Nell’inganno della soglia

da | Mar 1, 2021

Da Nell’inganno della soglia, a cura di Fabio Scotto, appena uscito per Il Saggiatore, pubblichiamo il poemetto La terra.

 

La terra

Io grido, Guarda,
La luce
Viveva qui, accanto a noi! Qui, la sua provvista
D’acqua, ancora trasfigurata. Qui la legna
Nella rimessa. Qui, i pochi frutti
A essiccare nelle vibrazioni del cielo dell’alba.

Nulla è cambiato,
Sono gli stessi luoghi e le stesse cose,
Quasi le stesse parole,
Ma, vedi, in te, in me
L’indiviso, l’invisibile si radunano.

E lei! non è
Lei che sorride qui («Io la luce,
Sì, io acconsento») nella certezza della soglia,
China, guidando i passi
Si direbbe d’un sole bambino su un’acqua oscura.

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Io grido, Guarda,
Il mandorlo
Si copre all’improvviso di migliaia di fiori
Qui
Il nodoso, il per sempre terrestre, il lacerato
Entra in porto. Io la notte
Acconsento. Io il mandorlo
Entro agghindato nella stanza nuziale.

E, vedo, mani
Di più in alto del cielo
Afferrano
Come passa un’ondata, in ogni fiore,
La parte imperitura della vita.

Dividono la mandorla
Quietamente. Toccano, ne estraggono il germe.

Lo portano via, già granito
Da altri mondi,
Nel per sempre dell’effimero fiore.

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O fiamma
Che consumando celebri,
Cenere
Che disperdendo raccogli.

Fiamma, sì, che cancelli
Dal tavolo sacrificale dell’estate
La febbre, i sussulti
Della mano irrigidita.
Fiamma, perché la pietra del cielo chiaro
Sia lavata della nostra ombra, e che sia
Un dio bambino che giochi
Nell’asprezza della linfa.
Mi chino su di te, raccolgo, in ginocchio,
Fiamma che vai,
L’impazienza, l’ardore, il lutto, la solitudine
Nel tuo fumo.
Mi chino su di te, alba, prendo
Tra le mani il tuo viso. Che bel tempo
Sul nostro letto deserto! Sacrifico
E sei la risurrezione di quel che brucio.

Fiamma
La nostra stanza dell’altr’anno, misteriosa
Come la prua d’una barca che passa.

Fiamma il bicchiere
Sul tavolo della cucina abbandonata,
A V.
Tra le macerie.
Fiamma, di sala in sala,
Il gesso,
Tutta un’indifferenza, illuminata.

Fiamma la lampada
In cui mancava Dio
Al di sopra della porta della stalla.
Fiamma
La vigna del lampo, laggiù,
Nello scalpiccio delle bestie sognanti.
Fiamma la pietra
Dove il coltello del sogno ha tanto lavorato.

Fiamma,
Nella pace della fiamma,
L’agnello del sacrificio risparmiato.

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E, tardi, io grido
Parole che il fuoco accetta.

Io grido, Guarda,
Qui ha deposto un sale ignoto.

Io grido, Guarda,
La tua coscienza non è in te,
L’entroterra del tuo sguardo
Non è in te,
La tua sofferenza non è in te, ancor meno la tua gioia.

Io grido, Ascolta,
Una musica è cessata.
Ovunque, in quel che è,
S’alza il vento e scioglie.
Oggi la distanza tra le maglie
Esiste più delle maglie,
Noi buttiamo una rete che non pesca.
Finire, ordinare,
Più non lo sappiamo.
Tra l’occhio che s’accresce e la parola più vera
Si strappa la fodera del terminabile.
O cancellature, o ruggini
In cui la traccia dell’acqua, quella del senso
Divengono illimiti riassorbendosi,
Dio, parete nuda
In cui l’erosione, l’intaglio
Hanno lo stesso aspetto deserto al fianco del mondo.
Com’è tardi!
Si vede un dio spingere qualcosa come
Una barca verso una riva ma tutto muta.
Scoramenti sulla strada degli uomini,
Calpestii, clamori sotto il cielo.
Qui l’altrove stringe
La mano operosa
– Ma quando devia nel tratto oscuro,
È come un’alba.

