Neve e deserto

da | Gen 21, 2022

Quattro poesie inedite.

 

NEVE E DESERTO

La verità è nella neve.
La verità è nel deserto.
La verità è nel silenzio
della neve e del deserto.
Ma se guardo da vicino il deserto,
i mille granelli distinti,
si confonde una verità
che appariva omogenea.
La neve immutabile
si sporca, si scioglie,
e poi scorre via.
Il deserto nasconde
insetti, scorpioni, serpenti,
nei granuli piccoli
di una sabbia
che sembra compatta.
La mente è confusa
dalle forme infinite di vita.
E non scelgo la mia.
Immobile, nella osservazione,
non trovo la mia.

 

*

LUPI *

Io come i lupi
davanti a me sul muro.
Branco inquieto,
nervoso, pensieroso,
in attesa,
sulla china di un monte
circondato da monti
pesanti di neve.
Tensione nei musi protesi,
lo sguardo rivolto alla valle.
Occhi, narici, muscoli, pelo
a affrontare
tra breve
la corsa sfiancante
guidata soltanto
dall’inclinazione
del vento.

Io guardo di nuovo il mio muro,
e avverto la fame di vita,
di membra
di agnelli pulsanti
sgozzati,
imbevuti di sangue.

Il rosso che sporca la neve,
zampe che infrangono ghiaccio,
contorte torsioni nel corpo
lanciato alla caccia,
nelle zanne
che scavano
gole innocenti.

Mi porta la vita come ai lupi
il bisogno,
l’impulso,
la chimica,
l’estro.

Io passo
di tana in tana,
di rifugio in rifugio,
umido, traspirante.
Locale temporanea
Anestesia.
E nel mezzo
gelo, radici, bracconieri.

Sopravvissuta all’inverno,
ho morso anch’io
e lacerato carne.

Ecco l’essenza.
Una bestia nel bene.
Una bestia nel male.

(* Hiroshi Sugimoto)

 

*

BOSCO

Cammino.
A lungo.
Per chilometri al giorno.
Le gambe ubbidiscono.
Modulo il respiro
Sul ritmo dei passi.
La salita si fa dura.
La discesa ripida,
insidiosa.
Il terreno è umido.
Le scarpe amiche.
Il pensiero si oppone
alle cadute.
La terra è spaccata
dal sole
sotto le mie scarpe amiche.
Le dita si gonfiano
di stanco calore.
Il pensiero si oppone
alle cadute.

È un cammino reale
e un cammino interiore.
È metafora ed è concretezza.
È ricerca del sacro
e ricerca del corpo.
È fatica pesante
ed è estraneazione.

In punta di piedi,
il respiro sospeso,
io entro
con trepidazione
nel bosco immenso
del mio pauroso passato.
Mi addentro.
E mi sento a mio agio
nella ricerca costante
di un cammino coerente
tra gli alberi immensi.
Insetti.
Un’aria porosa
di umido e caldo
distoglie la contemplazione
di quello che è stato
di ciò che è avvenuto.
Le mie storie d’amore.
Le mille passioni.
Il lavoro. La scuola.
E più mi allontano dalla radura
che è il mio presente
al confine col bosco
che è il mio passato,
i rami si fanno più fitti.
I tronchi sottili e più alti.
Non penetra luce.
Fino a che mi ritrovo alle soglie
della estesa palude che è la mia infanzia.
Pericoli ovunque.
Non riesco, non riesco,
se non col dolore di mille zanzare malariche
che mi mordono le cosce
ed il viso
e le braccia
e del fango che stringe i miei piedi,
acquitrino melmoso, putrido, maleodorante,
a fare quei passi piccini
che riscuotono in me emozioni potenti.
E poi mi risveglio.
Non sopporto il ricordo.
E torno scontenta
alla radura
che è il mio presente.
Ogni giorno,
ogni notte,
almeno per qualche minuto
mi affaccio o penetro dentro il mio bosco.
Alle volte ci passo le ore.
Alle volte un istante e poi mi riscuoto
perché devo fare.
Perché devo vivere.

Vorrei incontrarti
senza avere memoria.
Vorrei che i tuoi gesti
potessero non rimandarmi
a quel giorno
in cui ero a Parigi,
o in classe
o al lavoro
o a studiare ostiche norme
in linguaggio da adepti.
O a letto con questo o quest’altro mio amante.
Non avere memoria di nulla.
Offrirmi così.
Una spiaggia di sabbia
Alle sei di mattina.
Ti lascerei scrivere
con un asse di legno
marcito e ritorto,
relitto da navi lontane.
Lascerei che i tuoi piedi
segnassero orme
affondate pesanti
col peso del corpo.
E al mattino di nuovo
scoprire che il mare
ha appianato ogni cosa.

Incontrarti
una volta
senza essere io.

 

*

A MONTICCHIELLO

Tra gente sconosciuta.
Idiomi che rimbalzano.
Il tedesco si fa inglese
nella lingua impastata
dal Nobile Toscano
rosso scuro.
Rosso scure le mie labbra
ebbre e scostumate.
La pioggia è un nubifragio
che ci fa prigionieri
dei tavoli di legno,
dei funghi porcini dell’Amiata,
dei cantuccini al vino,
dei pici col cinghiale.
La pietra è saggia e antica.
È bianca. È mura di una casa.
Protegge i corpi esposti
degli europei in vacanza.
La magliettina, il sandaletto,
bermuda e cappellini,
che non conoscono,
non sanno,
non comprendono
l’imponderabile sorpresa
del cataclisma cosmico
e cosmogonico,
di nascita del mondo,
di kaos primordiale
che è la sostanza vera
del fulmine che illumina,
della grandine che batte,
che picchia, che rovina
sulla campagna aperta.
Natura che è nemica.
Alle volte, ancora e nel futuro.

Io mi sento oppressa.
Affronto il mio destino.
Mi addentro nella pioggia.
Le strade sono fiumi.
I piedi, immersi, scivolano.
La gonna si fa pelle.
I capelli son viscidi e nervosi
sulla mia fronte nuda.
Non vedo ma intuisco.
Intuisco il cammino
nel buio più profondo.
I polpacci son duri
ad ogni passo.
Il cuore saldo.
Come sempre, son forte
controvento.
Resisto, vado avanti,
raggiungo il mio obiettivo.

E invece, a ripensarci,
vorrei trovare pace
in una osteria affollata
dove sereni e divertiti
i turisti aspettano che spiova.
Sotto un tetto.
Al calduccio,
col vino buono e il cibo.
E tutti che sorridono,
si scambiano battute.
E invece, a ripensarci,
è sempre quello
il momento
in cui io devo andare.
Apro la porta e vado.
E non mi guardo indietro.
Sempre così ho fatto.
Lasciando cose e case.
Lasciando sempre tutto.