Maurizio Cucchi, “Rebus macabro” & gli altri EDB

da | Lug 29, 2014

Una storia della specie, della nostra specie: umana, individuale, collettiva, sociale, endemica. Maurizio Cucchi, a breve distanza da Malaspina, affida alle edizioni EDB curate da Alberto Pellegatta, la parabola intersoggettiva di Rebus macabro: un titolo parlante se lo si legge di traverso, guardando la superficie nera del volumetto. Ci sono tutti i suoi elementi naturali: la ruvidità della lingua; la generazione delle cose per attrito; lo sguardo affettivo delle parole; il bassorilievo brulicante, denso di materia, dell’emozione, lucida e concreta – per usare aggettivi a lui cari, ma non senza motivo. C’è da dire, inoltre – in via affatto preliminare – che questo Rebus («libro allegro e micidiale», per citare Pellegatta) si compone su livelli diversi, approfondendo in maniera quasi storica il percorso ultimo della poesia di Cucchi: quel suo retrocedere fino alle radici, quello scavare fino alla sostanza che è oggetto della sua ultima produzione, qui si traduce nel recupero non archivistico ma funzionale di alcuni reperti del suo passato. C’è un nucleo di testi che arriva direttamente dalla plaquette Paradossalmente e con affanno stampata nel 1971 da Teograf; ci sono altri testi in prosa nati come monologhi per il Teatro No’hma di Livia Pomodoro, dove la saggezza passa da ipotesi contemplativa a ipostasi di ogni possibile azione: «La verità è invisibile e sparsa, e tocca a noi saperla afferrare e crederci, giorno per giorno». Chi è di scena? Un soggetto compresso e senza fiato, reduce e dalla vita e promotore, con ogni mezzo, dell’economia del dettato, che porta su di sé come incisione viva delle immagini e, prima ancora, come quello stesso meccanismo d’impressione che tende a cancellare l’io per tramutarlo in qualcosa di universale: «La materia grumosa,/ lastre di materia su altre,/ sovrapposte, lastre di materia./ Miriadi infinitesimali di tracce/ ricomposte/ tra luce e cupa oscurità/ che tende a cancellarci/ nella materia cieca/ che annienta, indifferente,/ ogni ipotesi umana». Eppure c’è spazio anche per la leggerezza, quella dei due movimenti intensissimi che descrivono Taddeo e Gioacchino, due criceti: sono loro che dopo l’annientamento, testimoniano qualcosa di redivivo, di animale e per questo di infinito, come se nel minuto che cancella qualcosa si eternasse per sua virtù implicita, agli occhi di un qualche destino («Chissà davanti a chi, tanto velocemente, scorrerà dall’inizio alla sua fine anche la nostra [vita], di tanto fulgida, mirabile esistenza irripetibile …»). Da qui, dal presente della scrittura, si piomba nuovamente indietro per via sintattica, fino al testo del 1971 da cui deriva il titolo della raccolta, una poesia d’amore, o di quello che si lascia intendere per dire che abbiamo bisogno delle presenze per essere vivi e per misurarsi con la realtà che ci appartiene: «Misurare il grado, l’indice/ della mia vitalità in un momento della giornata/ non è più un quiz, un rebus macabro/ da risolvere tenendo l’occhio fisso al vuoto/ che ogni più piccola scossa finisca per provocare,/ intuisci. Ma è ben piuttosto, si indovina,/ confrontare me con te nel modo più esemplare,/ vederti qui in persona./ E le peregrinazioni,/ con l’incredibile vanità e scontato fallimento,/ di ogni più ridicola spedizione,/ ne sono la prova inconfutabile,/ vedi bene …».

