Ode a un semaforo

da | Nov 19, 2022

CREPUSCOLO A DELHI

Qadir misura lo spazio
Del pomeriggio e della sera
In un metro di latte.
La sera arriva come il cucu Koel mattutino,
Discorde;
Brumosa,
Attorno ai fari delle auto,
I clacson suonano a un ritmo
Che il corvo affamato
Di Karolbagh
Potrebbe aver udito
In case da incubo accese di sole.
Idris,
Il figlio perduto
Di un cieco pasthun
Pesa sabbia,
Bianca come perdita,
Su una veranda di cieli rotti
In blu Afghanistan.
Ramu,
Mio alleato libraio,
Conosce Catullo per le costole,
Non per gli epiteti.
Una città con strane misure
D’oscurità
Albeggia sulle mie divagazioni
Come la nebbia degli anni.

 

L‘OROLOGIO FERMO A CHOWRINGHEE

Un orologio fermo rispecchia il tempo
Come uno in movimento non può mai fare.
Le lancette girevoli di un orologio –
Che sondano e colpiscono alla mascella la luce,
O la morbida, rosa oscurità
Di notti senza stelle,
Là al di sopra dei lampioni,
Specie all’alba
Quando la notte dimentica un poco
La luce –
Tra un’onda di speranza,
Forse di riconoscimento,
O un gesto circolare della mano –
(Persa per ora
L’opportunità di ricordare) –
Rende la vita balsamo
Per la contusione dei minuti,
Fa del respiro
Un sistema di misurazione.
Fermi gli orologi nelle piazze cittadine
Come le banderuole rotte
Dondolano in mare per un forte vento,
Puntano in alternativa
La terra o il cielo,
Segnano il tempo come un gioco di moralità
Dove agire è sbagliare.
Altrimenti, perché gli orologi di Dalì e De Chirico
Se la giocano in pazienza con piazze dalla faccia da poker?

Attenzione agli orologi funzionanti.
Le loro opere e giorni
Trafiggono il tempo con il movimento.

Si può uscire dalle città con orologi fermi.
Non c’è fuga da quelle con orologi in movimento.

 

 

NON SI TRATTA DI FIUMI: MADURAI

PREFAZIONE DI UN CINICO
La città se n’è andata.
L’ha seguita il fiume.
Ci ha provato il tempio,
Ma è stato rallentato
Dalla distrazione
Dell’artista preso in ore matte
Sulle sue pareti.
La gravità triste di questa partenza riluttante
Gli ha concesso rifugio,
Nel mezzo,
Tra gli spazi delle formule di Ramanujan.

I
Le finestre si aprono come arance
Sotto il seme della mia ombra
In questa città
Dove il fiume è una strada
E una strada diventa il fiume,
Un parvenu nato fuori dal matrimonio
Delle stagioni,
Preliminari di fine marzo con le nuvole,
Si è fatto serio
In una notte.

II
Quindi non si tratta del fiume,
Non delle visite dei bufali che lo rivendicano
In nome di leggi civili.
Non si tratta della città
Dove i poeti sedevano lungo il fiume
E cantavano dei poeti
Che avevano cantato del fiume.

III
Io avevo invece
Osservato questo varco di finestra,
Scorcio fluviale e anonimo,
Osservato i ragni ricondurci indietro
A un tempo dove la luce era tessuta da mani.

IV
Il profumo di una città impaziente
Troppo pronta a languire
In decadenza
Adesca
Il traffico intenso, prepotente
E fa sussultare
Il merlo randagio
Nel sole;
Risale dal fiume
Che non scorre,
Ne è l’esclusiva depositaria
Per l’oblio.

V
Poeti che cantavano, o in abiti scuri,
Lamentavano gli eccessi della lingua
Commessi
Dai primi cantori
Lungo un fiume sinuoso,
Hanno lasciato cadere gli epiteti nel fango
E ora testimoniano nel vuoto
La tragedia del radicamento nelle parole,
La certezza nella fede
Che quelle parole creino e disfino un universo.

VI
I poeti devono essere partiti in fretta:
Impacchettati anche i ricordi
Quando hanno lasciato
Questa città del basalto,
Poi bouganville.
Le loro frasi devono muoversi sulle barene,
Grandi greggi silenziosi che pascolano sulle parole.

