Nicoletta Bidoia, Scena muta

da | Ott 23, 2020

Alcune poesie da Scena muta di Nicoletta Bidoia (Ronzani 2020), seguite da una nota critica inedita di Davide Castiglione.

da La morsa

Si è portati a pensare a una colpa
quando si vedono congelare
i passeri in volo e poi cadere.

Sta succedendo qualcosa,
ci siamo detti, tra la terra
che ci addenta in banchisa
e il cielo che si addensa
e impallidisce ogni precetto.

Nella distesa vasta di scongiuri
il grido di chi prima taceva
si propaga rapido fino in Boemia.

 

da Il caro enigma

E se fossero i ghiacciai sciolti in una resa
a somigliarti? O la caletta più nascosta
che esita persino a vivere oltreché
a mostrarsi? Ho visto un uomo entrare
in un bosco puro di betulle
e allungare al cielo il contorno
del pianto. Ogni cosa incerta
ti somiglia, e affranta e bella.

 

da Ora per allora

Col pianoforte inizia il breviario, la meditazione intensa delle ore. Si finga di appoggiare a un tavolo il braccio che si apre, sostenga il mento l’idea precisa che avete di futuro e dal plesso solare si irradi la volontà di osservare il centro. Qui si trasforma la pena in alta linea di bellezza e il viso sia serafico e il piede frusti ripetutamente la stanchezza. L’insegnante dice che il sudore è un pane che va spezzato ogni giorno. Non ci sono altri esempi per oggi.

[…]

Un giorno il suo armadietto in refettorio si è riempito di formiche. Lì accumula miele e dolci che arrivano dal nord. Da sola va a comprare in un negozio una scorta di violette di Parma e quando c’è bisogno di prendere un grembiule si svena e va in una boutique vicina a Piazza Ugolini. La proprietaria ha morbidezze emiliane di una madre e allora la saluta sempre quando passa.

 

da Finiremo per trovarci

[…]

L’anno dopo creo Le Sacre du Printemps e mi spingo oltre. Per il rito sacrificale della Russia antica esaspero le posizioni rivolte all’interno, le rendo disarmoniche, appesantisco i salti e chiedo volti inespressivi ai ballerini, che faticano ad abituarsi. Io non parlo molto, a loro non so spiegare, mostro solo come si deve fare.

La sera del debutto il pubblico inorridisce. Pregustava già salti straordinari o il virtuosismo di una rosa, ma niente, non do loro niente di quello che cercano e alla fine ringhiano spaventati. Volevano solo divertirsi. Fuggono la verità come la peste.

 

Quando mi esibirò l’ultima volta in un assolo tragico e nervoso mi chiederanno di mitigarlo.
Non si abituano mai a ciò che sono, non mi afferrano mai, non c’è modo, perché sono uno straniero e vengo da altrove.

 

L’inizio è mistero e scardina tutto.
Tentiamo i nuovi passi nell’ombra
io e mia sorella, custodiamo
il codice con gli occhi.
A Bronja non spiego il motivo: io vivo
nel volto inespressivo e nuovo.
Covo il futuro,
taccio e provo nei corpi
il bassorilievo pagano del Fauno
che vi disturberà.

È adesso è qui che nasce
la lentezza angolare del mondo
e lo spasmo che la smuove. Eppure
nei vasi dei greci già c’era, bastava
guardare coi gesti le figure
e saldarle ai ginocchi, al torso severo
che ruota e si sloga,
come l’idea quando cambia
e nasce. (Bastava così poco,
o il tanto che sono in segreto,
per animare e dire la verità?)

 

Per essermi fedele
devo tradire l’aria di prima,
il mio mulinare nel vento,
devo interrare l’astro e l’arcata
perché è venuto un tempo di pietra
inatteso, c’è un’altra vertigine.
Mai si è visto così tremendo
il battito di ciglia
dell’immobile.

 

Trattengo lo slancio, mi arresto:
più la musica è fluida più la ignoro
e fratturo nel polso l’armonia.
Se imploro la ninfa, non vuole.
Avreste mai detto così impudico
il desiderio? così aspro?
A ventitré anni divento
padre fondatore di ogni sguardo,
mentre vi lascio il languore dell’afa,
il sogno sconcio nell’erba e il profilo
dell’urlo.