Secondo i tratti distintivi di questa collana poi, il Rebus macabro di Cucchi si accompagna ai disegni dello scultore Alberto Ghinzani, come a richiamare quel dialogo mai interrotto fra scrittura e materia, come si diceva in apertura. Vero è che questo libro di Cucchi, insieme a quello dedicato a Leopoldo María Panero, Il cervo applaudito, rappresentano le punte di diamante, in qualche modo le costellazioni fisse, intorno a cui ruota per intero – almeno fino ad oggi – la collana «Poesia di ricerca» di EDB. Pellegatta, nel suo ruolo di curatore, ricorda l’impegno profuso da Giovanni Raboni, assieme a Maurizio Cucchi, nella compilazione dei “Quaderni della Fenice” stampati da Guanda verso la fine degli anni Settanta, dove il movente del critico si materializzava nelle scritture che di volta in volta venivano presentate, senza individuare una particolare tendenza, ma cercando di stringere un denominatore comune intorno ai nodi cruciali della parola, intesa come segno e come sostanza. E di voci, soprattutto di voci giovani (nuove o abbastanza inedite da dirsi tali per il pubblico di oggi), Pellegatta ne ha già inanellate otto, compreso l’esperimento di un giovane poeta inglese, di qualità, come Jack Underwood – la cui dizione ricordo il perentorio e duro colpo zoccolo della sintassi in Sylvia Plath – abbinato a Francesca Moccia – tellurica, sciamanica, sibillina – in Wilderbeast. L’uso delle coppie dà luogo imprevedibilmente all’inedito, come nel caso del Sentimento dei vitelli di Luca Minola e Francesco Maria Tipaldi, dove la tensione allucinatoria del primo incontra la fabula, il gioco pieno e pluridimesionale dell’altro. Ancora, da una roccia d’inferno – dalla rocca di una mente infernale, scarna, pietrificata, emergono le materie visive di Silvia Caratti e Mary Barbara Tolusso, riunite in Mea infera caro: un libro dove le trame relazionali, i soggetti e i complementi del verso, vivono di una alterazione maniacale e costante che accende ora il ritmo della parola (Caratti) ora l’intimismo licenzioso dell’incedere (Tolusso). A grandi passi, infine, muoviamo verso l’ultimo libretto, di sapore quasi romanesco, di quel romanzo che vive nella finzione e nelle Memorie della Yourcenar: Qualcosa di inabitato è il luogo dove la scrittura di Carla Saracino e di Stelvio di Spigno prende coscienza di sé, ciascuna per sua parte, delimitando il carattere dell’occasione poetica entro i margini della ragionevolezza prosodica.

Libri, due su tre, illustrati dalle opere di Massimo Dagnino, artista e poeta che con Alberto Pellegatta, aveva diviso le pagine del primo volume di questa serie, Paratassi, pubblicato nel maggio del 2007, quando ancora il testimone della collana era nelle mani del suo fondatore, Pierluciano Guardigli. Paratassi era un titolo già promettente, incisivo, sedimentato e ciò che ne è derivato, fino ad oggi, merita la nostra attenzione.

*

Come invito alla lettura, seguendo un ordine rigorosamente cronologico, si propone di seguito un testo per ciascun poeta fra quelli inseriti nella collana «Poesia di ricerca», così da offrire a uno strumento possibile di verifica.

A. Pellegatta – M. Dagnino, Paratassi, disegni di M. Dagnino, Milano, EDB, 2007.

I fenicotteri si allineano nelle saline
Entrano nelle tue condutture.
La leva è in posizione, in scala,
gli idrocarburi radianti e gassosi
nella grande notte forata.
Raffineria del discorso, luna idraulica.

(Alberto Pellegatta)

*

Ancora quella misteriosa interferenza:
Il pallone fermo sulle acque
Si scioglie, sollevandosi

(Anche il mio corpo sarà ridotto
A un vento di componenti).

Cola l’arancione dei fitti filari
Luminosi: ghiaccia
Nel paesaggio a forte spiovente.

(Massimo Dagnino)

S. Caratti – M.B. Tolusso, Mea infera caro, disegni di M. Dagnino, Milano, EDB, 2012.

È inflessibile la materia e eterna:
se il nostro amore lo fosse
se fosse una molecola,
una cellula impazzita e cancrenosa,
una lenta devastante epidemia
una putrescente cosa?

