“Accelerazioni Temporali”: intervista a Mattia Barbieri (Milano Under 35 – La poesia incontra la pittura /4)

da | Feb 28, 2014

[Proseguono gli appuntamenti di “Officina poesia” dedicati all’incontro tra poesia e arti figurative. Proponiamo oggi la terza intervista di un ciclo di conversazioni tra Tommaso di Dio e alcuni pittori Under 35 che lavorano a Milano. Fotografia e video di Flavio Pescatori.]

A discapito delle apparenze: ecco un’espressione che ben si attanaglia a questo pittore di perfetto sangue lombardo. È nato a Brescia nel 1985, ma in realtà la sua data di nascita potrebbe essere agilmente anteposta nel 1498 oppure nel 33.000 a.C., tanto la sua pittura riesce a tenere insieme il cuore del rinascimento e la più antica pratica sciamanica, quando la pittura era questione intestina e verace predizione nel ventre buio delle montagne. Barbieri è dotato di un’abilità pittorica che lo conduce a tentar sempre il visibile, a provocarlo, affinché si apra, a tutto campo, la sfida più antica che l’arte conosca: la sfida all’apparenza. Essa, liberata infine da sé, nella pittura di Barbieri si prende l’agio di osare con leggerezza la soglia dell’onirico. Attraverso un amore mastodontico del minimo dettaglio della realtà, della minuta particola fiamminga, egli supera le barriere del realismo e ci porta al dubbio e alla meditazione sull’inganno, al trasalimento e alla trasfigurazione: nel luogo dove il segno è il sogno più vero della ragione.

Sono andato a trovarlo in un soleggiato pomeriggio, in un composto e quasi elegante quartiere di Milano Est, inondato da un caldo innocente e incapace. Qui ancora regna la più assoluta quiete e calma è la via, ma, poco più in là, la città sfinisce in campagne e svincoli autostradali, in intricate aperture e gorghi civici fino a che affoga nell’artificio supremo e minaccioso dell’Idroscalo. Il nome di questa strada è quello di un famosissimo incisore veneto che ha reso più grande e più solitaria la distruzione di Roma nelle mani del Tempo; e l’opera che Barbieri ha fin qui condotto potrebbe essere letta anche come una meditazione sul tempo, il Tempo contraddetto, sintesi unitaria e stratificazione di gesto dopo gesto. Il suo studio, pur essendo sotterraneo e bivalve, è il più benedetto dalla luce del sole che fin qui ho visto. Questo spazio – che non è casa e non è chiesa e che vuol fare invece le veci di una caverna che sia anche laboratorio alchemico – è accecato da un fascio che oserei dire di ragionevolezza: il pittore, qui, non cede e carezza, non indietreggia eppure interroga, meticoloso, la sragione di ogni proprio gesto.
Entriamo; e superata la porta ci troviamo di fronte al bianchissimo nulla delle pareti; nessun quadro, nessun colore, solo tele bianche e telai: siamo nell’attimo prima di ogni nascita.

Mattia, non vedo qui i tuoi quadri… dove sono?

Li tengo in un magazzino a Brescia… se facessi altrimenti, questo posto sarebbe solamente pieno di quadri! Qui ci sono le prove, gli ultimi e i nuovi: i quadri che non sono ancora.

Hai appena imbiancato. E ci sono queste tavole ancora completamente bianche…

Si, vergini, ma qualcosa c’è… ecco, questo è dell’ultima personale “Pitture domestiche”, una mostra che si è sviluppata in due round: il primo da Federico Luger qui a Milano, e in seguito presso lo Studio Tommaseo, in collaborazione con Trieste Contemporanea.

Io conosco soprattutto i quadri di questa serie (“Pitture domestiche”), così complessi, pieni di frammenti e di livelli. In quest’altro invece qualcosa mi sembra cambiato…

Si, infatti io lavoro per cicli e il più recente si è concluso con questa mostra di Trieste. Il momento è stato fermato. Prima di “Pitture domestiche” ci sono altre serie, tra cui una di opere prevalentemente bianche, prima ancora un ciclo dedicato al seicento, piuttosto che ad interni da cui si intravvedono paesaggi lontani, per retrocedere fino ad un’altra serie dedicata a Burroughs. A tal proposito, senza farlo apposta, il critico Nicola Cecchelli, che ha scritto di questa recente mostra, lo ha citato introducendo il testo con un estratto del “Pasto nudo”…

Io adoro Burroughs! Mi sembra che ci sia una sua influenza qui, la tecnica del cut-up…

Anche a me piace moltissimo. Grande personaggio, poi. Più che il “Pasto nudo”, adoro “La città della notte rossa…” La sensazione del cut-up in effetti qui, è molto viva. Frammenti, riverberi, incongruenze che convivono in questo caos “organizzato” riformulandosi a vicenda.