 

 

Scena muta: per un possibile attraversamento

di Davide Castiglione

  1. I semi dell’inverno

«Occorre avere una mente invernale», attacca una memorabile poesia di Wallace Stevens, The Snowman, «per osservare il gelo e i rami / dei pini incrostati di neve». Leggere l’ultimo libro di Nicoletta Bidoia, Scena muta (Ronzani 2020), mi ha riportato a questa concezione dell’inverno e del suo gelo come spazio mentale e attitudinale, paradigma di rigore, conservazione ed economia delle forze morali e fisiche di fronte a condizioni inospitali. L’afasia e il silenzio, implicati dal titolo e messi giustamente in rilievo da Alberto Cellotto nella prefazione, mi sembrano essi stessi un corollario del freddo: afasia e silenzio non vengono d’altronde – e per fortuna, aggiungerei – drammatizzati nel corso del libro come una suppostamente ontologica difficoltà del dire poetico in quanto tale, ma appaiono piuttosto come risoluta scelta strategica della voce poetica (non parlerò di soggetto poetico per motivi che diverranno chiari nel resto di questa recensione), il cui sostrato esistenziale si palesa e svela gradualmente in corso di lettura. Anche perché, soprattutto nelle sezioni terza e quarta – Ora per allora e Finiremo per trovarci – la scioltezza della scrittura, la sua capacità di incarnare dei mondi messi a fuoco con dovizia di dettagli emotivi su sfondi biografici sono quanto di più distante si possa immaginare da una attardata poetica del silenzio di matrice ermetica. Né deve sfuggire che fare «scena muta», nell’accezione fraseologica del discorso comune, presuppone un’interrogazione a cui non si sa o vuole o può rispondere: la controparte invernale di un primaverile rimanere a bocca aperta per lo stupore.

Il freddo, dunque, è la direttiva per inoltrarsi nel libro. Lo è non tanto mimeticamente nel senso delle atmosfere suggerite, perché in tal caso solo la prima sezione, La morsa, ne sarebbe pienamente rappresentata. Lo è, invece, perché porta in dote con sé la vera parola chiave, l’irrigidimento; il libro diventa così comprensibile non tanto e non solo come una conquista della parola di sezione in sezione, ma come una serie concettualmente coesa di quattro studi o poemetti stilisticamente e formalmente eterogenei – che sarebbe riduttivo chiamare sezioni – sul tema dell’irrigidirsi e dell’allentarsi. Nel primo paragrafo non a caso ho parlato di un progressivo aumento di scioltezza, di un sopraggiungere del calore mano a mano che si procede nella lettura.

  1. Irrigidirsi e sciogliersi

Vediamo dunque cosa sono e come vengono rappresentate queste diverse declinazioni del gelo, dell’irrigidirsi e dello sciogliersi, dalla «morsa» della prima sezione alla promessa del futuro dell’ultima, Finiremo per trovarci.

Irrigidirsi appare già nel testo d’apertura («l’irrigidirsi dei propositi / che cristallizzano col fiato», p. 13). L’inverno, che dalle note dell’autrice apprendiamo riferirsi alla piccola era glaciale avvenuta in Europa tra il XVI e XVIII secolo, è in realtà una condizione simbolica in questa prima sezione, e ne è spia la vaghezza di determinazioni spaziotemporali già rilevata da Cellotto: troviamo solo un riferimento enigmatico alla Boemia e all’anno 1709. L’etica della resistenza è resa esplicita in più punti, per esempio nel secondo testo:

Ogni giorno, prima di uscire

mandiamo a memoria gli alfabeti

li prepariamo a concentrarsi

su pensieri di tundra

e la durezza che c’è.

 

Questo estratto suggerisce una vicinanza attitudinale alla poesia di Stevens citata in apertura di recensione, ma anche a un passo da un libro recente, Habitat di Federico Italiano, dove si legge che «il nodo siberiano, solo a stringerlo / effonde dal suo nome / boreale un refrigerio di taiga» (si dà il caso che entrambi i libri sono stati finalisti al Premio Tirinnanzi, e che Habitat abbia alla fine prevalso per un pugno di voti). Al tempo stesso, questo estratto ci consente qualche appunto sullo stile di questa prima sezione. Anzitutto c’è un «noi» indeterminato, collettivo ed evanescente; poi ci sono – ma, sottolineo, perlopiù in questa sezione e in misura minore nella successiva – alcuni stilemi ermetici che rendono l’inizio del libro meno avvincente del resto: gli «alfabeti» da mandare a memoria; «la parola» che «come fede, stenta» del testo successivo a p. 16 (dove agisce quella poetica del silenzio che, dicevo prima, è fortunatamente inadatta a comprendere il libro nella sua totalità); certe metafore genitive astrattizzanti come «nella distesa vasta di scongiuri» (p. 16); combinazione di inversione e soggetto astratto («si pattina sulla piazza di mare / che la morsa inventa», p. 17); marche impersonali come «si è portati», «riuscire a confidare», «si trascina»; una patina di neoclassicismo ritmico dato dalla prevalenza di misure tradizionali, dal settenario all’endecasillabo, con buona rappresentanza di novenari ma anche di ottonari e decasillabi. Si ha dunque una compostezza dignitosa, ben gestita ma a tratti forse un po’ estenuata.