Ho una sottile propensione per la morte, lo so
e per questo mi detesti e hai ragione
ma le morbide macchine umane sono un mistero
se ti attirano le parti tiepide e indifese,
i fianchi malamente progettati
l’orrore dei miei seni rilasciati.

(Silvia Caratti)

*

Hanno evitato accuratamente la strada
della tenerezza. Trovano un complice
gradito nell’altro corpo, anche
se l’acqua sa un po’ di malessere.

Li sogno con le mani inarcate
e sulla pancia ho una grazia
insuperabile, senza animo.

Non solo il cielo mette a nudo i numeri, le figure.

(Mary Barbara Tolusso)

F.M. Tipaldi – L. Minola, Il sentimento dei vitelli, disegni di M. Dagnino, Milano, EDB, 2012.

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Se un giorno mi perdonerai per essere
morto, senz’avvisarti
animale selvatico
ti restituirò quel bacio e faremo finta
che io viva ancora

perché anima mia, lama di coltello
l’amore non c’avrebbe salvato
l’amore mette le ortiche nelle mutande

(Francesco Maria Tipaldi)

*

Le sostanze sono chiare, piene di radiazioni,
portano il filtraggio, lo spurgo
dalle lunghe ore di sonno.
E gli occhi sono macchiati di giorni,
di precise intenzioni.

Non ci sono altri oggetti da separare,
nelle stanze le memorie sono calendari di luce.

(Luca Minola)

L.M. Panero, Il cervo applaudito, traduzione di I. Pravo, disegni di M. Dagnino, Milano, EDB, 2013.

La bestemmia di essere nato
sulla spiaggia dove brilla la morte
come un cane randagio
come il nulla che cade sulla mia anima
e che sputa sulla vita
e sul mio nome.

(Leopoldo María Panero)

J. Underwood – F. Moccia, Wilderbeast, traduzioni di A. Pellegatta, disegni di N. Pivetta, Milano, EDB, 2013.

Poesia d’amore per me stesso.

I tuoi appetiti basici e i tuoi piedi pallidi rinnovano
la mia fede nell’evoluzione; quando scivoli ubriaco
nella vasca tutta palme di Miami bruciano;
quando penso al tuo sistema nervoso,
al suo mercato nero di filati, circuiti elettrificati,
mi sento esternamente stupido; ti amo, dico e
la stanza suona come se l’aria intorno alla mia pelle
fosse la scorza di qualcosa di citrico.

(Jack Underwood)

*

Le labbra del lupo finanziano l’anima
folte sopracciglia il particolare.
Disserta d’affari gli occhi
d’insetto stringono domande.
Il corpo cullato come fosse un rito sacro.
Ritaglia il gallo la lamiera, invoca il sole
spalanca il becco, strilla.

(Federica Moccia)

S. Di Spigno – C. Saracino, Qualcosa di inabitato, presentazione di M.B. Tolusso, disegni di M. Dagnino, Milano, EDB, 2013.

Diario, 2.1.2004

Andrea è in Francia e io me ne sto qui,
cercando di guarire ma peggioro –
É tremendo
come può avvoltolarsi
la vita intera a un gambo d’ortica,
succhiarne tutto il succo,
bollire sulle labbra, morire di bruciore,
credendolo piacere.

(Stelvio Di Spigno)

*

Di tutti i pensieri abitati – anche col
suono di vocali appena proscritte –
io non oso che un ricordo maggiore
e violato.

(Carla Saracino)

M. Cucchi, Rebus macabro, disegni di A. Ghinzani, Milano, EDB, 2014.

Ho dissipato arte, talento, fantasia,
indifferente all’azione, all’opera, al governo,
ho preferito la quiete orizzontale, l’attesa,
il dolce insorgere impagabile
dell’immagine nelle rêverie
e va a spirale verso il fondo
o quel sopore galleggiante
su un mare increspato solo un soffio,
ondulando su ricci, stelle arancioni,
branchi lentissimi, rottami
di antiche guerre e bastimenti.
Ho dissipato, ma sono ancora qui,
innamorato e ignavo.

(Maurizio Cucchi)

Immagine: Disegno di Massimo Dagnino.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).