Si vede: la costruzione per sovrapposizioni e accostamenti. Ma queste sovrapposizioni in quanto avvengono?

Avvengono in tanto tempo… all’incirca, per fare un quadro di questo tipo, ci metto un mese…

Si sedimentano in maniera spontanea?

Si, nascono con il presupposto di non avere alcun limite di rappresentazione. Non sono per niente pianificati e si sviluppano man mano che il quadro avanza nella realizzazione. Un work in progress che nasce nel tentativo di sovrapporre più tipologie di segno e di immagini, senza preoccuparmi di una “gerarchia” o di una dominante ben precisa. La questione del soggetto è primaria quando si dipinge. Ma io trovo inutile selezionarne uno in particolare. Preferisco far emergere un discorso legato al medium, al suo utilizzo, a ciò che comporta. Non dipingo nel tentativo di proporre un soggetto evocativo. Questo è stato fatto da milioni di anni nella storia della pittura. Forse in passato per me è stato diverso, perché ho voluto costruire un discorso mirato. È facile comporre un bel quadro. Io ho fatto il pubblicitario e lì ti insegnano a calibrare i pesi e a comporre un’immagine efficace. Tutte quelle cose che servono per fare delle immagini bilanciate… basta solo applicare delle regole… e a me qui non mi andava di applicare alcuna regola decisa a priori.

Di che periodo è questa serie?

È nata a cavallo tra il 2012 e il 2013.

È recente…

Ci sono dei periodi in cui va veramente a sensazioni. Non so esplicitare una sensazione a parole. Non lo so fare, altrimenti non farei Pittura, ma praticherei la scrittura.

Eppure ci sono tante parole nei quadri di questa serie…

Le parole mi piace inserirle: sono scritte con il pennarello indelebile. La cosa che mi piace di questa serie è che io potevo entrare in studio in qualsiasi momento, in qualsiasi ora, e aggiungere anche solo un piccolo dettaglio. Decidere di dipingere un quadro antico e poi aggiungere uno scotch, farlo sembrare attaccato alla tavola. Allo stesso modo, con l’indelebile, potevo scrivere quello che mi passava per la testa in quel momento: anche una frase, una parola. Considero la scrittura una componente che ha la stessa importanza di un frammento che evoca una pittura rinascimentale, piuttosto che un graffio rozzo che scalfisce l’occhio di un santo, o una larga pennellata monocroma che divide un pattern dal bordo della parete.

Qual è il supporto su cui lavori in questa serie? Con cosa lavori?

Sono tavole. Qui è tutta pittura.

Quindi tu procedevi inserendo nel quadro ogni cosa che di volta in volta desideravi?

Sì. Per me dipingere è come aprire un mezzo (in questo caso quello della pittura, anche se il mio lavoro non comprende solo pittura) e iniziare a sovrascrivere. Prendere quel mezzo e cercare di fargli fare le… le acrobazie. Tentare di declinarlo in tutti i modi, di portarlo ai limiti.

Prendere un mezzo e spingerlo al massimo?

Sì, spingerlo fino all’estremo. Questa è una serie molto carica, molto satura di informazioni, di tipi di segni, di ispirazioni e anche di iconografie di diversa natura, come per esempio la pittura antica (che è una ricorrenza molto forte). È come se tentassi di rappresentare lo spirito della pittura. Lavoro sui generi, il paesaggio, il ritratto, la natura morta, e li ricapitolo tutti in un solo quadro.

In questi tuoi lavori è come se tentassi di riallacciarti ad un progetto più antico di te…

Sì, una linea del tempo che non si propone in modo progressivo o regolare, ma che si lascia cogliere senza distinzioni tra passato presente e futuro.

Hai lavorato anche a partire dalla tua memoria personale? Come decidevi cosa inserire? È solo istinto, estro o c’è una ricerca precisa? Noto che ci sono anche diversi ritratti…

Ci sono cose che appartengono a tutta una serie di eventi intimi, privati; diciamo: una mitologia personale. William Blake oppure la figura di Paracelso, per esempio, ritornano spessissimo. Paracelso ad esempio l’ho ritratto davvero tante volte… qualche anno fa ho letto “Paragranum” e mi ha colpito tantissimo; e poi l’ho riletto e mi è ritornato: dipende tutto da quello le circostanze propongono, da che vivo e da quello che in un determinato periodo domina nella mia quotidianità.