Guarda,
Qui, sulla landa del senso,
A qualche metro dal suolo,
È come se il fuoco avesse preso fuoco,
E questo secondo braciere, spossessamento,
Come se prendesse ancora fuoco, nell’alto
Della stoffa di quel che è, che il vento rigonfia.
Guarda,
Il quarto muro si è smurato,
Tra esso e la pila del lato nord
C’è posto per i rovi
E le bestie furtive di ogni notte.
Il quarto muro e il primo
Si sono accostati alla catena,
Il sigillo della presenza è esploso
Sotto l’ondata rocciosa.
Entro quindi per la breccia dal rapido grido.
Sono due combattenti che hanno mollato la presa,
Due amanti che ricadono implacati?
No, la luce gioca con la luce
E il segno è la vita
Nell’albero della trasparenza di quel che è.

Io grido, Guarda,
Il segno è diventato il luogo.
Sotto il portico di lampo
Crepato
Siamo e non siamo.
Entra con me, oscura,
Accetta attraverso la breccia il grido di fame.

E siamo l’uno per l’altro come la fiamma
Quando si stacca dalla fiaccola,
La frase di fumo leggibile per un istante
Prima che si dissolva nell’aria sovrana.

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Sì, tutte le cose semplici
Ristabilite
Qui e là, sui loro
Pilastri di fuoco.

Vivere senza origine,
Sì, adesso,
Passare, con la mano crivellata
Di vuoti bagliori.

E ogni attaccamento
Un fumo,
Ma che vibra chiaro, come un
Bronzo risuonante.

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Ritroviamoci
Così in alto che la luce quasi debordi
Dalla coppa dell’ora e del grido confusi,
Un gocciolio chiaro, in cui non rimane
Che l’abbondanza in quanto tale, designata.
Ritroviamoci, prendiamo
A pugni la nostra pura presenza nuda
Sul letto del mattino e sul letto della sera,
Ovunque dove il tempo scava il suo solco,
Ovunque dove l’acqua preziosa evapora,
Comportiamoci l’uno verso l’altro come infine essendo
Ciascuno tutte le bestie e le cose,
Tutti i sentieri deserti, tutte le pietre,
Tutti i flussi d’acqua, tutti i metalli.
Guarda,
Qui fiorisce il nulla; e le sue corolle,
I suoi colori albali e serali, i suoi contributi
Di misteriosa bellezza al luogo terrestre
E anche il suo verde scuro, e il vento tra i rami,
È l’oro che è in noi: oro senza materia,
Oro del non durare, del non avere,
Oro dell’aver acconsentito, sola fiamma
Al fianco trasfigurato dell’alambicco.

E tanto vale la giornata che volge al termine,
Così preziosa la qualità di questa luce,
Così semplice il cristallo un po’ ingiallito
Di questi alberi, di questi sentieri tra sorgenti,
E così appaganti l’una per l’altra
Le nostre voci, che ebbero sete di ritrovarsi
E hanno errato fianco a fianco, a lungo
Interrotte, oscure,

Che puoi chiamare Dio questo vaso vuoto,
Dio che non è, ma che salva il dono,
Dio senza sguardo ma le cui mani riallacciano,
Dio nube, Dio bambino e ancora non nato,
Dio vascello per l’antico dolore compreso,
Dio volta per l’incerta stella del sale
Nell’evaporazione che è la sola
Intelligenza qui che sappia e provi.

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E le nostre mani cercandosi
Siano la pietra nuda
E la gioia condivisa
La bracciata d’erba

Poiché benché tu, e io
Gridanti non siamo
Che un anello di fuoco chiaro
Disperso dal vento

Sicché non si saprà
Presto in cielo
Se mai abbia avuto luogo questo grido
Che ha fatto nascere,

Tuttavia, trovandosi,
Le nostre mani acconsentano
Ad altre eternità
Ancora al desiderio.

