………………………E sollevando il braccio
lo mosse nell’aria
tagliando come fa
una falce.

 

*

’U bbagghiu Lìpari

I

’U friscu chi d’estati
ràvanu i muri ri stu bbagghiu anticu.
Cci avia ancora ddu purtuni ranni,
bburiusu, pi mmità
scavigghiatu, manciatu.
Ê cianchi ru’ pilera,
àvuti, cu i liuna
a guardianìa, dda sùpira
aggiuccati, puntuti,
unu pi bbanna, ri
petra.

Pigghiavu, p’agghicari nna stu lòcuru,
un violu chi passava
ru timpuni, ri casi ru vucceri;
ddoppu scinnia a pinninu
e addizzava, summava.
…………………Si viria,
ri luntanu, spuntari
ri nne zzucchi sta cosa
mpiranti.

A me’ patri, a me’ matri, cunfiravu,
all’àvutri picciotti,
ri sti vìsiti ô bbagghiu
Lipari.
Mura vecchi, ’i casuzzi
pi nno rintra, a firriari,
cu ’i porti a bbanidduzza,
sbarrachiati: ciuciava
’u ventu e zzichiniàvanu,
……………………..’u rrizzelu
ri scantu chi mittìanu.
Taliàvanu allallati.
Ri gòriri chi cc’era.

 

Il baglio Lipari

I

Il fresco che d’estate
davano i muri di questo baglio antico.
Aveva ancora quel portone grande,
maestoso, per metà
scardinato, tarlato.
Ai fianchi due colonne,
alte, con i leoni
a guardia, lì sopra
accovacciati, severi,
uno per lato, di
pietra.

Prendevo, per arrivare in questo luogo,
un viottolo che passava
dalla timpa, dalle case del macellaio;
dopo scendeva ripido
e raddrizzava, saliva.
…………………….Si vedeva,
da lontano, spuntare
dai vigneti questa cosa
imponente.

A mio padre, a mia madre, confidavo,
agli altri ragazzi,
di queste visite a baglio
Lipari.
Guardavano sbalorditi.
Da godere che c’era.
Muri vecchi, le casette
all’interno, tutte a giro,
con le porte semiaperte,
spalancate: soffiava
il vento e cigolavano,
…………………..il brivido
di paura che mettevano.

 

 