Allora anche le scritte sono legate a questa ricerca sulla tua memoria?

Sì. Più che altro sono un filtro di un vissuto personale, attuale o passato. Magari futuro, non lo so…
Per i primitivi dipingere era un atto magico, nel vero senso della parola. Anche nella mia pittura, tra le altre cose, è presente quest’aspetto, quasi come se avessero un valore apotropaico. Rappresento così lo posseggo. Così vale per la presenza di Paracelso, ma può accadere con qualsiasi cosa, per esempio un paio di scarpe… la pittura è per me come un’organizzazione del mondo, ma tutta ricapitolata nell’intimo del mio studio. Chissà cosa penso quando dipingo… (ride)

Come hai lavorato in questa serie?

Soprattutto in questa serie, tutto si è materializzato in maniera molto naturale. La cosa bella della pittura è che si può tradire ogni apparenza, soprattutto dal punto di vista semantico. Voglio simulare uno scotch e allora dipingo la sua ombra, la sua lucentezza, quel marrone, il suo fondo opaco e il nastro lucido… sedimentare, sovraccaricare, accelerare, spesso anche a vuoto, perché la pittura è nata in una grotta, è parietale e di conseguenza bidimensionale. È una riflessione sulla bidimensionalità della pittura e sull’origine dell’immagine.

Fra origine viscerale della pittura e sua estrema finzione, quindi…

Quindi non ha importanza! (ride) non è la scritta sul muro dei writers, non è un collage dada.

Anzi, a me pare che prendi un po’ in giro la tecnica dei writers … sembri fargli il verso!?

Alcuni graffiti mi piacciono, anche se in realtà non rientra nel mio concetto di Arte. Comunque, non c’entrano nulla con il mio lavoro. È un modo di fare pittura, sicuramente, ma che non mi appartiene. Dipingere un quadro che sembri una porzione di muro per me è un modo per concentrare elementi distanti tra loro, quasi come se non dipendessero dalla volontà di una sola persona, ma come se fossero intervenute più mani.

È come uno spazio collettivo, allora? Casuale?

Casuale sì, ma, in parte, guidato da me. Non è un procedimento totalmente casuale, perché il quadro lo faccio io. Non credo ci sia molto di fortuito. La pittura spesso suggerisce la mossa da farsi subito dopo quella appena compiuta; sta poi al pittore interpretarla, farla emergere e valorizzarla. Quando dico che c’è una guida, intendo dire che, pur nella libertà assoluta, decido di far andare il quadro in una certa direzione. È un orientamento in progressione. Inizio da un frammento, da un angolo a destra, magari dipingendo una fotografia che ritrae “il nonno a pesca” e poi la cosa degenera…

Degenera?!

Sì sì, degenera (ride), almeno in questo ciclo pittorico. Come nel caso di una putrefazione controllata, a cui io concedo spazio per tirar fuori il “carattere” del dipinto. In altre serie predominava un gesto più secco, in altre più scarno, in altre ancora più diluito… quadri fatti in un quarto d’ora.

Anche in questa serie i singoli dettagli sono fatti in maniera rapida, oppure no?

Io credo di poter avere molta pazienza; ma non sono un tipo troppo troppo minuzioso. Gli scotch – se guardi con attenzione – si vede che sono dipinti e li volevo così: non sono iperrealista. Alcuni dettagli sono rapidi, perché volevo che si vedesse la finzione. Il risultato finale, quello che si vede a quadro ultimato, nasconde tantissimi livelli, tantissime immagini, magari già complete che già appagavano una mia percezione di equilibrio. Molti di questi quadri potevano essere finiti in largo anticipo, ma a me non piace innamorarmi subito di quello che faccio e amo cancellare anche ciò che sembra possa funzionare.

Dunque è il Tempo quello che si vede nelle tue opere. Un tempo che non è solo costruzione, ma anche distruzione del visibile…

(Mattia indica alcuni dettagli delle proprie opere). Vedi questo quadro: è stato finito almeno 5 volte… era pieno pieno; poi ho deciso di imbiancarlo quasi tutto e l’ho raschiato con una levigatrice. Non si legge più quello che c’era sotto: si vede soltanto questa piccola immagine…

Si legge solo il fantasma di quello che è stato?

Sì, sì: il fantasma!

Quando ci si ferma, allora, Mattia?