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E nostra terra sia
L’interminabile
Luce della falce
Che afferra la schiuma

E non perché è vero
Il suo unico lampo,
Benché il vuoto, chiaro,
Sia il nostro giaciglio

E noi due accanto,
Semplici, non vi siamo
Che denso fumo
Del sacrificio,
Ma per la sua ricaduta
Che ci unisce,
Grano della trasparenza,
Ancora al desiderio.

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Eternità del grido
Del bambino che pare
Nasca dal dolore
Che si fa luce.

L’eternità scende
Sulla nuda terra
E rialza il senso
Come una vanga.

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Ed ecco, il bambino
È qui, nel mandorlo,
In piedi
Come molti vascelli che giungano in sogno.

Sale
Tra luna e sole. Tenta di piegare verso di noi
Nel fumo
Il suo fuoco, ridente,
In cui l’angelo e il serpente hanno lo stesso volto.
Offre
Nel ciuffo delle parole, in fiore,
Una seconda volta il frutto dell’albero.

E già il muratore
Si china verso l’estrema luce.
La sua vanga ne raccoglie le macerie
Per l’impossibile colmata.

Raschia
Con la sua vanga fosforescente
Quell’altro cielo, fruga
Con il suo attrezzo che precede il nostro sogno
Sotto i rovi,
Al livello del fuoco e dell’increato.
Strappa
Il bianco ciuffo del fuoco
Al battito dell’increato tra le pietre.

Tace.
Il mezzogiorno delle sue poche parole è ancora distante
Nella luce.

Ma, tardi,
Il rosso stinto del cielo
Gli basterà, per l’eternità del ritorno
Nelle pietre, ispessite
Dall’attrazione per le cime ancor chiare.

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Non essendo che la potenza del nulla,
La bocca, la saliva del nulla,

Io grido,
E al di sopra della valle di te, di me
Rimane il grido di gioia nella sua pura forma.

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Sì, io le pietre della sera, illuminate,
Io acconsento.
Sì, io la pozza
Più ampia del cielo, il bambino
Che ne rimesta la melma, l’iride
Dai riflessi senza riposo, senza ricordi,
Dell’acqua, io acconsento.

E io il fuoco, io
La pupilla incendiata, nel fumo
Delle erbe e dei secoli, io acconsento.

Io la nube
Io acconsento. Io la stella della sera
Io acconsento.

Io i grappoli di mondi che son maturati,
Io la partenza
Dei muratori attardati verso i villaggi,
Io il tossire del furgoncino che si perde,
Io acconsento. Io il pastore,
Spingo la fatica e la speranza
Sotto l’arco della stella verso la stalla.
Io la notte d’agosto,
Preparo il giaciglio delle bestie nella stalla.
Io il sonno,
Prendo il sogno nelle mie barche, io acconsento.

E io, la voce
Che ha tanto desiderato. Io il mazzuolo
Che urtò, a sordi colpi,
Il cielo, la nera terra. Io il traghettatore,
Io la barca di tutto attraverso tutto,
Io il sole,
Mi fermo alla cima del mondo nelle pietre.
Parola
Scrocifissa. Canapa dell’apparenza
Infine macera.

Pazienza
Che ha voluto, e saputo.
Corona
Che ha diritto di bruciare.

Pertica
Di chimere, di pace,
Che trova
E sfiora dolcemente, nel flusso andante,

Una spalla.

Yves Bonnefoy (1923-2016) è stato professore emerito al Collège de France di Parigi, poeta, prosatore e saggista. Ha tradotto Shakespeare, Donne, Keats, Yeats, Petrarca, Leopardi, Pascoli ed è autore di studi fondamentali sulla poetica e sull'arte. Ritenuto oggi il massimo poeta francese vivente, più volte candidato al Nobel per la letteratura, ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti internazionali. In Italia ha pubblicato diverse raccolte: Movimento e immobilità di Douve (1969), Ieri deserto regnante (1978), Pietra scritta (1985), Nell'insidia della soglia (1990), Quel che fu senza luce. Inizio e fine della neve (2001), Le assi curve (2007), L'ora presente (2013). Il volume L'opera poetica, a cura di Fabio Scotto, è apparso nei Meridiani Mondadori nel 2010.