Emanuele Trevi
LE «LÌSINE» DI NINO DE VITA

Vale più il consiglio di un amico, quando parliamo di artisti e di poeti, che mille notizie provenienti dai libri, dalle riviste, dalle recensioni sui supplementi letterari dei giornali. Ebbene, devo a Massimo Onofri la conoscenza e l’ormai lunga frequentazione di un’opera in tutti i sensi unica e preziosa come quella di Nino De Vita. Grandissimo esperto della letteratura siciliana moderna, Massimo non è il tipo da dare consigli a vanvera, o condizionati dall’umore del momento. Geneticamente insensibile alle mode, punta sempre dritto all’originalità, alla qualità. E ci ho messo ben poco a capire perché un poeta come Nino De Vita (allora non proprio un esordiente, ma con una lunga strada ancora da percorrere davanti a sé) potesse soddisfare un giudice così esigente. Il fatto è che l’opera di De Vita, così armoniosamente cresciuta nel corso del tempo, è di quelle che non si dimenticano, per il semplice motivo che, grazie alla sua energia simbolica e alla sua forza di persuasione, trova nel lettore uno spazio tutto suo, senza nulla di simile a ingombrarlo. Ciò si deve forse al fatto che De Vita è certamente un vero poeta, ma la sua ispirazione fondamentale rimanda a un ruolo più arcaico, che precede ogni distinzione fra generi letterari e forse l’idea stessa di «letteratura» nella sua accezione più corrente. De Vita ha sempre incarnato ai miei occhi una variante contemporanea di un archetipo millenario, quello del narratore nel senso più assoluto e intemporale e compromesso con l’oralità, con i prodigi e i poteri della voce umana. È a questa identità profonda che dobbiamo sempre commisurare le scelte linguistiche e quelle metriche, per constatare, con ammirazione, che non hanno mai nulla di occasionale, di approssimativo. Quel dialetto marsalese, melodico senza bisogno di essere musicale, e quei versi brevi sono gli elementi primari di una lingua fatta per raccontare. Questo significa che la poesia di De Vita è un organismo coerente, che si sviluppa a partire da un nucleo, che è la personalità di questo narratore, i suoi incontri quotidiani, la sua infanzia, i suoi affetti.
Nei suoi apologhi sul mondo umano e sul mondo animale c’è molta saggezza, la percepiamo assieme ad altre doti come la compassione e la giustizia. Ma non è una saggezza alla La Fontaine, non si lascia mai catturare in una formula memorabile, perché a ben vedere i racconti di De Vita lasciano in sospeso molto più di quello che sciolgono, e in questo hanno un’aria orientale, un lieve sapore taoista o se si preferisce kafkiano. Ogni fatto che viene raccontato sembra dichiarare il suo senso allargandosi a cerchi concentrici, anziché procedere in modo lineare. Ed ecco che la postura arcaica del narratore orale si salda a una poetica modernissima del racconto, con una naturalezza che non smette di stupire. È come se De Vita sospingesse con movimenti delicati e infallibili tutto il suo mondo sull’orlo di una rivelazione lasciando poi ad ogni singolo lettore il compito di completarla con la sua immaginazione. Lui stesso, quando era un ragazzino, ha imparato quest’arte illuminante ed elusiva mettendosi all’ascolto dei vecchi, dei viandanti, di quelle donne che sembrano serbare in sé tutti i segreti dei luoghi e i terribili tesori dell’esperienza. Questa è una dinamica talmente importante della costruzione del mondo poetico di De Vita, che conviene soffermarcisi con la dovuta attenzione. Nella civiltà evocata in queste poesie, infatti, poco o nulla si trasmette attraverso la scrittura, che non è certo disprezzata, ma ha un ruolo secondario e accidentale. Narratori si nasce, come un tempo si nasceva aedi, o pupari, o vagabondi. Ma in cosa consiste questa disposizione innata? Non certo nella facoltà, nuda e cruda, di inventare storie, prerogativa della figura dello storyteller ideata dall’industria culturale moderna e protetta dai diritti d’autore. Semmai, nei libri di De Vita riconosciamo i frutti di una forma d’esistenza in cui diventano preponderanti un’educazione all’ascolto e infine una vera e propria arte dell’ascolto. In questa dimensione le storie sono di tutti e di nessuno, come le favole e proverbi, e l’ultima cosa che conta è stabilire chi le abbia raccontate per primo. Per questo motivo ogni cosa che leggiamo di questo poeta unico ci sembra collegata senza mediazioni a un processo di educazione interiore lungo quanto la vita stessa e per sua natura interminabile.
Non è un caso che De Vita spesso rievochi sé stesso da bambino o da ragazzo curioso, in grado di rivolgere le domande giuste al mondo che lo circonda. È il figlio di Ciccio De Vita, che abita nel baglio Sansone, che assorbe ciò che un giorno, a sua volta, racconterà. Per lui l’infanzia non è, come per tanti poeti, una generale e indistinta condizione di meraviglia o paura, ma uno strenuo esercizio dell’attenzione, della decifrazione. Si legga in questa chiave un esempio splendido come U’ rrimito (ovvero L’eremita). Incontrato in riva al mare, su un molo da dove lo sguardo scorge in lontananza il profilo dell’isola di Favignana, l’eremita ha fama di poeta, ma solo per la festa di San Giuseppe. Quando il ragazzo, con il cuore che gli batte forte, gli confida di essere anche lui poeta, l’eremita, sorpreso, gli chiede di recitargli qualcosa. Ma Nino non sa nulla a memoria. Male! Lui, l’eremita, le ha tutte in testa, le sue poesie, e si batte la fronte con le nocche per rafforzare il concetto. È una rivelazione decisiva, di quelle capaci di orientare un intero destino creativo. L’eremita in riva al mare è un rappresentante della civiltà dell’ascolto, che ha nella memoria uno dei suoi cardini irrinunciabili. Si potrebbe dire che la voce stessa, nel mondo evocato da De Vita, sia una manifestazione sensibile, l’aspetto corporeo della memoria. «E chi pueta sì?», che poeta sei, chiede l’eremita al ragazzo mortificato (ma ogni insegnamento davvero importante comporta una certa dose di salutare mortificazione). Non è un vero poeta colui che scrive e si dimentica quello che ha scritto. Dopo avere elargito a Nino questa informazione fondamentale, il vecchio si addolcisce. Poesie non gliene reciterà, per rispetto di san Giuseppe, ma gli racconterà una storia. È una storia meravigliosa, che lascio ai lettori di questa antologia il piacere di scoprire. Ma quello che mi preme maggiormente osservare è che questa è già una storia… di Nino De Vita, come tante indimenticabili che abbiamo letto nei suoi libri. Vale a dire una storia «senza coda», il cui significato deve fermentare nello spirito di chi l’ascolta senza che venga mai esplicitato una volta per tutte, perché altrimenti la trasmissione assumerebbe il peso sgradito dell’autorità. È in questa verità che consiste l’invito dell’eremita al ragazzo: ci pensi su, e gli venga il giorno dopo a dire cosa ne ha capito, perché lui stesso non ne è mai riuscito a venirne a capo, e la rimugina come una «lìsina», ovvero un rovello. Non esiste una definizione migliore di ciò che una poesia può davvero trasmettere: una «lìsina» non solo nella testa di chi la legge, il che equivarrebbe a un sopruso enigmistico, ma anche nella testa di chi le ha dato forma, confidando nella durata e nella solidità dell’asse ereditario nel quale si conservano e si tramandano quelle cose supreme e incomprensibili che ci rendono umani.

 

Immagine: Foto di Dino Ignani.