Intendi quando uno sa che si è finito? Volendo si può andare avanti all’infinito…

Prima parlavamo della scrittura. E tu hai detto che “la scrittura è il tradimento della pittura”. Però la scrittura è un gesto simile alla pittura, cioè un segno iconico, un dipinto decaduto?

Certo, è vero. Un segno è un segno. Nel momento in cui tu scrivi appare una scritta a matita ed è una scritta a matita, non simula la scritta a matita: è proprio lei. Altri segni non presentano questo grado di realismo, tale da tradire l’illusione. Solo le scrostature, forse… queste sono abbreviazioni temporali: un muro ci mette 50 anni a scrostarsi, io qui nel quadro ci impiego 3 minuti…

Trasformi la pittura in un acceleratore del tempo!?

Diciamo così. Questi quadri sono Accelerazioni Temporali…

C’è una grande tradizione di pittori che tentano la simulazione della scrittura: nella pittura antica era uno dei massimi virtuosismi. Tu invece hai deciso di saltare questo passaggio: tutto è eseguito in maniera estremamente simulata, al limite del virtuosismo, mentre sulla scrittura hai deciso proprio no, di scrivere veramente. Perché?

Non sento l’urgenza di dimostrare un virtuosismo. Per me scrivere è un altro modo di fare un segno. La pittura è mista e invade lo spazio. Vedi, i telai sono molto spessi, la pittura gira proprio attorno al telaio. Anche ai lati sono dipinti, come se la pittura fosse stata proprio girata sopra, come avvinghiata al supporto. Come se si materializzasse un luogo.

È una cosa che mi fa sorridere… si è fatto tanto nella storia della pittura del ‘900 per separare il quadro dal muro, affinché l’opera non fosse decorativa rispetto al muro. Tu invece fai proprio muri!

Nel ‘900 si è fatto molto per far uscire la pittura dal quadro; mentre qui io ho voluto far entrare tutto nel quadro. La “rappresentazione” coincide con il “rappresentato” .

Prima hai detto che la pittura crea un luogo. Tu fai anche scultura; e la scultura occupa più chiaramente un luogo rispetto…

Anche la pittura, però…

Ah. La pittura occupa uno spazio?

Sì, ma diversamente. La scultura rispetto alla pittura, intendo. Il mezzo deve essere scelto in funzione di ciò che si vuole comunicare. Decidere quale ti è più congeniale. Per esempio, l’ultima scultura che ho fatto è un ramo d’ulivo molto sottile: scolpito da cima a fondo, con volti, figure umane e piccole colonne tortili. Qualche anno fa, invece, ho fatto un rotolo di 50 metri, che ho poi diviso in tre parti. é un rotolo completamente disegnato, da cima a fondo. E lì, come il ramo d’ulivo, l’ho presa come una sfida. La mattina mi sono svegliato, avevo questo rotolo e ho iniziato a disegnare. Mi sono fermato solo per mangiare a pranzo e a cena e per dormire. Ma ho continuato dalla mattina alla sera: l’ho fatto in tre giorni, ecco perché l’ho diviso in tre. Ognuno di questi frammenti è quello che sono riuscito a fare in una giornata di lavoro. Un tempo biologico. La cosa diventa quasi come un mantra: la ripetizione. Tu ti lasci andare, ma rimani con una concentrazione altissima. Il rotolo, il ramo, il muro. Per esempio i rotoli sono stati fatti, fotografati (in bianco e nero), arrotolati e riposti in contenitori cilindrici che sono stati chiusi e nessuno li vedrà mai.

Quindi sono diventati fotografia?

Sì, però io li considero solo una documentazione. Piuttosto sono diventati scultura! In ogni caso volevo che l’opera diventasse solo il formato di un’esperienza. Una sfida.

Assomiglia alla famigerata “Linea di lunghezza infinita” di Piero Manzoni…

Diciamo che una linea riesci ad immaginartela; mentre è impossibile farlo per i miei rotoli: nessuno può immaginare cosa c’è…

Come la tomba di un faraone!

Come i Mandala che vengono distrutti una volta finiti; rappresentano uno spazio puramente mentale! Io penso che il mio ramo e i miei rotoli e i miei muri abbiano a che fare con il Mandala…
Oppure sì, esatto, come le antiche fiabe egizie, riprese poi dai greci, oppure dal famoso libro dei morti che non era altro che una formula per conquistare l’Immortalità. Sai, mi viene in mente il lungo rotolo di Jack Keruac su cui scrisse “On the road”…ne ho letto l’edizione integrale la scorsa estate. Quella è una scrittura sfrenata, vera, disinibita e una punteggiatura che definisce un ritmo spigoloso e bruciante, autentico on the road.