La seconda e più corposa sezione, Il caro enigma (sintagma prelevato da Nella neve di Vittorio Sereni, citato a p. 32: «ma già pioveva sulla neve, / duro si rifaceva il caro enigma», dove non è casuale, di nuovo, il riferimento alla durezza) prosegue stilisticamente la precedente, ma la declina e movimenta nei modi del colloquio: il noi che appare nel primo testo della sezione, a p. 21, è infatti duale («Se una cosa ci accomuna / è la penombra», ma poi si prende parola in prima persona e appare un tu: «mentre tu / continui a dire sono qui»). Continuano le marche tematicamente ermetiche e neo-orfiche della prima sezione, come nel verso della stessa poesia «dove il nome si cela alla radice», o un dominio dell’astratto come nel testo a p. 24 («calma teoria di silenzi», «una sintassi nuova», «i segreti sostano per qualche ora», il decifrare «le rotte degli amanti»); appare, fra le altre cose, il sereniano togliersi di mezzo: in Bidoia «È allora che i morti con cui parlo /si tolgono di mezzo»; in Sereni «un giorno perdoneranno / se presto ci togliamo di mezzo» (da Quei bambini che giocano). Ma già ci sono, dicevo, i primi allentamenti, i primi calori: anzitutto un ritmo cantilenato, con rime interne e consonanze in fine di verso, come nel seguente passo esortativo a p. 25:

Lascia che la vENA

si ricomponga dopo l’abbandONO

e separa il dONO di ognUNO

dalla ferocia che porta in sENO.

 

Poi referenti più concreti, ancorché indeterminati, come «l’uomo che aspettava / davanti al banco della frutta / il suo turno» (p. 22) e che focalizza l’attenzione della voce poetica, oppure «il cane dei vicini» che «è contento e lo fa sapere» (p. 28); soprattutto, l’introduzione di voci altre, segnalate dal corsivo e spesso in posizione incipitaria, e che dalle note apprendiamo essere appartenute a persone conosciute dall’autrice e venute a mancare: «Non essere infelice o sii pure infelice / se devi» (p. 25) o «Siete tutti così intelligenti» (p. 27). Questi lacerti non solo abbassano le punte liricizzanti prima viste – secondo un modus già praticato dal nume tutelare di questa sezione, Sereni – ma soprattutto evidenziano il realizzarsi non posticcio di un colloquio, il dialogo coi morti accennato nella poesia che apre la sezione e già citata in questa recensione. Appuntarsi frasi d’altri, preservarle a lungo nella memoria e renderle pubbliche anni dopo è davvero un modo per farne rivivere i locutori, per realizzare una relazionalità piuttosto che tematizzarla pigramente. L’immaginario del ghiaccio si dirama anche qui, formando una lunga catena di isotopie fra le due prime sezioni: «ghiacci», «cristallizzano», «inverni», «gelata», «congelare», «gelo», «morsa», «lastra» (prima sezione) e «inverno», «lastrica», «raggela», «ghiacciai», «caletta», «nevicare», «coltre», «letarghi», «neve» (seconda sezione). Eppure qui i referenti invernali vengono investiti di senso, usati per leggere le persone: «E se fossero i ghiacciai sciolti in una resa / a somigliarti?» (p. 26; per inciso, «resa» è abbandono, scioglimento, fiducia).