VII
Sul ponte Vaikai,
(Tra futuro e passato del traffico),
Ho visto tuoni e fulmini
Sopra Madurai.
Ho ritorto la sera
Attorno a strade di balconi
E drappi d’ombra
Avrebbero dovuto essere eucalipti, acacie e manghi:
Il margine un tempo verdeggiante
Del sogno di un poeta.

Nel profondo dell’estate che mangia la notte,
Come un verme,
Parzialmente perso per le strade
Dove i cani possono prendere il volo
E le immagini non spiegano nulla,
Vago come quell’araldo delle piogge
Che ha perso il messaggio
Presso il fiume dal petto roccioso.
Forse quando verrà il diluvio,
E non ci sarò più,
Sarà il momento di scrivere di nuovo.

 

ODE A UN SEMAFORO

Una luce in fondo al portico della mia attesa.
Il dolore all’estremità nervosa delle galassie
È bianco,
E l’indifferenza alla rabbia
Blu.
Né a nord, né a sud,
Venti della città dai quartieri in cemento
Della bussola
Vorticano
Intorno a questo spaventapasseri che scambia
Occhiate d’intesa col sole al tramonto
E la luna nascente.

È la luce che rende effimero l’esilio
E interminabile:
Il rosario dell’attesa
Quale deve essere detto di nuovo
Come guadare un monsone
Per cogliere la primavera incerta.

Aspetto al semaforo
Come Ulisse
Scruta la pelle sbucciata della luce
Sospesa sulle Cicladi
Per un segno che confermi
Che la casa non è lontana.
La pazienza del desiderio
Brucia l’aria rossa di paura fredda
Come una bobina di fuoco in una miniera di carbone,
Che traccia numeri sulla corteccia
Dell’oscurità
Della notte o del giorno.

Spesso la consolazione del conto alla rovescia
Inizia a settant’anni
E aspetto come i vecchi profeti
Che una promessa e una paura
Si avverino. –
Chiavi armeggiano alla serratura –
Riuscirò a correre all’edicola
Prima che la luce cambi? –
Raccogli le pergamene, Scriba,
E non lasciar cadere la penna –
Prima che la porta si chiuda,
La luce svanisca,
I venti si alzino,
E il semaforo diventi verde e rosso.

Inseguo il semaforo
Come il canto delle sirene,
Contrappunto all’onda della sua musica.
Guardo
Come la spuma dell’invidia greca
Che accerchiava i crepuscoli troiani.
Il mio sguardo reso più acuto
Come il respiro del mare dardanico,
Immagino
Traffico senza legge chiudergli le palpebre.

Si ferma lì:
Dove il battito s’avventura fuori dai sentieri battuti
Di un voto infranto. Un voto
Come un orologio nel profondo
Che affiora al cuore della notte.
Il numero di mezzanotte,
Luce dolorosa che sarebbe andata per la sua strada,
Ma aspetta
Al semaforo,
Mi consola come un’amante,
Rinnegandomi diversamente
Sempre. –
La luce è diventata verde.
Stai calmo.
Non fumare troppo.

(Traduzioni inedite di Mia Lecomte)

Debasish Lahiri vive e insegna letteratura inglese a Kolkata (India). Le sue poesie sono state pubblicate su riviste come «The Journal of the Poetry Society of India», «Muse-India», «Indian Literature», «Inkapture», «The Poetry Salzburg Review», «Mediterranean Poetry», «Weber: The Contemporary West», «Six Seasons Review», «Byword», «The Punch Magazine» e «The French Literary Review», tra gli altri; in traduzione francese in «Siècle 21», «Europe», «Recours au Poème» e «La Traductière»; e in portoghese in «NERVO: Colectivo de Poesia». Ha pubblicato quattro raccolte poetiche: "First Will & Testament" (2012); "No Waiting like Departure" (2016), selezionato da «Scroll.in» e «India Today» come una delle cinque migliori raccolte dell’anno; "Tinder Tender: Poems of Love & Loitering" (2018); e "Poppies in the Post & Other Poems" (2020). "Paysages sans verbes" (Landscape Without Verbs), traduzione francese di una sua selezione poetica, è stata pubblicata a maggio 2021 dalle edizioni Apic, (Algeri/Parigi). "Tether that Light", una raccolta di testi sulle miniature indiane, è in pubblicazione presso Red River Press. Lahiri ha conseguito il Prix-du Merite, Premio letterario Naji Naaman 2019. È membro onorario della Maison Naaman pour la Culture.