Cosa hanno in comune con il Mandala?

La distruzione, la concentrazione, il fatto che non possono essere visti. Una pratica volta alla costruzione del sè.

Però, rispetto al Mandala, nelle tue opere manca il vuoto centrale…

Qui manca un centro: è un caos che si organizza a mano a mano che avanza…. è un insieme di azioni. Non ho pensato di fare un “quadro”, non ho cercato di fare un paesaggio. Per me dipingere è stato accumulare una serie di azioni. Quando finiscono? Quando divento insofferente alla sua presenza…

Che ruolo ha la letteratura nel tuo lavoro?

Credo che la presenza della letteratura sia molto forte nel mio lavoro, dal momento che occupa la mia quotidianità e quindi interferisce e alimenta ciò che faccio.. Le poesie di Verlaine e di William Blake si alternano ai momenti di azione. L’Upanishad o titoli di antichi libri religiosi, appartenenti soprattutto alla cultura orientale, compaiono spesso nei miei quadri. Milarepa o il Folle Divino protagonisti delle storie tibetane, spalleggiano il nome di Zeus Ammone, di Dioniso o di Van Basten, il calciatore. Recentemente qui in studio ho letto “Zadig” di Voltaire, che ha determinato il destino,appunto, di diversi nuovi lavori.

Che rapporto hai con chi guarda le tue opere? Perché mi sembra che siano molto intense, c’è tanto da vedere, ma sono anche dense: difficilmente permeabili… l’altro che guarda dove entra nella tua opera?

Interessante domanda. Non lo so. In effetti non ti so rispondere. Per me è guardare questa opera è ricordare tutto quello che è stato fatto per arrivare qui. La pittura non è fatta perché qualcuno vi trovi un compiacimento. A me interessa che si visualizzino (al limite: che si fantastichino) la moltiplicazione dei gesti che hanno condotto fino a questo punto l’opera. Lo spettatore deve rivivere l’insieme di pratiche, l’opera è un insieme di pratiche fra loro intrecciate.

Lo stesso è per il ramo d’ulivo scolpito?

Per me il ramo d’ulivo è – se devo confessarti la componente intima di questo lavoro – come un’antenna che serve a darmi, diciamo: il potere pittorico; avendoci lavorato per tanto tempo, molto tempo e con molta concentrazione; è come se io l’avessi “pregata” questa cosa: è come una bacchetta magica…

Per caso, questo centra con la tua passione per la pittura del paesaggio?

È il tentativo di individuare l’Origine. Sono Lombardo. E la tradizione pittorica legata al paesaggio è molto vasta e dipingere un paesaggio mi è funzionale nel momento in cui devo esplicitare i luoghi dell’Origine appunto e al contempo fare un discorso sulla pittura, sui sui mezzi e sui suoi generi. Amo gli anonimi lombardi e ho una divinazione per Alessando Bonvicini, conosciuto anche come il Moretto da Brescia.

Cosa stai dipingendo adesso?

È un momento di transizione. Credo che nel prossimo ciclo focalizzerò la mia attenzione sulla Veduta, non intesa necessariamente come angolo di natura o di paesaggio, ma in un senso più esteso, come qualcosa che è legato all’atto del vedere. Mi viene in mente un brano dell”Artefice” di Borges, in cui si parla di un Impero e della sua pianta. Questa ha lo scopo di documentarlo ma in realtà, a causa dell’insoddisfazione dei cartografi, la rappresentazione continua a crescere sino a diventare in scala uno a uno. Coincideva perfettamente con il luogo! Borges conclude immaginandola disfatta e abitata dalle belve feroci…in pittura spesso avviene la stessa cosa, per cui il medium è il messaggio e il resto preferisco non dirlo, lasciamolo alle belve feroci… (ride)… Un vero pittore è colui che pensa in pittura, lo ha detto Paul Cézanne.

Grazie Mattia, a presto!

(Milano, settembre 2013)

La rubrica “La poesia incontra la pittura” ha fino ad ora proposto:
“La ragione è tutta pittorica”. Intervista a Linda Carrara (Milano under 35 – La poesia incontra la pittura /1)
“E’ come capire che un quadro è finito”. Intervista a Giulio Zanet (Milano under 35 – La poesia incontra la pittura /2)
“Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”: il libro a cielo aperto di cyop&kaf (La Napoli dei writers – La poesia incontra la pittura /3)

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).