  1. Una dialettica di disciplina e oltranza

Al netto di questa maggiore ospitalità e distensione, la seconda sezione e la prima formano un continuum coeso, e quindi si potrebbe considerarle coma la prima – in ordine di apparizione ma non di valore – anima del libro. Le aspettative cambiano radicalmente con le due sezioni che seguono, e già a livello di impatto grafico-visivo: Ora per allora è un poemetto costituito da brevi paragrafi in prosa spalmati lungo una dozzina di pagine; Finiremo per trovarci è un prosimetro i cui versi vanno dalla misura lunga, neobarbara o esametrica, come nella combinazione di settenario e ottonario («io vedo tutto, io vedo il dolore che si imbosca», p. 55) alla misura brevissima, spesso a suggello di strofa, come il trisillabo «dell’urlo» (p. 62), con effetti barocchi di sbilanciamento e sprigionamento di energie che erano state trattenute lungo tutto il libro. È in questa seconda metà che Scena muta si impenna letteralmente, diventando una delle proposte più valide lette negli ultimi anni. E non solo e non tanto per una maggiore audacia e perfino spregiudicatezza nell’utilizzo di varie strategie formali, ma soprattutto per la concertazione di voci e figure, una sorta di teatralizzazione polifonica che mette da parte il soggetto poetico (quale si rinviene nella seconda sezione), sostituendolo con un memoir dominato da un noi comunitario determinato (Ora come allora) o con un monologo viscerale, sopra le righe, messo in bocca al grande ballerino Vaslav Nijinsky (Finiremo per trovarci) secondo una strategia che sta conquistando altri poeti contemporanei: quella dello studio, filologico ma incarnato, di personaggi storici o di finzione, fatti parlare in vece dell’io biografico come una sua possibilità espansa (penso soprattutto al Don Chisciotte di Andrea De Alberti ne La cospirazione dei tarli e al Cristoforo Colombo di Tommaso Di Dio ne Verso le stelle glaciali). Due estratti, uno da ciascuna sezione, basteranno a farsene un’idea preliminare (alla quale si aggiungano gli estratti in limine a questo saggio breve), vista la sostanziale omogeneità interna di ciascun progetto:

Anche i maestri, come noi, sono partiti da un paese. Mormoriamo più volte al giorno i loro nomi, li cantiamo in una nenia che attenui la distanza e ne culli le fronti. Petre Ciortea, Valentina Massini, Loreta Alexandrescu. Basta avvicinarsi alla loro lingua ignota per salvarli, sostenerla lentamente con la voce. Basta pronunciare il loro nome indiviso come fosse un voto. (da Ora come allora, p. 40)

Il sacrificio è al centro.

La vergine ha capito, manca poco,

le faccio tremare di allarme

le gambe – creaturina sottile, piccola,

arcaica creatura – la faccio tutta tremare,

mentre batte l’impulso degli altri

e stringe l’assedio. Quando muore

è solo il destinato, lo guardano tutti.

Ho vietato ogni lacrima

alla sconvolta. (da Finiremo per trovarci, p. 63)

 

Difficile pensare a due stili più diversi: recupero memoriale privato ma senza nostalgia, riserbo e dolcezza di un noi comunitario in Ora come allora; recupero archivistico tramite libri puntualmente citati nelle note, poi messa in scena debordante, imperiosa, vitalista e disperata di un io altro in Finiremo per trovarci. Eppure i progetti sono inscindibili perché compiutamente speculari: la scuola di balletto classico che fa da sfondo autobiografico alle vicende narrate in Ora come allora insegna la disciplina, il rigore: Ciortea, l’insegnante, in una «lezione di carattere» intima ai «teneri giunchi di indurirsi» (declinazione dell’irrigidirsi che ho indicato come direttrice di lettura del libro) perché «davanti al demone ʺnon si indietreggiaʺ» (p. 41). Disciplina anche formale, perché i blocchi di prosa, rigidamente giustificati, sono tutti di simile estensione. In Finiremo per trovarci i movimenti millimetrati del balletto vengono sfigurati dalla genialità oltranzista di Vaslav Nijinsky che fa coincidere tradimento e fedeltà («Per essermi fedele / devo tradire l’aria di prima», p. 62): «voglio danzare a modo mio», afferma Nijinsky, e lo fa appesantendo i salti, esasperando le posizioni disarmoniche: il risultato è che «la sera del debutto il pubblico inorridisce» (p. 60). Noi non inorridiamo davanti a questo poemetto, che presenta un io – per quanto differito da quello empirico dell’autrice – ipertrofico e viscerale in barba al depotenziamento dell’io e agli strali ideologici diretti contro l’ego di tanto tendenzioso teorizzare poetico oggi. Non inorridiamo ma plaudiamo mentalmente, liberati dalle pose compassate delle prime due sezioni che offrivano poco più di quello che un certo pubblico della poesia si aspetterebbe, perché più agevolmente vi riconosce debiti e un innestarsi, sia pur dignitoso, nella tradizione italiana. Qui Bidoia diventa un po’ Nijinsky, impersonandolo, calca i versi e travolge il lettore: non mi sembra cosa da poco.

 

Immagine: Allora & Calzadilla, Electromagnetic Field, 2020.